(da Americanismo e bolscevismo, in “Nuova Antologia”, 1929)
Il mondo classico e mediterraneo ha esaltato il senso della dignità individuale, della differenza, dell’aristocrazia e della gerarchia: ha posto al di sopra di ogni altro l’ideale della cultura, nel senso di realizzazione di sé, di creazione di «tipi», di viventi opere d’arte esprimenti persone compiute. E nell’autarchia, fiorente dal dominio superbo di coloro che posseggono se stessi, del tipo dorico ed omerico la cui purità è forza e la cui forza è purità, ha riconosciuto la «virtus», che fa comunicare l’umano col non-umano.
La tradizione nostra non ha mai saputo di pietre incatenate nel cemento inafferrabile del vincolo collettivo, della legge meccanica, del despotismo sociale – ma valli e vette, forze a lato di forze e forze contro forze, organizzantesi liberamente in rapporti diretti ed organici – guerrieri, eroici e sacrificali, in atti di assoluto comando o di assoluta dedizione; nuclei fortemente individuati e solari, culminanti là dove l’Imperium fu sentito come la presenza di una forza dall’alto. Quindi organizzazione in senso vero e vivente, non amalgama, non composto. L’individuo qui non è parte impersonale, ma membro collegato direttamente al tutto e costituente una funzione e una modalità di vita distinta ed irreducibile, che non va cancellata o livellata, ma portata ad essere sempre più perfettamente ed intensamente se stessa per la maggior ricchezza e determinatezza del gran corpo del tutto.
La nostra tradizione ha celebrato gli «eroi», ha celebrato i dominatori, ha celebrato gli uomini-iddii. E se, a differenza di certe concezioni semitiche ed asiatiche, non ha staccato lo spirituale da questo mondo terreno, in modo inequivocabile ha tuttavia affermato il diritto sovrano della qualità, dell’idea e della sapienza su tutto ciò che è pratico e condizionato che esse debbono dominare mediante l’atto di persone compiute nello stesso modo che il significato domina la parola e l’anima il corpo. E nella pax profunda propiziata dalla potenza romana diffuse attraverso tutto il bacino mediterraneo la luminosa civilizzazione dell’ellenismo.
Nella sensazione dell’unità immanente, essa destò altri occhi, altre orecchie, altre membra di potenza che non quelle conosciute dai nuovissimi barbari. Invece di materializzare e meccanizzare persino l’umano, essa sentì forze viventi ed immortali in atto dietro a ciò stesso che i moderni chiamano materia e legge meccanica, e stabilì contatti reali con esse a mezzo del rito e del simbolo, onde destò in colui a cui essa dette nome di «dio in carne» (en sarki peripolón theós) il senso di esser «tutto in tutto, composti di tutti i poteri» (Corp. Hermet.), libero come «un mondo nel mondo» (Plotino) pur nel suo non esser che se stesso, nella gerarchia degli esseri. E l’Impero – non la promiscuità bolscevica, non il federalismo e il democratismo delle moderne società – coronava logicamente questa concezione, e la sua gerarchia armoniosa acquistava il senso di riflesso e di simbolo della gerarchia del mondo intellettuale e divino.
È tutta una diversa concezione del mondo, delle cose, della vita, non come una escogitazione filosofica, ma come qualcosa di vivente nello stesso sangue, e trasponentesi come significato in seno a tutte le attività, variamente articolate ma organizzantesi tutti intorno ad un asse unico. La contingenza dei tempi l’ha gradatamente sepolta, e la grande ombra dell’«Ente senza forma» incombe per ultimo come la sua negazione definitiva.
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