Con oggi apriamo un altro approfondimento per celebrare i sessanta anni dalla pubblicazione della prima edizione, per Vanni Scheiwiller, di Cavalcare la Tigre, una delle opere più importanti e più discusse di Julius Evola, sicuramente il “libro per tutti e per nessuno” per antonomasia del Barone.
Il libro si inseriva in un contesto storico particolare: dopo aver trascorso due anni in cliniche austriache a seguito nel noto incidente che lo vide protagonista durante il bombardamento a Vienna, Evola era tornato in Italia alla fine del 1948. Molti non sanno, ancora oggi, che proprio in quel periodo Evola cominciò a lavorare a “Cavalcare la tigre”, che, addirittura, risultava completato in una prima stesura già nell’aprile del 1951: ciò è emerso chiaramente da vari elementi tratti, tra l’altro, dalla quarta lettera scritta dal barone al notaio trapanese Giovanni Barresi il 26 novembre 1951, e da un’altra lettera scritta ad Evola da Angelo Barenzi, redattore del settimanale “Il Meridiano d’Italia”, il 18 maggio 1951. Evola ammise ne “Il Cammino del Cinabro” che la scrittura di “Cavalcare la tigre” gli era stata sollecitata “da varie persone che mi avevano seguito nella fase tradizionale (…), che si domandavano che cosa mai si potesse fare in seno a un mondo, a una società, e ad una cultura come quelle ormai stabilizzatesi nell’epoca attuale“, anche se non si è mai saputo esattamente di chi si trattasse.
Tuttavia, quel “bilancio negativo” stilato dal barone dopo il conflitto mondiale, che, più che sul corpo, gli aveva lasciato ferite importanti soprattutto nell’animo, e che lo portava a ritenere che nulla potesse essere più fatto per provocare una modificazione di rilievo, per agire su processi che ormai, dopo gli ultimi crolli, avevano un corso irrefrenabile, e la convinzione che non esistesse più nulla nel dominio politico e sociale che meritasse una dedizione e un impegno profondo, conobbe una pausa temporanea: la pubblicazione di di “Cavalcare la tigre” quale primo testo inedito del dopoguerra, ormai pronto, in cui si delineava la nota figura dell’uomo differenziato e si affermava il principio dell’apolitia, fu infatti bloccata da Evola. Ciò perché, nel frattempo, il barone aveva accettato la proposta di un gruppo di giovani (tra cui Enzo Erra, Pino Rauti, Primo Siena, e tanti altri) che, formatisi sui suoi testi, “non si erano lasciati trascinare nel crollo generale”, e gli avevano chiesto di riorganizzare e sviluppare in forma più computa i punti di “Orientamenti”: sarebbe così stato scritto “Gli uomini e le rovine”, completato nel 1952 dopo lo stop forzato per sei mesi a causa della detenzione del barone a Regina Coeli per la vicenda del processo ai FAR, e pubblicato nel 1953. Proprio in quell’anno, infatti, come scrisse Evola, “sembrava che in Italia fossero presenti le condizioni per dare inizio alla formazione di uno schieramento di Destra: di Destra non nel senso politico, ma anche e soprattutto ideale e spirituale“. Nel tentativo di creare una corrente spiritualista nel MSI, influenzandolo quindi in senso tradizionale, Evola iniziò anche a collaborare con varie testate soprattutto giovanili di quell’area, a partire dal 1949: Il Nazionale, Rivolta Ideale, La sfida, Meridiano d’Italia, Imperium, ma anche Il Secolo d’Italia.
Tuttavia, dopo la crisi delle organizzazioni giovanili missine sul finire degli anni Cinquanta, “Evola”, come scrisse Romualdi, “pur continuando a dare il suo aiuto a quelle forze che, fuori e dentro il MSI, lottavano per un rinnovamento dell’ambiente nazionale, venne a poco a poco allontanandosi dalla prospettiva politica”.
Oggi pubblichiamo il celebre articolo pubblicato su “Il Popolo d’Italia” e intitolato proprio “Cavalcare la tigre” con cui, nel marzo 1957, Evola, quando la possibilità di dare vita a quel progetto “politico” stava ormai gradualmente scemando, mostrava di tornare in senso deciso verso le prime prospettive apolitiche dell’immediato dopoguerra, spostando di nuovo la sua attenzione sull’interiorità dell’uomo differenziato, ed anticipando tracce di ciò che si sarebbe letto nel secondo paragrafo del primo capitolo del libro, che sarebbe uscito completo in prima edizione quattro anni più tardi.
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di Julius Evola
tratto da “Il Popolo d’Italia”, 10 aprile 1957
L’immagine del cavalcare la tigre ha origine orientale. È un detto estremo-orientale che «chi cavalca la tigre non può scendere» perché, naturalmente, l’animale gli si avventerebbe addosso. Invece, se mantiene la presa, può darsi che egli abbia ragione di esso. Simboli analoghi si incontrano però anche altrove, nello stesso dominio religioso. Negli antichi misteri di Mithra, di cui è nota la grandissima diffusione che ebbero nell’Impero romano, specie tra le legioni, Mithra, l’eroe divino, veniva raffigurato come colui che si afferra per le corna ad un toro furioso, da lui si lascia trascinare in una corsa pazza e non abbandona la presa finché l’animale, esausto, si arresta. Allora l’uccide.
