Terza ed ultima parte del saggio evoliano sul significato dell’arte moderna nell’ottica della realizzazione della Libertà dell’Individuo Assoluto. Rimandiamo ai redazionali di commento dell’introduzione e della seconda parte del saggio, per riannodare i fili dell’elaborazione in materia del giovane Evola ed i suoi sviluppi successivi.

Una delle più celebri opere dadaiste di Evola – “Paesaggio interiore ore 10,30 (1918-20) (Roma, Galleria Nazionale di Arte moderna)
In questa chiusa finale, in particolare, Evola si soffermava sul significato spirituale superiore che avrebbe dovuto avere l’arte moderna, in cui il contenuto non doveva avere più valore, e la perdita della forma doveva esser funzionale ad un superamento verso l’alto della stessa, ad un ritorno alla purità primordiale, informale e incondizionata, in cui si sarebbe potuta affermare e rivelare la potenza creatrice dell’Individuo Assoluto, innalzatosi nell’autorealizzazione suprema. Come da noi osservato, riecheggia chiaramente in tale prospettiva la dinamica che si ritrova nei miti cosmologici propri a tutte le tradizioni regolari, in cui il Tutto indifferenziato primordiale subisce l’azione del principio attivo, che comporta l’individuazione e la differenziazione.
Evola stesso, con schiettezza, mostrava di comprendere bene quanto fosse difficile spiegare, far comprendere e realizzare fattivamente questo esito estremo: “È una cosa assai difficile dare una idea dello stato spirituale che corrisponde alle ultime realizzazioni dell’arte astratta come pure potere in un qualsiasi modo arrivare non solo a penetrarle e viverle, ma anche soltanto a presentirne il valore, quando non si abbia molto familiare la tecnica dell’«arte pura» oltre che ad avere già in sé un certo grado realizzato [di] quella coscienza estremamente interiore e rarefatta a cui è pergiunto l’autore”.
Evola spiega, confermando la direzione anagogica di tale percorso, che la via che conduce a tale dimensione spirituale è “dura e dolorosa” come un’ascesi mistica, e cita al riguardo due mistici medievali del calibro di Ruysbroeck ed Eckhart. Il “complesso incoerente di stati vitali oscuri, intimi, allarmati che, come sperduti in un’atmosfera diafana in cui un senso di sogno o di delirio va pian piano trasmutandosi e chiarificandosi sino ad una rarefazione solare”, per mezzo del quale doveva manifestarsi l’arte informale moderna, non doveva quindi essere inteso come un delirio ed una follia in sé, ma come una dimensione del tutto estranea a quella del vivere comune, dietro la quale “vive in una luminosità metallica il senso dell’assoluta libertà dell’Io”.
In questa dimensione, l’arte (o meglio questa via totalmente “metartistica” o “antiartistica”, come detto dallo stesso Evola, se per Arte si ha come riferimento la concezione classica della stessa) diventa puro valore individuale, deve perdere di oggettività e di forma, nel senso comune del termine. L’opera d’arte non doveva più risultare il frutto di una forza agente dall’alto, manifestantesi tramite l’artista, e pertanto non poteva più essere suscettibile, nel rivelarsi nella propria oggettività, di una comprensione automatica sulla base di concetti a priori; sarebbe dovuta diventare, al contrario, manifestazione dell’assoluta libertà dell’Io, svincolato da giudizi e/o categorie a priori, sia in fase creatrice (autore) che ricreatrice (spettatore), in modo tale che la potenza del giudizio estetico venisse disirrigidita e resa assolutamente dipendente dalla volontà dell’Io medesimo.
Pericolosa individualizzazione estrema, se non rettamente intesa, anche perchè a tale dimensione, come detto, doveva giungere non solo l’autore, ma anche e soprattutto lo spettatore. Infatti, spiega Evola, è quest’ultimo, e non più l’autore, il vero creatore dell’opera d’arte, e quindi “il valore estetico non esiste in sé nell’opera d’arte, ma è concepibile soltanto in funzione di una interpretazione e di una ricreazione così che dipende a priori dalla volontà individuale, quale le varie determinazioni di sentimento e di cultura l’hanno formata”.

