Prima della pausa estiva ci eravamo soffermati su un’analisi dell’Evola artista e critico d’arte, pubblicando in tre parti il saggio “sul significato dell’arte modernissima”, del 1925, che costituiva la trasposizione di una Conferenza tenuta da Evola all’Università di Roma il 16 maggio 1921 e che fu pubblicato in appendice ai “Saggi sull’idealismo magico”.
Rimandiamo alla lettura di quel saggio ed ai redazionali di commento per ricostruire la trama dell’elaborazione evoliana in materia artistica, con particolare riferimento all’arte moderna ed astratta. L’articolo che presentiamo a partire da oggi, diviso in due parti, che Evola pubblicò su “La Vita Italiana” nel marzo 1939 col titolo di “sadismo ed arte modernistica” ed a cui avevamo già fatto cenno in occasione delle pubblicazioni estive, rappresenta un ulteriore, interessante complemento a quel saggio, a distanza di molti anni, quando Evola aveva preso atto degli sviluppi catagogici che un’elaborazione artistica volta a decomporre la forma stava (inevitabilmente) assumendo. Traendo spunto dalla recensione del libro “La rivolta contro il Bello” del pittore, scrittore e critico d’arte americano di John Hemming Fry (1861-1946), Evola tornò infatti sull’argomento in modo assai interessante.

Evola in una celebre foto scattata probabilmente nel corso dell’esposizione dadaista presso la Casa d’Arte Bragaglia (Roma, 15-30 aprile 1921). Alle sue spalle si riconoscono due suoi dipinti.
Per il giovane Evola, ricordiamolo en passant, la perdita della forma sarebbe dovuta essere funzionale ad un superamento verso l’alto della stessa, ad un ritorno alla purezza primordiale, informale e incondizionata, in cui si sarebbe potuta affermare e rivelare la potenza creatrice dell’Individuo Assoluto, innalzatosi nell’autorealizzazione suprema. Il tempo avrebbe dimostrato quanto tale concezione fosse sostanzialmente di impossibile realizzazione in un ambito che andasse oltre specifiche, eccezionali individualità: ed infatti, la pura espressività svincolata dal contenuto, e a seguire l’abbandono stesso della forma, non sarebbero stati funzionali a forme di superamento dialettico verso l’alto, e quindi in via sovrarazionale, ma ad un crollo inesorabile verso il basso, verso i bassifondi dell’inconscio, dell’irrazionale e del perverso.
In quest’articolo fondamentale che presentiamo, Evola notava, in maniera perfetta, a proposito della disintegrazione della forma: “l’uno è il distruggerla e il retrocedere in ciò che sta prima della forma, nell’informe, l’altro è l’andare di là da essa, il passar, cioè, a ciò che alla forma (e in un certo senso anche alla ’bellezza’ nell’accezione più corrente e convenzionale) è superiore (…). Per caratterizzare quel che di veramente di negativo ha l’arte modernistica, non basta dunque dire che essa nega la forma, ma bisogna aggiungere che essa la nega in una direzione effettivamente involutiva, giungendo non ad un superamento, ma ad una degradazione”.
Altrettanto interessanti appaiono alcuni residui evoliani di quella visione “dialettico-dinamica” propria dell’Individuo Assoluto anche campo artistico (“la potenza creativa si manifesta sì nella forma, ma mai può esaurire in essa la sua infinità, per cui essa, più che negli equilibri statici, si rivela nel dinamismo, in tutto ciò che sembra travolgere e spezzare e violentare la forma per portarla di là da sé stessa”), che comunque non impedivano ad Evola di “ammettere” che la perfezione statica e simbolica della forma nell’arte classica evocava in sé stessa la trascendenza. Da segnalare, infine, anche la nota di Evola circa il rischio che un’errata interpretazione del concetto di “trascendenza”, intesa, come appare nell’analisi del Fry, quasi come un rifiuto della forma per fuggire verso l’astrazione, e quindi come una sorta di improbabile alleata delle derive sado-degenerate dell’arte moderna, possa condurre a forme paganeggianti, laddove appunto il restringere l’angolo visuale alla forma in sé stessa, all’idea di bellezza conchiusa nella materia, divinificata in quanto tale, porterebbe inevitabilmente ad una visione immanentistica del mondo.
