di Julius Evola
tratto da “Augustea”, XVI, 21, 16 novembre 1941
In vari domini si può osservare, oggi, il curioso processo del depotenziarsi delle parole. Vogliamo dire che molte espressioni vengono modernamente usate secondo un significato corrente che non si accorda più con quello originario e che spesso ne rappresenta una degradazione. Numerosi sono gli esempi che si potrebbero addurre. Qui ci limiteremo ad indicarne due.
La parola “razza” fino ad ieri aveva sempre un significato aristocratico. Dalla massa degli esseri comuni, mediocri, misti, spiccano “esseri di razza”, nel senso di esseri superiori, “nobili”. Una tale nobiltà poteva non sempre avere un carattere araldico e patriziale, essa era soprattutto una nobiltà di natura e, come tale, evidente e indiscutibile. In ogni caso, si trattava sempre di una élite: razza era essenzialmente un concetto di qualità, che si riferiva non ad una collettività, ma ad un gruppo di uomini superiori. Ebbene, nei tempi moderni si è finiti spesso col dir razza là dove più correttamente si avrebbe dovuto dire soltanto popolo o nazione: si tende così a collettivizzare il concetto di razza, tanto da rendere legittimo il sospetto recentemente espresso dal principe di Rohan, cioè, che un certo razzismo rappresenti un attacco della democrazia contro l’ultimo bastione che ad essa ancora resisteva del mondo tradizionale: poiché se la democrazia era riuscita a scalare tutto, a “commercializzare” tutto e a metter tutto alla portata di ognuno, una sola cosa non aveva potuto intaccare: appunto la “razza”, il privilegio del sangue, la nascita. Là dove si faccia della razza un sinonimo, quasi, di “nazione”, anche questo residuo viene virtualmente scalzato e “socializzato”.
Lo stesso processo si è avuto nei riguardi del termine “ario” o “ariano” che dir si voglia. Di questa espressione si è fatta una vuota parola d’ordine e, al massimo, una designazione affatto negativa. Essa, come è noto, è stata assunta ufficialmente anche nella legislazione tedesca. Nella quale, pertanto, essa risulta affatto indeterminata, con un contenuto, come si è detto or ora, negativo. Chi è “ariano”? Chiunque non sia proprio ebreo, negro o di altra razza di colore né abbia negli ascendenti, fino alla terza generazione, sangue di siffatte razze. Vien dunque detto semplicemente quel che non si deve essere, senza per nulla specificare quel che invece, positivamente, si deve essere. Una volta soddisfatta l’anzidetta clausula, chiunque avrebbe il diritto di dirsi “ario”: il più iperboreo degli Svedesi quanto il più “tellurico” degli abitanti della Sicilia centrale. Ricordandosi del significato originario del termine “ario”, si constata dunque di nuovo un depotenziamento, una degradazione delle espressioni.
Che cosa significa “ario” originanamente? Non sarà inutile cercar di precisarlo, né esula, questo assunto, dai quadri della presente rivista. Se si debbono addurre testimonianze positive in ordine a ciò che è “ario” e all’origine stessa della parola, bisogna riferirsi essenzialmente alle civiltà d’Oriente, soprattutto a quella irànica e a quella indù. Di là da ogni polemica resta un punto fermo: la parola “ario” appare per la prima volta in stretta connessione con le razze che conquistarono le regioni corrispondenti, ad un dipresso, alla Persia e all’India attuale, in una migrazione da nord-ovest a sud-est e che negli Stati da esse creati si mantennero ben distinte dalle popolazioni aborigene: tanto, che in un secondo tempo il termine “ario”, più che designazione di razza, diviene, come vedremo, designazione di casta.
Vari elementi positivi confermano tale veduta. Nel più antico codice di leggi indù, nel Mânavadharmaçâstra, la regione occupata da quelle razze conquistatrici verso il bacino del Gange è detta aryâvârta, terra o possedimento degli Arii. Gli autori del Rg-veda chiamano ârya, cioè arii, coloro che parlano la lingua in cui esso è scritto, dando a tale espressione non solo il senso di un titolo onorifico, ma anche un senso di “razza” o “stirpe”, come si conferma nell’Atharva-veda (IV, 20, 4; XIX, 62, 1), dove gli ârya sono contrapposti alla razza aborigena, ai dâsa o dâsyu, termini che vogliono dire sia razza nemica che razza demonica – laddove ârya come aggettivo viene spesso usato come attributo degli esseri divini. Più in generale, ârya andò a designare in India l’insieme delle tre caste superiori – dei capi spirituali, della aristocrazia guerriera e dei capi di famiglia proprietari agricoli -in un opposto alla quarta casta, alla casta servile dei çüdra.