Storica copertina disegnata da Evola per il suo opuscolo “Arte astratta” scritto per la Collection Dada (1920)
Ma se tale processo non si innesca e non giunge a compimento, né nell’autore che crea, né nello spettatore che ricrea, il risultato, lo dice subito Evola stesso, è che “nell’arte ultimissima ciò che si presenta allo spettatore in sé è letteralmente nulla”. E, di fatto, ciò è quel che sarebbe accaduto, come abbiamo avuto modo di commentare, e come Evola stesso riconobbe (e lo vedremo in future pubblicazioni). Questo eccezionale processo “ascetico”, eventualmente riconducibile a poche, straordinarie individualità, non poteva divenire fenomeno più ampio, o addirittura di massa. Pertanto, come detto, la perdita del contenuto e dell’oggettività dell’opera d’arte e l’autocombustione delle forme nel caos primordiale, non sarebbe stato funzionale ad un superamento verso l’alto, ad un ritorno all’incondizionato e all’informale in grado di attivare l’Io in funzione creatrice (una sorta di auto-divinificazione dell’Io, che si fa Dio e creatore: in fondo, una forma estrema di idealismo, quello che poi Evola stesso avrebbe criticato in Gentile, anche perché in quest’ultimo del tutto chiuso a reali aperture verso l’alto).
Né, in mancanza di tale effetto sovraordinato, l’opera si sarebbe soltanto manifestata come un “nulla”. Infatti, anziché andare oltre la forma, per giungere a ciò che le la trascende, si sarebbe scesi a ciò che sta al di sotto di essa, “giungendo non ad un superamento, ma ad una degradazione” (Evola, 1939), poiché tramite il deforme e l’informe avrebbero trovato manifestazione le forme psichiche più oscure ed irrazionali, il delirio del subconscio, la follia del demonico, la “prorompenza informe di contenuti psichici dissociati” (Cavalcare la tigre). Con tutti gli effetti deleteri che, a causa della penetrazione di forze oscure attraverso tali “fenditure” apertesi dal basso, possono prodursi, sia in chi realizza, sia in chi è chiamato a conoscere, inrerpretare ed, eventualmente, “fare proprie” tali “opere”.
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Nell’immagine in evidenza, Tristan Tzara ed Evola: tra i due, che si conobbero personalmente, ci fu un’intensa corrispondenza intercorsa tra il 1919 ed il 1923, per un totale di circa una trentina di documenti tra lettere e cartoline. Il tutto è raccolto e commentato nel quaderno n. 25 della Fondazione Evola “Lettere di Julius Evola a Tristan Tzara (1919-1923)”, a cura di Elisabetta Valento.
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di Julius Evola
appendice ai “Saggi sull’idealismo magico” (1925)
È una cosa assai difficile dare una idea dello stato spirituale che corrisponde alle ultime realizzazioni dell’arte astratta, come pure potere in un qualsiasi modo arrivare non solo a penetrarle e viverle, ma anche soltanto a presentirne il valore, quando non si abbia molto familiare la tecnica dell’«arte pura» oltre che ad avere già in sé un certo grado realizzato [di] quella coscienza estremamente interiore e rarefatta a cui è pergiunto l’autore (ché soltanto il simile può comprendere il simile). Chi, non disponendo di tali condizioni, si accosti all’arte astratta cosi come potrebbe accostarsi per esempio a quella di uno Shelley o di un Beethoven, non può trovarvi che un insieme incoerente ed incomprensibile, ed allora dovrà ben sdegnarsi e stupirsi della stessa possibilità di simili manifestazioni.