Come già ricordato a suo tempo, Evola avrebbe ulteriormente chiuso la sua analisi in materia tra fine anni 50’ e primi anni ’60, riconoscendo (“Ricordo del dadaismo”, 1958) che, esauritasi la spinta dissolutiva del movimento dadaista, sulle cui posizioni estreme non si poteva sostare a lungo senza che vi fosse un immediato sviluppo successivo, funzionale ad aperture verso l’alto, sarebbero seguite forme gravemente regressive, quali il surrealismo; ed osservando, ancora (“Cavalcare la tigre”, 1961), che all’autodissoluzione dell’arte moderna a seguito dell’esaurirsi di correnti come l’espressionismo (definito come una “prorompenza informe di contenuti psichici dissociati”), il dadaismo ed il surrealismo stesso, non si era affermata, né ci sarebbe più potuta affermare, rebus sic stantibus, alcuna nuova arte “oggettiva” per colmare lo “spazio spirituale vuoto” venutosi a creare.
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Nell’immagine in evidenza, “il n’y a pas a monde achevé” (Non è finito il mondo) (1942), una delle “opere” del pittore francese André Aimé René Masson (1896-1987), tra i più estremi e perversi esponenti di un’ “arte” dai toni ferocemente irrazionalistici, patologici, demonici e surrealistici, volti a decomporre, distruggere ed insozzare ogni parvenza di normalità e di forma. Le produzioni di Masson furono inesorabilmente bollate come entartete Kunst (arte degenerata) dal Regime Nazionalsocialista durante l’occupazione bellica della Francia settentrionale.
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di Julius Evola
Tratto da “La Vita Italiana”, XXVII, 312, marzo 1939
L’associazione di queste due idee [sadismo e arte modernistica, n.d.r.] sembrerà a molti paradossale. Pur tuttavia non è diversa la tesi centrale di un interessante libro di critica dell’americano John Hemming Fry, uscito recentissimamente in una ottima traduzione italiana presso l’editore Barbera col titolo La rivolta contro il bello (1). Come l’autore stesso si esprime, in questo saggio egli ha cercato:

Il Doriforo di Policleto (particolare; copia romana), trionfo classico della forma e della proporzione
«di portare alla luce del giorno l’impulso oscuro e misterioso che muove i creatori e gli apostoli del culto dell’arte modernistica, negazione del bello».
Diciamo subito che la trattazione del Fry in molti punti è piuttosto semplicistica, che essa spesso tradisce il senso tutto personale di disagio di un gentiluomo della precedente generazione, che si trova assaltato da un mondo nuovo, per lui incomprensibile, e per giunta in quelle forme estremistiche e particolarmente piatte, di cui indubbiamente l’America è maestra. Ciò non toglie, tuttavia, che la sua indagine metta in rilievo molti punti bisognosi, sì, di essere completati, ma in sé giusti e atti a portar la vexata quaestio dell’arte moderna da un piano di polemica spicciola più o meno connessa a motivi politici ad un piano più generale, filosofico e spirituale. Ed è per questo che noi, qui, vogliamo occuparci del libro e prenderne lo spunto per qualche precisazione.
La premessa generale del Fry è una visione del mondo quale tendenza creativa che dall’informe va verso la forma.
«L’evocazione della forma dall’informe è la suprema manifestazione dell’universo creatore. Nella Leggenda Dorata si dice che Dio non può esistere se non creando. E l’immenso significato di questo atto della creazione è che, attraverso la normale volizione dell’universo, esso deve, conformemente alla legge insita nella sua natura, esprimersi in forme di armonica bellezza. […] Si capisce, allora, che ciò che noi designiamo come natura è semplicemente il potere dell’universo creatore che lotta arduamente per estrinsecarsi ed esprimersi attraverso la materia. E questo può esser ottenuto soltanto con la creazione della forma».
A questa stregua, il processo creativo, qualunque cosa d’altro possa anche essere, è prima di tutto un processo estetico. Dalla vita delle profondità marine dei tempi più remoti alle realizzazioni dell’arte ellenica corre una ininterrotta linea ideale.
La volizione cosmica si estrinseca conclusivamente nella forma, nella bellezza. E la bellezza significa trionfo dell’atto creatore, stile di una potenza compiuta. Dal che, segue perfino una interferenza fra estetica ed etica. Se l’impulso verso la forma, verso masse equilibrate, strutture ben delimitate, linee ritmiche è la stessa forza originaria sotto il segno di un ideale di bellezza, tutto ciò che conduce alla realizzazione di questo ideale è morale, tutto ciò che invece vi si oppone è immorale.