Dal termine sanscrito ârya, da cui ârya, ario, deriva nella lingua zenda airya, airyana e nell’antica lingua persiana aria, come designazioni corrispondenti. Ora una tale espressione si ritrova in airyanem-vaêyô, che (aìryana e) significa letteralmente “seme” o “scaturigine della razza aria”, nome dato alla terra d’origine delle stirpi che conquistarono l’antica Persia.
Tale terra fu localizzata nell’estremo settentrione e i testi ricordano con termini precisi il mutamento geoclimatico per via del quale in tale regione sopravvenne, in una lontana epoca della preistoria, l’inverno artico (cfr. Vendídâd, I, 3-4). Il gran Re Dario nella inscrizione di Behistum (520 a. Cr.) si definisce “ario, di stirpe aria” chiamando il dio della sua gente “il dio degli Arii” – e il nome stesso di suo padre, Ariaramnes ricorda tale origine. Da airya deriva nella lingua pehlevi Erân, da cui Iran, nome conservatosi fino ad oggi per la Persia e nella lingua zenda anairyan non designa solo quel che è “ingiusto”, ma altresì quel che è estraneo agli “Arii”, ponendosi cura nel distinguere quel che è “ario” da quel che non lo è (cfr. in pehlevi l’espressione: Irân va Aníran), sia nel paese che nelle genti e nelle istituzioni.
Erodoto peraltro (VII, 62) ricorda che i Medi prima si chiamavano arioi – ancor anteriori ad Erodoto sono i frammenti di Ellanico, nei quali il Perso viene chiamato ariano, aria. Si può ricordare infine, in un autore contemporaneo di Dario, citato da Damascio, l’espressione: “I magi (i capi sacerdotali persi) e tutta la razza aria – màga de kai pân tô areìon genos.
Con riferimento alle antiche civiltà indoeuropee d’Oriente si può dunque connettere all’espressione “ario” un fatto storico ed etnico sufficientemente positivo. Gli Irani sembrano aver conservato maggiormente il senso razziale e nazionale della denominazione “ario”, mentre in India venne più in risalto il suo significato spirituale e di casta. Fuor dall’Oriente, le testimonianze si fanno alquanto incerte ed estremamente frammentarie. Da ârya si è voluto ad esempio derivare l’antico nome dell’Irlanda, Er o Eri e poi Erin, mentre l’espressione irlandese air “onorare” sembra corrispondere appunto al senso di ârya come aggettivo. Tacito (Germ., 45) dà il nome di Arii ad una stirpe germanica dotata di particolare coraggio guerriero, così come già Plinio menzionò una tribù di aryas stabilitisi fra l’Oder e la Vistola. La radice di “ario” ricorre in molti nomi propri dei Germani antichi, Ariovisto, Arimanno, Ariberto, Aribaldo, Ariobindo, ecc i quali fanno pensare ad una loro derivazione da un nome collettivo di ceppo. E così via.

Da ârya si è voluto ad esempio derivare l’antico nome dell’Irlanda, Er o Eri e poi Erin, mentre l’espressione irlandese air “onorare” sembra corrispondere appunto al senso di ârya come aggettivo.
Nel secolo scorso si cercò di integrare questi elementi frammentari con i risultati di nuove ricerche filologiche e mitologiche A partir dallo Jones, dal Bopp e dal Max Muller si rese sempre più palese la fondamentale unità parimenti fondamentale delle principali figure mitologiche ed eroiche delle civiltà dei popoli, che parlarono tali lingue. E a questo punto che sorse un doppio equivoco: gli uni presero il termine “ario” unicamente in un significato filologico, a designare il mero fatto delle affinità linguistiche, senza una base etnica e antropologica (lingue arie e non popoli arii) impoverendo e convenzionalizzando dunque il concetto. Gli altri peccarono dell’eccesso opposto: supposero l’esistenza di una razza “aria” comune dovunque si parlasse una lingua “aria” e apparissero miti e dèi “arii”, in Oriente come in Occidente. Da questo secondo eccesso parte la via che conduce fino all’abuso attuale del termine “ario”, che, come si è detto, finisce col designare chiunque non sia proprio ebreo o di razza di colore.