La coscienza astratta, realizzata dall’ultimissima estetica, è infatti un altro piano – quasi un’altra dimensione – dello spirito, che con quello in cui si svolge tanto la vita quotidiana pratica e sentimentale, tanto il valore risuonante sulle «grandi grida dell`umanità tragica», non ha nulla a che fare; e la via che porta ad essa è dura e dolorosa, ché lungo di essa occorre ardere tutto ciò che abitualmente vale agli uomini come la vita più intima e più vera. Se perciò si chiedesse un punto di paragone, lo si potrebbe forse soltanto indicare in alcuni mistici, per esempio nell’interiorità atona e gelidamente ardente di un Ruysbroeck e di uno Eckhart (12). Nell’arte astratta un tale valore non è però, come in questi due autori, una luce uniforme e solitaria, bensì viene esalato unicamente da un complesso incoerente di stati vitali oscuri, intimi, allarmati che, come sperduti in un’atmosfera diafana in cui un senso di sogno o di delirio va pian piano trasmutandosi e chiarificandosi sino ad una rarefazione solare, hanno suoni e moti in sé inesplicabili. Una logica assolutamente diversa da quella di tutti i giorni regge questa sfera: in essa tutte le luci più famigliari e gloriose divengono pallide come le deboli vegetazioni dei sotterranei, la comune volontà vi barcolla come ubriaca, le stesse parole emanano un senso incomprensibile di lingua straniera. Si direbbe che in essa ogni realtà si disgreghi, pompata della sua vita dall’estrema rarefazione, e rientri in un caos elementare «secco ed ardente, ardente e monotono». Ma a quei che ha interamente penetrata l’arte astratta, appare che questo incoerente, questa follia non è che un’apparenza, dietro la quale vive in una luminosità metallica il senso dell’assoluta libertà dell’Io; che essa non è che una ultima veste sottile che vela e, con questo, rivela il possesso in sede estetica di quella purità informe ed incondizionata, che è la nuda potenza e l’origine di ogni forma e d’ogni ordine. L’arte diviene qui, essenzialmente, autorivelazione.
Ciò si può mostrare da un altro punto di vista. Come si è accennato, per le tendenze con le quali si termina lo sviluppo dell’arte astratta tutto può essere ciò che il Cocteau indica come «oggetto di poesia»: il valore estetico è contingente, e l’artista può con esso potenziare a suo arbitrio una qualunque determinazione, sia che essa sia costruita con i vari mezzi espressivi propriamente estetici, sia che essa invece resti un elemento immediatamente tratto dall’esperienza volgare. Così si è giunti ad affermare che tanto la Gioconda, quanto un biglietto di tram incollato su un cartone possono essere ad un egual grado opere d’arte per il dada. Ciò dal punto di vista dell’autore. Ora dal punto di vista dello spettatore si può considerare – non tanto per il suo valore intrinseco quanto piuttosto in vista di ciò che può venire dalla risposta – l’obbiezione, che dato anche che si riesca a raggiungere quell’estrema sensibilità e quell’astrazione che sono necessarie per non vedere nelle ultime realizzazioni dell’arte astratta altro che delle bizzarrie e delle incoerenze, resta la quistione di sapere come, dato che non vi è più nessuna base concreta, ci si possa assicurare di aver penetrato realmente ciò che l’autore ha vissuto e che invece ognuno non capisca a modo proprio.

Tristan Tzara ritratto da Robert Delaunay (1923)
Ora Tristan Tzara, iniziatore del movimento dadaista, espone nel già citato Manifeste de l’amour faible et de l’amour amer (p. 77) questa strana regola per fare un poema dadaista.
«Prendere un giornale, una forbice e, in questo giornale, un articolo della lunghezza che desiderate dare al vostro poema. Ritagliate l’articolo e poi, con cura, ognuna delle parole che lo compongono e mettetele in un sacchetto. Agitate dolcemente. Prendete infine i ritagli l’uno dopo l’altro e copiate coscienziosamente. Il poema vi rassomiglierà. Ed eccovi uno scrittore infinitamente originale e di una sensibilità incantevole, benché non ancora compresa dalla massa».
