Seconda parte dell’articolo che Evola pubblicò su “La Vita Italiana” nel marzo 1939 col titolo di “sadismo ed arte modernistica” in cui, partendo dalla recensione del libro “La rivolta contro il Bello” del pittore, scrittore e critico d’arte americano di John Hemming Fry (1861-1946), il barone tornò sull’argomento dell’arte moderna e contemporanea. In questa seconda parte, Evola fornisce al lettore uno straordinario giro d’orizzonte, spaziando dalla rivoluzione francese quale punto di partenza della degenerazione anche in campo artistico, alle osservazioni sul ruolo ausiliario dell’arte moderna rispetto ai processi di “guerra occulta”; dal “bolscevismo culturale” all’analisi dei rapporti tra arte, industrialismo e tecnica, tra architettura razionale, estetica e forma, fino ad un fondamentale commento finale. In esso, Evola si sofferma sul concetto atemporale di “classico e tradizionale” in campo artistico ed illustra la dialettica tra forma e perdita della forma, con l’analisi delle delicate fasi di transizione intermedie, in cui le forze lasciate libere possono essere incanalate verso nuove forme compiute ed assolute, espressioni specifiche del Principio atemporale, o indirizzate verso la distruzione pura, fine a sé stessa e funzionale al culto della deformità, quale trionfo del demonico e dell’infero.
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Nell’immagine in evidenza, il palazzo che ospita la Sede degli Uffici Nazionali Olandesi a Praga, in pieno centro, accorpato ad altri edifici storici, e ribattezzato la “Casa danzante” (1994-96). Fu progettata dall’architetto croato Vlado Milunić in cooperazione con l’architetto canadese Frank Gehry, uno dei principali esponenti dell’architettura decostruttivista, fondata sul rifiuto della purezza formale e della geometria euclidea. Le strutture di questo stile sono dominate da un senso costante di instabilità, deformità e disarticolazione, si torcono “disperatamente” su sé stesse, cercando un equilibrio nell’assenza di un ordine e nel dominio totale del caos. Un perfetto esempio di degenerazione artistica e di perdita della forma in campo architettonico.
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di Julius Evola
Tratto da “La Vita Italiana”, XXVII, 312, marzo 1939
segue dalla prima parte
Nel riconoscere che la Francia è stata all’avanguardia dell’arte modernistica e fu il focolare da cui poi essa si è irradiata dappertutto, il Fry fa una acuta osservazione.
Ciò non è avvenuto a caso – egli dice – ciò ha la sua logica. La Francia è stata la nazione nella quale, per prima, si liberarono e trionfarono, con la rivoluzione giacobina, sul piano politico-sociale, forze esattamente dello stesso tipo di quelle che dovevano presiedere all’arte modernistica: forze d’odio contro la tradizione, contro l’ordine, contro la casta, contro la legge, contro il principio di autorità dall’alto. La Rivoluzione francese fu un prorompere appunto della volontà di caos e di distruzione connessa agli elementi sociali più bassi, ed è su questa base, attraverso una trasposizione sul dovuto piano avvenuta attraverso le vie dell’inconscio, che proprio la Francia fu poi la culla dell’arte modernistica.
Peccato che l’autore non abbia dato più ampi sviluppi a questa idea. Nella misura in cui l’arte moderna sia effettivamente l’espressione di forze di caos in rivolta contro le forze della forma e dell’ordine, è logico che esista una stretta relazione fra essa e le correnti che, in altri campi, agiscono su questa stessa direzione, rappresentando una emergenza distruttrice di tutto ciò che è inferiore, congiunta ad un sadistico piacere per la distruzione e l’avvilimento di quel che è superiore: relazione, dunque, con tutto ciò che è bolscevismo, anarchia, internazionalismo livellatore, ebraismo. L’espressione nuova di «bolscevismo culturale» applicata all’arte modernistica a tale stregua riceve una seria giustificazione che nulla ha a che fare con espedienti polemici o politici: indica affinità d’ordine profondo, quasi metafisico. Per quanto consideri soprattutto la relazione di quest’arte con la democrazia, la quale segna l’avvento e il prepotere, nelle gerarchie sociali di elementi inferiori, ed è il fenomeno predominate nel suo paese, pure il Fry non manca di spiegare in questo senso il fascino che:
«l’arte sadistica esercita sui socialisti, sui comunisti e sulla gente di tendenze letterarie avanzate. Una statua deformata e un brutto quadro rappresentano un simbolo di rivolta più profondo e più significativo di falce e martello, perché falce e martello si riferiscono a situazioni circostanziate nello spazio, mentre la creazione della bruttezza ha la portata di una rivolta contro i processi normali di via dell’universo, di una negazione del fine fondamentale perseguito dallo spirito universale».
In realtà, da questi spunti si potrebbero trarre utili direttive per fare una specie di psicanalisi dell’arte modernistica e degli ambienti in cui essa prende piede, per scoprire i retroscena inconsci del suo sviluppo e del suo successo e, infine, il suo significato di ausiliario della «guerra occulta» (1).