Di ciò, un parallelo caratteristico si ritrova nel cosiddetto Zen, dottrina che ha avuto la fama di essere quella dei Samurai, cioè dell’aristocrazia guerriera giapponese. Anche qui, in una sequenza assai diffusa e assai antica di dieci immagini simboliche, appare il toro. Manca però l’episodio dell’uccisione finale. Invece al termine l’animale, spossato, segue docile chi lo ha montato senza lasciarsi scavalcare.
Come tutti i veri simboli tradizionali, anche quello ora accennato è suscettibile di applicazioni molteplici: alla vita interiore dell’individuo, ma anche a situazioni storiche e collettive.
A tale fine, bisogna rifarsi ad una interpretazione della storia che ha tratti identici sia in Oriente che nell’antico Occidente. Nel mondo greco-romano essa si presenta nella forma della dottrina delle quattro età, della discesa dell’umanità ultima dalla età dell’oro a quella che Esiodo chiamò l’età del ferro. Non si tratta, qui, di fantasie mitiche di poeti. Come lo abbiamo documentato in uno dei nostri libri, il mito, a tale proposito, ci rivela invece la strutturazione più significativa e profonda della storia vera.
Da non meno antica data l’India conobbe la stessa dottrina. L’ultima delle quattro età, o yuga, – quella in cui attualmente ci si troverebbe e che corrisponde all’età del ferro esiodea -, qui riceve il nome di kali-yuga, cioè di «età oscura». L’apporto precipuo dato da questa dottrina tradizionale al tema generale consiste nel sottolineare, che uno dei caratteri fondamentali dell’età ultima è un clima di dissoluzione, il passare allo stato libero e scatenato di forze individuali e collettive che in precedenza erano state vincolate da una legge dall’alto, da principii d’ordine superiore. Di questa situazione, che effettivamente sembra avere il suo epicentro nella moderna civiltà occidentale, la scuola dei Tantra dà una immagine suggestiva, dicendo che in essa è «completamente svegliata» una divinità femminile la quale, se per un lato simbolizza la potenza elementare e primigenia del mondo, dall’altro si presenta anche come dea del sesso e di riti orgiastici e come una forza distruttiva e attivamente dissolvitrice. In precedenza «dormiente», cioè latente, nella «età oscura» essa è desta e agente.
Ma proprio in questo contesto riappare nei testi l’accennato simbolismo del cavalcare la tigre. L’idea che esso racchiude potrebbe allora essere espressa nei seguenti termini: quando una intera civiltà volge verso la sua fine, è difficile pensare a giungere a qualcosa di positivo opponendosi, resistendo: la corrente è troppo forte, si sarebbe travolti. D’altronde, ritrarsi, staccarsi, quand’anche sia possibile, significherebbe dar per vinta la partita, rassegnarsi ad un destino di tramonto, sottrarsi ad ogni responsabilità sia nei riguardi di un futuro risollevarsi, sia, e ancor di più, nei riguardi del mondo in cui si vive. L’unica soluzione allora è «cavalcare la tigre», cioè non affrontare direttamente le forze e i processi di un mondo in crisi, ma farsi, per così dire, trasportare da esse, darvi provvisoriamente corso senza però lasciarsi scavalcare, mantenendosi ben saldi, pronti ad intervenire quando «la tigre, che non può avventarsi contro chi la cavalca, sarà stanca di correre». In una interpretazione particolarissima, il precetto cristiano di «non resistere al male» potrebbe avere, del resto, un non diverso significato. Così tutto sta nel disporre di una forma speciale di intrepidezza. Assecondare, senza lasciarsi vincolare, il giuoco è indubbiamente rischioso. Solo il buon nuotatore può usare dell’onda per correre con essa e, poi, portarsi ancora più avanti con le proprie forze, a ondata passata. Si può anche ricordare il principio fondamentale della lotta giapponese: lasciar esercitare tutta la forza all’avversario, ma con una data mossa usare proprio essa per metterlo fuori combattimento.
Sono principii, che possono naturalmente applicarsi anche alla vita personale, in tema di disciplina degli impulsi e di condotta interna, qui il rischio essendo però maggiore data la facilità, nei più, a barare con se stessi. Ciò a parte, sul piano delle forze collettive e di quelle stesse politiche, noi forse andiamo verso situazioni in cui una sapienza del genere appare degna di essere meditata. Essa ci indica un modo di risparmiare e raccogliere le energie per poter dire l’ultima parola nel momento giusto: senza lasciarsi impressionare dal prevalere e dal trionfo apparente di forze che, per essere prive di connessione con qualsiasi principio superiore, in fondo hanno la catena misurata. Un semplice, sottile sorriso fu la unica risposta data dal ministro Tojo quando il tribunale americano, brutale e tracotante, gli lesse la sua condanna a morte. E una nota massima di Hegel è: «L’idea non ha fretta».
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