Proponiamo oggi un altro articolo di Piero Colla, amico e collaboratore di Evola all’esperienza del “Diorama Filosofico“, la terza pagina curata dal barone per diversi anni su “Il Regime Fascista” di Roberto Farinacci. Dopo l’articolo sul significato spirituale dell’architettura, oggi proponiamo un contributo del novembre 1934, in cui l’autore conferma il proprio stile, estremamente chiaro e puntuale, affrontando il tema del significato reale e tradizionale della classicità, non solo e non tanto in termini meramente artistici, ma soprattutto ed innanzitutto interiori e comportamentali (rispetto ai quali l’espressione artistica è un riflesso, una derivazione), di cui abbiamo già proposto l’analisi di Evola nel dicembre scorso, con gli articoli “Stile classico e classicismo” e “Sull’ideale classico”. Colla si sofferma sul rapporto tra forma e contenuto nell’arte classica e neoclassica, e di come esso debba appunto sottendere una visione, uno stile di vita e di comportamento, e non esaurirsi in forme stereotipate vuote e fini a sé stesse, o, peggio ancora, forzatamente adattate alla modernità. Il discorso inevitabilmente ci porterebbe a parlare, ad esempio, del tentativo di recupero della classicità stilistica nell’architettura razionalista o funzionale del Novecento (si pensi al monumentalismo razional-classicheggiante di un Marcello Piacentini, ecc.), o del cosidetto “nuovo realismo attivo” tratteggiato da Evola, e rintracciabile nel movimento germanico del primo dopoguerra della “Neue Sachlickheit” (“nuova oggettività”); temi gia toccati, ma su cui avremo modo di tornare.
Rimandiamo all’introduzione del precedente articolo di Piero Colla per la particolare vicenda che lo riguardò, con riferimento alla sua traduzione “perduta” de L’Introduction Générale à l’Etude des Doctrines Hindoues di René Guénon.
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di Piero Colla
Tratto da “Regime Fascista”, rubrica “Diorama Filosofico” del 1 novembre 1934
Nel tempo presente, si sente trattare con una certa frequenza il tema del «ritorno al classicismo» e la tendenza, che può parimenti essere rilevata, ad un superamento deciso di tutte le ideologie di carattere passivo e romantico, fa sì che il detto tema presenti poco a poco i caratteri non tanto un argomento di mero intellettualismo o di estetica, quanto di problema che ha valore per la vita stessa.

Il neoclassicismo di Antonio Canova: Il Perseo trionfante con la testa di Medusa (1797-1801) (free image from wikimedia commons, licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo 3.0 Unported, author: Tetraktys)
Lo sprezzo per ogni spento intellettualismo, l’insofferenza per ogni forma di retorica e per la concezione stessa dell’arte in voga nel più recente passato, se, a tale riguardo, sono fenomeni di natura reattiva e cioè, non ancora consciamente motivati da adeguate posizioni di carattere creativo, nondimeno, fanno già presentire profonde trasformazioni di valori.
Può essere bene accennare anzitutto ad un punto che mostra il profondo mutamento di tendenze operatosi in questo secolo, in contrasto col secolo precedente. Nell’ottocento, specie in Germania, vi fu un rifiorire notevole del «culto classico», ma, mentre allora il classicismo era veduto essenzialmente in sede di erudizione, di estetismo e di rievocazioni nostalgiche, staccate dalla vita, oggi è proprio una insofferenza verso queste viete formule della cultura moderna che vale a giustificate presso molti la sensazione — vedremo fino a qual punto motivata — che si prepari un’epoca di ritorno all’ideale classico, esplicantesi prima come modo d’essere e d’agire che come modo di pensare, e, in ogni caso, con spiccati caratteri realistici. Se quindi si può parlare di una nuova tendenza a rivivere l’ideale classico, bene sarà mostrare che cosa il classicismo significhi nella sua realtà e non in quell’insieme di falsificazioni attraverso le quali il mondo moderno ha imparato a vederlo e che, se assunta davvero come principi, porterebbero a squilibri ancor maggiori di quelli sinora veduti. In altri termini, sarà bene mostrare che cosa si sia costruito sul classicismo, fino a giustificare l’accusa di aver creato un vero e proprio «pregiudizio classico»; inoltre, varrà mostrare ciò che nel mondo moderno si oppone ad una comprensione dei valori classici, quali essi veramente sono.
La domanda: fino a quale punto al «classicismo» ha corrisposto un contenuto effettivo? Non può non presentarsi a chi abbia appreso a diffidare sistematicamente degli schemi storici creati dai moderni; e, a tale proposito, per prima cosa, vanno posti in evidenza due modi di fraintendere il mondo classico. Il primo consiste nel valorizzarne solo gli aspetti per i quali più è prossimo al mondo moderno, sino a ridurre ad essi il classicismo tutto intero; il secondo consiste nel deformare, se non addirittura nel falsificare, altri elementi che del classicismo stesso sono essenziali ma che sono lontani dalla mentalità moderna ed inadatti a rientrare, pertanto, in ciò che essa può ammettere. Per questo secondo aspetto, che può dirsi il più grave, v’è chi è portato a considerare come «classiche» quelle tendenze contemporanee che sembrano preludiare l’avvento di un’epoca della «forma». In antitesi a ciò, potrebbe facilmente affermarsi la necessità di una nuova epoca del «contenuto» poiché, in sostanza, ci si muove in tal modo in un piano di valori arbitrari e sopratutto di parole di incerto significato, atte ad esprimere le cose più diverse. Ma, poiché è sopratutto dal fenomeno artistico che qui si prendono le mosse, più che entrare in problemi del genere, v’è da chiedere fino a qual punto sia legittimo separare ed innalzare a formule stereotipe elementi che, come «forma» e «contenuto», nella creazione artistica si trovano inscindibilmente fusi e, in ogni caso, funzionalmente interdipendenti, per farne simboli generali di tipi di civiltà.