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Quanto alla relazione dell’«arte sadica» con il mondo dell’industrialismo e della tecnica, egualmente sostenuta dall’autore, essa si presenta meno semplice. Essa è evidente dovunque questo mondo significhi livellamento, standardizzazione, prepotenza del banale, dell’uniforme, del fatto a serie, del quantitativo e del «conforme»; giacché tutti questi sono parimenti aspetti di una distruzione spirituale, della regressione nell’indifferenziato, in ciò che è interiormente e qualitativamente informe. Essa è anche evidente in quell’aspetto speciale del «macchinismo», per via del quale la macchina costituisce il trionfo dell’inorganico sull’organico, dell’automatico e, appunto, del meccanico su tutto ciò ch ha volto, anima, personalità.
Una riserva però, si impone, nel senso che nella macchina non si può certo vedere, anche, un trionfo dell’informe e del caotico, il quale, in un confronto, se mai apparirebbe maggiormente rappresentato nel mondo animale e vegetale. Si avverte una certa incongruenza nel fatto che il Fry, mentre da una parte esalta la forma e vi concepisce, nietzschianamente, lo stile di una potenza perfetta e compiuta, dall’altra avversi aspramente l’arte modernistica anche in quelle forme architettonicamente funzionali, che sembrerebbero procedere nel modo più rigoroso appunto da una tale estetica, rifacendosi al simbolo che la macchina costituisce. Secondo il Richards, che l’autore cita,
«l’ufficio naturale della macchina non è di produrre ornamenti, ma di produrre linee che esprimono la funzione, la modalità d’azione e il materiale».

Il rettorato dell’Università La Sapienza di Roma, esempio plastico di arte razionalistica, in cui funzionalità ed estetica si conciliano in una sintesi formidabile (cliccare per ingrandire)
Da ciò prendendo lo spunto, l’architettura razionale o funzionale concepisce la bellezza e lo stile come cosa inestricabilmente legata alla funzione, all’oggetto e della costruzione, epperò alla scienza con cui l’uomo nel modo più adeguato e rigoroso ha piegato le forze della materia in una forma corrispondente al suo volere. Essa respinge ogni motivo inorganico, decorativi stico, artificiale di bellezza. Presso al “Conosci te stesso”, nel tempio di Delfi vi era un’altra scritta, meno nota: «Nulla di troppo». Su questa base, ci sembra difficile disconoscere una tendenzialità classica e anzi «dorica» all’architettura funzionale, che dunque le conferisce un certo carattere distintivo rispetto all’arte «sadica» e degenerata in genere. Ciò, in pura linea di principio, e dal punto di vista di una estetica che salta così dichiaratamente tutto ciò che è forma e organicità. Non neghiamo che, nella pratica, l’architettura funzionale finisca spesso in creazioni manierate e artificiali quanto quelle conto le quali la sua polemica si dirige, così come in forme piatte e indiscutibilmente banali e brutte. Non sapremmo però dire se questa piattezza e banalità siano superiori on inferiori a quelle dell’ornamentismo da pasticceria e agli stili floreali e liberty propri così spesso a certe costruzioni ottocentesche.
Più peso, può, se mai, avere l’accusa di internazionalismo e, quindi, di livellamento e di regressione nell’indifferenziato che l’architettura funzionale, nella gran parte delle sue forme attuali, attira contro di sé in modo inevitabile, giacché il suo punto di partenza è lo stile dipendente dalla pura tecnica, dalla scienza, dal materiale, tutte condizioni che al giorno d’oggi sono pressoché uniformi per ogni popolo. Si deve però riconoscere che anche a questa stregua il «sadismo» dell’architettura moderna appare alquanto ridotto e si può porre il problema, se il suo uniformismo non dipenda piuttosto dalla mancanza di menti veramente creative, capaci di modulare in modo differenziato e nazionale il principio classico del «nulla di troppo», del disprezzo per decorativismo, dell’amore dello stile come pur forma che esprima direttamente il trionfo della conoscenza umana sulle forze della materia.
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“Zodiac” di Alphonse Mucha (1896), uno dei più grandi esponenti dello stile Liberty o Art Nouveau
Ci siamo soffermati sull’architettura funzionale, a considerarne senza partito preso il significato, giacché considerazioni analoghe possono farsi nel riguardo del problema dell’arte moderna in genere. Se noi siamo d’accordo in quasi tutto col Fry nella sua critica, non lo siano altrettanto laddove egli accenna all’arte che deve servir da antitesi a quella «sadica» e degenerata. La soluzione non può essere il tornare all’arte di ieri o di avantieri. È sempre un errore dei reazionari quello di rifarsi a forme, le quali sembrano valide solo perché contengono lo stesso male, contro cui si combatte, in forme più attenuate e diluite e per ciò stesso meno visibili, mentre esse di ciò che è veramente originario contengono solo un riflesso e quasi una sopravvivenza. Ben ci guarderemo quindi dallo scendere in campo contro l’arte modernistica, quando ciò dovesse significare ritorno ad un’arte borghese, ottocentesca, piattamente accademica, oleografica, melodrammatica e convenzionale: come tale, quanto mai contraddittoria con lo spirito di questo tempio fatti di azione e di dura volontà.