Questa non è una presa in giro: vi si superi la forma volutamente paradossale – alla quale i dadaisti tengono furiosamente – ed allora in essa si ritrova una profonda verità: e cioè che non l’autore, ma lo spettatore è il creatore dell’opera d’arte (Wilde), che il valore estetico non esiste in sé nell’opera d’arte, ma è concepibile soltanto in funzione di una interpretazione e di una ricreazione così che dipende a priori dalla volontà individuale, quale le varie determinazioni di sentimento e di cultura l’hanno formata.
Artistica non è invero da dirsi una certa opera in sé stessa bensì una certa funzione dell’Io, secondo la quale questi fa divenire un dato oggetto della sua esperienza ciò che poi verrà definito come opera d’arte. Ora esperienza, ha nell’uomo normale soltanto un grado assai scarso di libertà: essa è in preferenza attirata, come una forza lungo la linea di minor resistenza, da una certa classe di oggetti – che sono quelli che poi, con una convenzione più o meno esplicita, vengono fissati come le «vere» e universali opere d’arte; e ciò, perché essa potenza è interiormente formata in determinazioni in una certa misura uniformi e persistenti, a cui l’lo dell’uomo normale aderisce e di là dalle quali egli non si dà la pena di riaffermare una libera vita. Come in un certo modo lo vide Kant nella Kritik der Urteilkraft, l’universale riconoscimento come belle di alcune opere d’arte e, si aggiunga, di alcuni oggetti dell’esperienza in generale come opere d’arte, ha per unico fondamento quello soggettivo dell’essere la potenza del giudizio degli uomini conformata in date determinazioni in modo pressoché analogo in tutti. Ora si supponga che l’individuo si sia elevato ad un grado di autarchia tale, che egli possa astrarre da ogni determinazione di cultura, sentimento e eredità – e cioè di quel partito preso congenito e quasi sempre inconscio con cui ci si pone dinnanzi a quadri e poemi oltre all’idea a priori, feconda di fatti autosuggestivi, che si ha a che fare effettivamente con dell’arte – e che quindi possa disirrigidire la potenza del giudizio estetico e renderla assolutamente dipendente dalla propria volontà: allora risulta chiaro che «artistico» e «bello» non sarà più un gruppo particolare e quasi fatale di oggetti, ma che tutto sarà specchio in cui egli potrà ritrovare sé stesso: e lo stesso poema costruito secondo la regola dello Tzara sarà, o meglio, porrà divenire veramente un poema e un mio poema (13).

‘ABCD’, Collage dadaista di Raoul Hausmann (1923-24)
Dal punto di vista strettamente idealistico, il processo creativo di attribuzione di valori estetici è anzi da considerarsi come identico tanto per una opera d’arte dadaista che per una classica. La differenza sta in ciò: che presso al momento della fissità di alcune determinazioni nel giudizio, l’opera d’arte risulta in un certo modo data, essa s’impone quasi da sé, e la comprensione è in un certo modo automatica. Così l’opera d’arte ancíen régíme non permette che un numero assai scarso di alternative alla libertà dello spettatore. La cosa invece cambia completamente nell’arte moderna, in quanto principio di essa è, come si è visto, la libertà: tanto più si va verso le ultime fasi dell’arte astratta, tanto meno nell’opera il valore ha un carattere di fatalità, tanto meno l’artistico si presenta come fatto, e tanto più invece lo spettatore è tenuto ad una reale spontaneità, ad una libera ricostruzione se ciò che gli si presenta dinnanzi deve avere per lui un qualunque significato. Sicché nell’arte ultimissima ciò che si presenta allo spettatore in sé è letteralmente nulla, lo stesso appoggio della corrispondenza oggettiva viene meno e se lo spettatore da tale non si fa letteralmente un autore, il valore estetico resta una vuota parola. Ma c’è di più: l’arte modernissima è come si è detto tale, che divenire autore non si può, se non superando ogni determinazione rigida della facoltà del giudizio, rendendosi sufficiente ad un’indeterminata libertà, capace di trasfigurare esteticamente ogni determinazione in modo indifferente. Onde, in chi sappia seguirla e comprenderla nel suo sviluppo, l’arte moderna assurge al valore di una vera catartica; nel suo estremo punto, l`opera d’arte nel dire allo spettatore: «fatti un autore!» dice altresì: «sperimenta te come nuda, incondizionata libertà, come ciò, per cui tutto può essere indifferentemente brutto o bello non appena tu voglia!». Da qui il suo valore morale.