Particolare della scultura “L’abisso”, capolavoro allegorico di Pietro Canonica (1909).
Ad ogni modo, in ciò sta uno dei primi elementi che caratterizzano il detto «pregiudizio», riducendo il classicismo essenzialmente ad un culto della forma. Ma che cosa si intende oggi con «forma» e che cosa vi si intendeva nell’antichità?
La «forma» è oggi intesa come una delle vesti sotto cui un dato contenuto può presentarsi; come qualcosa di esterioristico e di mutevole, quindi privo di un significato che superi quello puramente estetico. Ora, pretendere che non diciamo una nuova corrente di civiltà ma anche solo una nuova corrente d’arte debba assumere tale base significherebbe destituire di ogni significato la creazione stessa e farne l’oggetto di preziosità o di calligrafismi contro i quali, specialmente in Italia, sta tutta una generazione severamente intonata, per opera del Fascismo, a ideali di ben altra portata. Quanto all’antichità classica, anche a restare nel dominio dell’arte, è visibile, di contro a ciò, un’impronta di grandezza ed una vastità di concezione delle quali i moderni non sanno rivivere – più o meno nostalgicamente – che echi. E, notato questo, ci si può chiedere se sia casuale il trovare riuniti nell’arte classica una concezione superiore ed una forma perfetta o se invece ciò non consegua da un particolare stato interiore.
La risposta, secondo noi, è questa: quanto più l’ideale da esprimere ha in sé quelle qualità di grandezza e quel valore di sintesi che stanno al disopra di ciò che è soltanto umano, tanto più il potere di plasmare la «forma», attraverso cui l’idea si esprime, si svincola da ogni compromesso, da ogni adattazione e da ogni preoccupazione estetistica ed acquista la facoltà di far partecipe la forma stessa di quella grandezza da cui essa proviene.
Il dominio sull’arbitrario e sul caotico viene allora conseguito e può esser notato, a tale riguardo, che la forma si avvicina tanto più alla perfezione, quanto meno essa può esser diversa da quello che è, quanto più è necessitata, diremo; e ciò è tanto vero che, nella sua eccezione più alta, essa acquisti i caratteri di una «logicità» e di una precisione che può dirsi «fatale».
La conclusione è dunque che l’avvento di un’epoca della «forma», per aver significato positivo, è subordinato ad un ristabilirsi di valori interiori in supremazia proprio su quella esteriorità, della quale i moderni e sopratutto gli adoratori della «forma» in senso volgare subiscono il miraggio.
Ciò non toglie che la possibilità di fraintendere a tale riguardo e di finire nelle interpretazioni più contradditorie del classicismo sia sempre presente. Nietzsche stesso, che pur ebbe intuizioni singolarmente chiare nei riguardi del classicismo, poté dire: «In confronto con la musica, ogni espressione della parola ha qualcosa di spudorato; la parola diluisce, rende volgare ciò che è straordinario ». Ora, come può conciliarsi ciò con l’affermazione, pure di Nietzsche, che «ad ogni spirito classico appartiene una quantità di lucidità, di durezza; l’odio contro ciò che è incerto, vago, molteplice… »? Non appartiene la musica – come mostrammo in un nostro precedente articolo — proprio a quel regno del vago, dell’incerto, che è eminentemente anticlassico e che è un meno rispetto alla determinatezza della parola?
Un altro elemento che differenzia ed allontana il mondo moderno da quello classico, sta nel diverso modo di concepire la «cultura». I moderni credono di poter dare un tal nome a quell’insieme di cognizioni che le scienze, le filosofie e la letteratura stessa, oggi propiziano e diffondono. A questo proposito, va anzitutto rilevato che per i moderni il conoscere si sviluppa quasi esclusivamente nel senso di un vedere sempre più particolaristico e specializzato, quindi muoventesi in una direzione antitetica, a quella sintesi, che solo può fondare una cultura in senso superiore. Se il lettore ricorda quel che nella precedente pagina quindicinale il Guénon ha mirabilmente messo in rilievo come carattere delle scienze tradizionali rispetto alle moderne, vede in pari tempo i termini dell’antitesi fra il concetto moderno e quello classico di cultura. Cosi, in secondo luogo, circa questa antitesi, «ci si può rifare a quanto dicevamo circa i veri presupposti per una « forma» perfetta nell’arte. Vi è un intimo rapporto fra le due massime classiche per eccellenza incise sul tempio di Delfo: «Conosci te stesso» e «Nulla di superfluo». Spirito classico e classica coltura è essenzialità, quindi sintesi, perfetto dominio. Ma la condizione vera, tacita di ciò che è veramente «me», ossia della personalità, dell’elemento sovrannaturale nell’uomo.
Senza una tale conoscenza, creatrice di romana dignità e di vera forza, «forma», «classicismo», «spirito classico», e via dicendo restano vuote parole e sterili agitazioni di dilettanti e di perdigiorno.
Nell’immagine in evidenza, il “Cupido” di Bertel Thorvaldsen (1897-99), sotto licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported, autore Yair-haklai, ripresa senza modifiche rispetto alla versione originale.
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