Si tratterebbe, piuttosto, di una ripresa classica e tradizionale, però secondo il significato più profondo e originario di tali termini. Il Fry rileva giustamente che il segreto del successo di Mussolini risiede nel fatto che egli ha risuscitato i principi su cui poggiava l’organizzazione politico-sociale dei Romani e li ha modellati in modo che possano adattarsi alle esigenze della vita moderna: «nel che è riposta la vera tradizione classica». Con ciò egli stesso previene l’equivoco proprio a chi considera come classicismo o tradizione una determinata forma storica del passato e la riesumazione o la copia di una tale forma. Classico e tradizionale è, invece, un dato modo di essere, di concepire, di creare, insomma uno «stile», che avrà avute sue specifiche manifestazioni in certe epoche, ma che pur tuttavia vale soprattutto come una possibilità perenne dello spirito. E a questo «stile» classico è effettivamente proprio l’amore per la forma, concepita non estetisticamente, bensì come potenza che dà a sé stessa un preciso limite, come dominio, come kosmos vittorioso su chaos, come dispezzo per tutti i clichés del «grazioso», dell’ornamentale, del pateticamente romantico. È , in fondo, un ritorno al primordiale, il quale non significa per nulla «primitivistico», come nell’errore dell’arte sadica, la quale, per una legge di affinità, è andata a riconoscersi nei residui di una civiltà degenerescente decaduta in forme di selvaggia primitività, e l’ha supposta «originaria»: ma significa invece semplicità e potenza e alta tensione di forze pure.
Anche concependo nella natura e nello sviluppo delle civiltà tante fasi o tappe di un processo verso la forma, sta di fatto che un tale processo non può considerarsi come assolutamente privo di iati, di interruzioni. Una data forma si mantiene dominante, fino a che le possibilità vitali ad essa proprie, e per le quali essa era forma vivente e simbolica, adeguata espressione di un determinato significato, non siano esaurite: dopo di che essa non rappresenta più che uno schema svuotato, che sopravvive o si riproduce automaticamente, mentre le forze, a cui essa prima corrispondeva, passano oltre, in cerca di una nuova soluzione di equilibrio, di una nuova forma. Questo può esser quindi il punto di una crisi, e tali forze possono sembrare, rispetto alla forma precedente, che pur tuttavia proprio da esse sorse a vita, come distruttrici e disgregatrici nella fase di transizione, ove esse tornano allo stato libero, avendo abbandonata una forma e non avendone ancora trovata un’altra.
Siffatti momenti – più che tipici per i tempi moderni – sono peraltro quelli di una alternativa fondamentale. La volontà sadica, il vero istinto di negazione è quello che ne approfitta non per condurre le forze libere a nuove forme, ma per volgerle alla distruzione pura e semplice, per uno scatenamento amato in sé e per sé, per l’evocazione e la celebrazione dell’elemento infero, caotico, diciamo pure demonico, che le forme precedenti avevano arrestato formato e assoggettato ad una data legge. Per contro, la volontà classica, dinanzi alla stessa situazione, assume tali forze pure né per tale uso sadistico, e nemmeno per riportarle a quelle forme esaurite, dalle quali già si erano disciolte, bensì per raggiungere di nuovo la profondità e la primordialità, dalla quale scaturisce una nuova formazione assoluta.
Un tale inquadramento, secondo il nostro parere, non vale solo a chiarire il vero problema dell’arte moderna, ma anche a individuare il senso di molti rivolgimenti contemporanei in altri dominî, tutta la nostra epoca essendo effettivamente un mondo di forze scatenate e rivoluzionarie che, esaurite le soluzioni di equilibrio relative all’epoca che immediatamente ci precedette, sono in cerca della loro forma; né la troveranno, prima che sorgano grandi personalità capaci di riaffermare, senza compromessi, la potenza dello spirito classico e tradizionale, dominatore e formatore.
Nota
(1) Sul ruolo dell’arte moderna nell’ambito dei processi distruttivi connessi alla “guerra occulta” condotta dalle forze sovversive contro la Tradizione, si veda il significativo paragrafo “E la CIA inventò l’arte moderna“, contenuto nel capitolo IV del volume “La fabbrica della manipolazione“ di Enrica Perucchietti e Gianluca Marletta, Arianna Editice (2014), che può essere letto qui: http://www.azionetradizionale.com/2015/10/13/quando-la-cia-e-i-rockefeller-inventarono-larte-moderna/ .
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