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L’opera originalissima e audace di T. Tzara, G. Ribemont-Dessaignes, H. Arp, K. Schwitters e Kandinsky (14) si può dire che suggelli con un’affermazione definitiva tutto quel complesso di tendenze che, a partir dal Novalis e da F. Schlegel, operarono in varia guisa, e spesso in modo inconscio, nell’estetica moderna per la realizzazione dell’arte come valore individuale.

Composizione VIII di Vasilij Vasil’evič Kandinskij (1923)
D’altra parte essa segna un punto-limite: in un certo senso sia l’arte propriamente detta, che l’arte in generale come espressione, in essa compie la propria dissoluzione – cosa che del resto fu intesa in piena consapevolezza dal dadaismo. E che dato che per arte s`intenda quell’attività, che ha essenziali i caratteri di medianità e di subordinazione dell’Io attraverso la spontaneità e la genialità ad un universale, la coscienza moderna, in cui si è affermato il principio dell’individualità autonoma, ha posto una barriera, di là dalla quale l’arte non può continuare, che come consumazione di sé in quanto tale. Onde riesce del tutto comprensibile l’opinione di quelli che, fissi in un ordine tradizionale, di contro all’arte moderna affermano che non si ha più a che fare con dell’arte, o che l’arte è morta: a dir vero, dal simbolismo al dadaismo si tratta di scuole che nella loro intima essenza sono affatto metartistiche, quando non addirittura antiartistiche. Ma ciò procede da una storica necessità ed ha un valore a priori.
E che l’arte, secondo il suo concetto, è il residuo di una vita fatta di spontaneità, anteriore ancora allo stesso principio della persona, e come l’istinto va man mano consumandosi nella mediazione della ragione e della volontà, così essa è destinata a scomparire come una categoria superata presso a nuove forme di sviluppo spirituale e che ne continuino e ne portino innanzi la verità. Senonché la fase e il gesto del suo scomparire – il suo autonegarsi ed autoironizzarsi nell’arte astratta – realizza essa stessa all’Io una esperienza piena di significato. Il ritmo del riconquistarsi secondo libertà nel punto originario e interiore di ogni porre, del superare ogni «grazia» in un’assoluta positività e, quindi, di riaffermare la propria volontà su quanto la trascendeva e ne condizionava la produzione feconda, è infatti, a dir vero, il ritmo stesso della realizzazione magica.
Così l’arte moderna – o la consumazione dell’arte – che su di un tale ritmo si costruisce, va a dare all’Io il senso di questa realizzazione in una anticipazione o imagine formale, cioè in una affermazione limitata al campo della fantasia soggettiva, dei suoni, delle parole e dei colori. Soltanto in un tale campo, cadente fuori dalla potenza oggettiva della realtà, l’Io, nel dadaismo, sperimenta il compimento dell’assoluta libertà, se pure con un’accentuazione di vita e di interiorità che manca all’esperienza realizzata su un piano analogo dallo sviluppo della speculazione sino all’idealismo trascendentale. Già Novalis, di contro a chi rimproverava ai poeti di giuocare nella loro fantasia a loro arbitrio con il mondo reale, affermò che i poeti in realtà sono ancora ben lungi dall’esagerare abbastanza; che solo oscuramente sospettino la magia del loro linguaggio; che ancora non sappiano che trastullarsi con la fantasia così come si trastulla un bambino con la bacchetta magica del padre – ignorando quali forze sono loro soggette, quali mondi debbono loro obbedire (15).