Decomposizione cubista della forma: Picasso, “Busto di donna (Dora Maar)”, 1938
Siamo dunque nell’ordine di una visione classicistica del mondo e dell’arte non priva, tuttavia, di sfumature nietzschiane. Potenza, bellezza, eticità trovano la loro espressione nel mondo della forma, del hermes, del limite. Di contro ad un tale mondo, sta quello dell’informe, del deforme, del promiscuo e del promiscuo e del caotico, identificato al male. Al quale corrisponde un’altra forza, una forza negativa opposta a quella creativa, e un culto per questa forza.
Del quale culto, secondo l’autore, la filosofia del marchese de Sade sarebbe la più tipica espressione. Nocciolo di tale filosofia è l’idea che il principio distruttore e malefico dell’universo è il potere supremo e sempre vittorioso, che dunque in tutto ciò che è disgregazione, distruzione, morte, sofferenza, male, corruzione, perversione e anti-natura può cogliersi la suprema verità, l’elemento più profondo e vero della creazione.
Presso a tali premesse, è logico che ogni influenza, che operi come lotta negatrice e come sadica volontà, debba cominciare col negare o violentare la forma, dato che la perfezione della forma costituisce per l’appunto l’anima e il simbolo del principio creativo. Con la negazione della forma attraverso la deformazione, la mutilazione, la disarmonia, la caoticità e la mediocrità indifferenziata e, insomma, con l’intenzionale ricaduta nell’informe si celebra dunque il prevalere delle forze dell’anti-creazione.
Ma, nel piano dovuto, non è diversa – per il Fry – l’essenza di tutta l’arte modernistica, con le varietà del suo antinaturalismo, del suo impressionismo, del suo primitivismo e di tutte le sue altre alienazioni e tortuose deviazioni dall’ideale della forma, del ritmo, dell’armonia. Essa esprime eminentemente un processo di regressione e di degenerazione, che è segno del tempi ed è solidale ad altri fenomeni tipici per questi stessi tempi, quali la democrazia e la standardizzazione propria alla civiltà tecnico-industriale. Perciò, per l’autore, non si tratta di semplici divergenze in fatto di convinzioni estetiche, ma piuttosto di riflessi di una antitesi fondamentale.
Ogni moto dell’universo ha luogo e si svolge in dipendenza dell’uno o dell’altro di questi due impulsi: fare e disfare. Ogni essere umano, ogni razza, ogni civiltà agisce sotto l’una o l’altra di queste influenze. Così anche l’opera di ogni pittore, di ogni scultore o poeta o architetti o musicista, porta in sé stessa, chiari, i segni della tendenza verso la distruzione sadica o verso la costruzione, sulla base sia di disposizioni innate e della congenialità dell’autore, sia dell’effetto riflesso di un ambiente collettivo.
Ora la bruttezza, la volgarità, la deformazione, l’oscenità, la disanimazione, l’incoerenza, la regressione nel primitivistico e nell’infantile, la brutalità realistica o l’arbitrarismo di una fantasia informe «futuristica» o surrealistica, tutto questo è patrimonio specifico dell’arte modernistica ed è chiaro indice dello strato spirituale – ma altresì sociale e umano – dal quale esso ha tratto origine e si sviluppa, così come la sua inequivocabile vocazione negatrice e pervertitrice, del suo istinto sadistico. Senonché:
«mentre in tempi storici l’istinto sadistico si è manifestato in individui isolati, non esiste una documentazione che esso si sia sviluppato ed abbia preso la veste di un culto vero e proprio presso i popoli europei prima del XIX e XX secolo, allorché divenne il credo fondamentale dell’arte modernistica. Ma l’arte modernistica non ha tradizioni, tradizioni che, invece, altre culture posseggono. A questa deficienza si è sopperito. Si è sopperito con la scoperta, nell’America centrale, di una razza preistorica, di avanzata civiltà, la cui filosofia fondamentale era costituita dalla fede nella superiorità del male, ed i cui ideali in arte, erano: bruttezza, oscenità, deformazioni e tortura; tutti elementi che costituiscono altrettanti tratti distintivi dell’arte modernistica».
Da qui, la significativa simpatia dell’arte modernistica per l’arte riesumata di popoli selvaggi di questo tipo (per l’autore sono i Maya).
«Nel regno dell’arte, i gusti degli uni e degli altri appaiono esattamente gli stessi. Ma queste degne persone non hanno ancora raggiunto lo stadio acuto della malattia. L’immaginazione più sbrigliata non potrebbe raffigurarsi i degni seguaci dell’arte modernistica che scuoiano vive delle giovani signore ed indossano, quindi la pelle di queste oer ballare al suono della musica jazz. Tuttavia non si può sfuggire alla conclusione che il loro impulso artistico non sgorghi dalla stessa fonte dei Maya, e cioè dal travaglio cosciente od incosciente di un istinto ostile al processo normale di vita dell’universo: in una parola, dal sadismo. Scoprendo l’“arte” dei primitivi e dei maya i seguaci dell’arte modernistica hanno scoperto la loro tradizione, tradizione di cui fino a questo momento essi mancavano».