Il problema delle origini si fa oggi sempre più insistente e già esistono sintesi più o meno ardite, che, arruolando paleontologia, paletnologia, filologia, studio comparato delle religioni e dei simboli, antropologia, storia del diritto, perfino sanguinoserologia, cercano di scoprire le vie lungo le quali le massime civiltà si differenziarono da ceppi comuni primordiali, soprattutto da quello nordico-occidentale. Se si vuol delimitare convenzionalmente la designazione, è a tale ceppo, nella sua fase originaria, che si potrebbe forse riferire il termine generale “ario” con una certa giustificazione, se non altro, pragmatica, avendo in vista la diffusione ormai raggiunta dalla parola in questione.
Tuttavia bisognerebbe animare una tale espressione con un certo senso, far sì che essa ci conduca a pensar qualcosa di positivo e non resti una etichetta, un nome da catalogo. Per venire a tanto, vi è un solo mezzo: rifarsi alle tradizioni originarie, cercare di ricostruire quel che nelle antiche civiltà d’India e di Persia, da cui, come si è visto, il termine “ario” scaturisce, si riferiva alla qualità “aria”, in sede sia razziale, sia spirituale.
Il termine ârya come aggettivo nella lingua sanscrita vien dalla radice ar o ri, la quale implica l’idea di muovere, come ascendere (movimento ascendente, come nel termine latino oriri). Tale radice ha tuttavia anche il senso di formare, lavorare (come rifinire), il quale conduce ad uno dei significati principali dell’aggettivo ârya: ben fatto, perfetto, eccellente, quindi anche “nobile”, come uomo di buona razza, bennato, signore. Dall’aggettivo passando al sostantivo ârya, questo implica dunque l’idea di una superiorità biologica, ma altresì etica. Anche etica, perchè da ar, stimare, nello stesso termine è compreso anche il significato di cosa degna di onore, di venerazione, per cui aryâka designa anche “uomo onorevole” e “antenato” con quella sfumatura di rispetto e di venerazione che il Romano connetteva sempre ai maiores nostri, e aryata contegno onorevole, mentre il termine anairya, nello zendo, come si è accennato, indica sia ciò che non è ario, sia ciò che è ingiusto.
Vari autori hanno ravvicinato parole delle lingue indoeuropee che sembravano derivare dalla stessa radice ar di ario e che esprimono qualità di un tipo umano superiore. Herus in latino e Herr in tedesco significano “signore”; in greco aristos vuol dire eccellente e areté virtù; in irlandese air significa onorare, così come nel tedesco antico êra vuol dire gloria, e l’anglosassone êr, il tedesco Ehre e il nordico aer rievocano di nuovo il significato di “onore”. I razzisti moderni, su tale base hanno creduto i riconoscere nell’idea di onore uno specifico contrassegno dell’uomo ariano, specialmente di fronte al tipo ebraico: onore, e quindi anche fedeltà, secondo un colorito speciale: non la fedeltà di un essere servile, ma fedeltà che presuppone una scelta e un atto cosciente. Tuttavia sarebbe facile ricordare la parte che fedeltà e onore hanno anche in popoli non ariani, come quello giapponese o fra i pellirosse. Onde una tale tesi, per essere convincente, dovrebbe chiedere ausilio a ricerche, come quella della psicantropologia del Clauss, secondo la quale onore e fedeltà – come ogni altra dote – non dovrebbero esser predicabili al singolare, esendovi diversi modi, condizionati dalla razza, di esser fedeli e di seguire il principio dell’onore.
Segue nella seconda parte
'Che cosa significa “Ario”? (prima parte)' 1 Commento
24 Novembre 2018 @ 21:30 Maria Helena Mariani
Grazie tanto per il suo contributivo in scrivere e svelare la sua saggezza.