Kurt Schwitters, “Ja – Was? (“Sì, cosa?”) (1920)
L’artista vada ad approfondire quell’esigenza, che gli ha fatto generare l`arte moderna, allora si troverà portato a riaffermare quel ritmo di liberazione e di autoaffermazione – che ha appreso in sede estetica – nella dimensione più profonda della vita reale, ed a comprendere quindi, con Lao-tze (16), l’arte stessa come l’immobile scalpitìo o propedeutica (Lehrjahre [anni d`insegnamento], diceva Novalis) di un ulteriore slancio. Poiché il regno della «grazia» è ben lungi dal limitarsi all’ambito della produzione estetica: come la volontà dell’artista medianico è resa produttiva da un principio fecondatore che cade fuori di essa, così ogni atto della vita dell’individuo normale presuppone, per la sua riuscita, un insieme di leggi e di determinismi (fisici e fisiologici), che gli aggiungono come una trascendenza, come qualcosa di cui egli non ha il principio entro di sé. Ora adeguare la volontà a sé stessa e al proprio effetto, renderla perfetta non più nell’ambito della creazione artistica, bensì in quello della vita reale quotidiana, significa passare all’idealismo magico. Le categorie di questo sono ciò in cui si continua la storia ideale dello spirito di là dall’arte moderna (17). La poesia futura sarà quel che viene espresso dalla sua stessa parola (ποιησιϛ, da ποιείν): azione; l’Io stesso, l’autocreazione, sarà l’oggetto della futura opera d’arte.
Il perpetuarsi dell’arte, di fuori da ciò e dopo l’esperienza compiutamente (18) realizzata dall`estetica moderna, non potrà più rappresentare che un piétiner sur place, un ritorno o una sopravvivenza – in ogni caso l’automatismo di un troncone motto tagliato fuori dallo sviluppo.
Note
(12) Sono fra i maggiori mistici del Medio Evo: il tedesco Johannes Eckhart, detto Meister (Maestro) Eckhart (1260 c. – 1327), che riprese la tradizione neoplatonica di Proclo e la teologia di Dionigi Areopagita e di Scoto Eriugena; e il Fiammingo Jan Ruysbroeck o Ruusbroec (1293-1381), che fuse l’ascetismo monastico cristiano con il misticismo tedesco di Eckhart (N.d.C.).
(13) Conformemente a ciò, nella già citata Arte astratta si è affermato che il consensus gentium, l’universale riconoscimento attesta non il valore, ma il disvalore di un giudizio estetico; giacché questo tanto più ha valore per quanto più è individuale, v.d. per quanto più la sua affermazione è unica, irreducibile ad una qualunque uniformità. A ciò potrebbe forse assentire il Tilgher, spingendo a fondo la sua teoria dell’arte come originalità.
(14) Per tutti questi dadaisti si vedano le Lettere di Julius Evola a Tristan Tzara (1919-1923), a cura di E. Valento, Fondazione Julius Evola. Roma, 1991 (N.d.C.).
(15) Novalis, op. cit. (Die Lehrlinge zu Sais), p. 138.
(16) Lao-tze, trad. cit., c. XLV.
(17) Il luogo gerarchico della categoria dell’arte rispetto alle altre categorie della cultura e a quella dell`assoluta autorealizzazione, cosi come la costruzione generale delle varie fasi del processo dell`individuo nella loro totalità sarà esposto nell’opera: Teoria dell’Individuo assoluto.
(18) Tale affermazione di compiutezza suonerà strana a chi l’arte non intende formalmente, come categoria e simbolo di una cena esperienza spirituale, bensì materialmente, secondo un criterio riposto nella produzione artistica in sé stessa. Chi va a chiedere all`arte moderna il «capolavoro» resta fermo a questa stregua materiale di considerazione e non potrà mai essere soddisfatto per la semplice ragione che il «capolavoro» dell’arte moderna sta altrove, non nella produzione di un’opera perfetta, organica e compiuta, bensì nella realizzazione di un nuovo modo di vivere la funzione estetica (e cioè non più secondo spontaneità e religiosità, bensì secondo il dominio dell’individuale) rispetto alla quale realizzazione di ciò che viene prodotto rappresenta un momento secondario e trascurabile. Ora questa realizzazione è stata dallo sviluppo sopra descritto raggiunta in tutta la perfezione desiderabile.
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