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Queste sono le idee fondamentali del libro del Fry. La validità delle quali è da circoscrivere nel modo seguente.
Anzitutto non bisogna ignorare che presso ad un ideale «classico» dell’arte ve ne è stato uno romantico e «gotico», ben diverso dal primo. L’autore rileva che, malgrado questa diversità, anche nei più decisi romantici vi fu sempre un potere plastico, uno studio di equilibri e di proporzioni, insomma una «bellezza».

La tensione verso l’assoluto ed il malinconico senso di struggimento (Sehnsucht) tipici dell’arte romantica, soprattutto nordica, trovarono esponente paradigmatico nel grande artista tedesco Caspar David Friedrich (nell’immagine, “Klosterfriedhof im Schnee”, “Cimitero del Monastero nella neve”, 1810) (cliccare per ingrandire)
Ciò non toglie però che i presupposti dell’arte romantica siano diversi da quelli che fanno troppo unilateralmente da premessa al Fry e cioè che la potenza creativa si manifesta sì nella forma, ma mai può esaurire in essa la sua infinità, per cui essa, più che negli equilibri statici, si rivela nel dinamismo, in tutto ciò che sembra travolgere e spezzare e violentare la forma per portarla di là da sé stessa. L’arte classica, invece, allo stesso scopo cerca di fare un uso simbolico della forma, sceglierà quelle forme, che nella loro perfezione sembrano evocare qualcosa di trascendente. Lo ammettiamo. Ma tali possibilità ci paiono riconosciute solo fino ad un certo punto dal Fry, se egli trova il modo di fare un processo all’ascetismo e all’«ossessione del trascendentalismo», accusati di credere che lo spirito si trovi prigioniero nel corpo, di «opporre resistenza al mondo materiale e, quindi (?), di negarlo». Per cui il trascendentalista troverebbe «la sua estrema salvazione nella bruttezza». È inutile che qui rileviamo a quali svolte pericolose e paganeggianti può condurre un tale atteggiamento: il quale, fra l’altro, impedisce di comprendere il lato più profondo, simbolico, della stessa arte classica, che purtuttavia l’autore altrove [ha] presente.
Ma noi qui abbiamo accennato all’arte romantica soprattutto per rilevare che vi sono due modi diversi, anzi antitetici, di abbandonate la «forma»; e l’uno è il distruggerla e il retrocedere in ciò che sta prima della forma, nell’informe; l’altro è l’andar di là da essa, il passar, cioè, a ciò che alla forma (e in un certo senso anche alla «bellezza» nell’accezione più corrente e convenzionale) è superiore. In un altro ordine di cose, è la stessa differenza che nell’antica civiltà indo-ariana si concepiva fra colui che è al disotto delle caste, il paria, e colui che è al disopra di esse, come asceta. Per caratterizzare quel che di veramente negativo ha l’arte modernistica, non basta dunque dire che essa nega la forma, ma bisogna aggiungere che essa la nega in una direzione effettivamente involutiva, giungendo non ad un superamento, ma ad una degradazione.
È significativo che senza possedere dei principi d’ordine tradizionale è impossibile cogliere il vero significato anche di fenomeni, che in apparenza non han con essi nulla da spartire. Secondo la concezione corrente, i popoli selvaggi sarebbero dei «primitivi», nel senso di forme umane originarie, da cui poi si sarebbero sviluppati, per «evoluzione», i popoli civili. Invece, nelle vedute tradizionali, non si tratta, a tale riguardo, di nulla di simile: i presunti primitivi, o selvaggi, altro non sono che gli ultimi residui degenerescenti di antichissime civiltà di tipo superiore.
Cosi stando le cose, la simpatia, notata dal Fry, nutrita dall’arte modernistica per quella dei primitivi e dei Maya diviene davvero significativa, indica davvero che si tratta di un processo di regressione, di negazione: non un «futurismo», ma la ripresa di un vero fermento di decomposizione.
segue nella seconda parte
Nota dell’autore
(1) John Hemming Fry, La rivolta contro il Bello. Saggio sulla genesi dell’arte modernistica, trad. di Amor Bavaj, Barbèra Editore, Firenze, 1939.
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