Nell’immagine in evidenza, particolare del bassorilievo “Der Rächer” (“Il vendicatore”) di Arno Breker, esposto alla Grosse Deutsche Kunstaustellung (GDK) di Monaco di Baviera nel 1941.
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di Julius Evola
tratto da “Augustea”, XVI, 21, 16 novembre 1941
segue dalla prima parte
Tornando alle antiche tradizioni, resta tuttavia l’idea di una nobiltà di tipo e di uno stile che rende degni di riconoscimento, di onore. Nella tradizione mazdea la designazione “ario”, per quanto usata di preferenza per le classi alte e per i sacerdoti, è collettiva. È però più che una designazione di stirpe o di “nazione”, nel senso moderno di tali termini. La schiera degli Ari infatti ha anche il significato della milizia terrestre del “Dio di Luce”, milizia che, senza tregua, in uno dei vari piani della realtà cosmica, lotta incessantemente contro le forze oscure dell’anti-dio, di Arimane. L’idea di una simile lotta metafisica trasfigurava ogni forma di vita dell’antico Ario dell’Iran: dal combattere fino al coltivare la terra – giacchè lo stesso coltivare la terra e renderla fertile veniva concepito come una conquista e una vittoria sulle forze dell’anti-dio.
Nell’antica India il significato spirituale dell’esser ario ebbe, a differenza dell”Iran, un carattere meno dinamico e attivistico, più statico e quasi diremmo “olimpico”. Ma qui si viene ad una più netta e completa precisazione del concetto.

il sistema delle caste indiane è in stretto rapporto con la fisionomia umana
Come si è accennato, la qualità “aria” in India si definisce essenzialmente in termini di casta e in una totalitarietà, che abbraccia sia la razza del corpo che quella dello spirito. Arya è designazione collettiva – anzitutto – dell’insieme delle tre caste superiori nella loro opposizione alla quarta casta, alla casta servile dei çûdra – oggi forse si direbbe: alla massa proletaria. Il termine casta in sanscrito – varna – vuol dire anche colore. Ciò ha indotto alcuni a pensare ad un substrato propriamente razziale del sistema indù delle caste: alla casta dei capi spirituali o brâhmana viene riferito il color bianco, così come alla casta servile il colore nero. Ma anche a prescindere da una attribuzione di altri due colori – rosso e giallo – alle altre due caste, colori di cui è difficile una spiegazione razzista, e comunque stiano le cose, dal Guénon è stato giustamente fatto rilevare, che ai due colori dei puri Ari e dei servi devesi dare soprattutto un significato simbolico.
Effettivamente le due espressioni ârya e çûdra nei testi appaiono sinonimi di ârya e dâsa, razza aria e razza nemica, e questa razza nemica, “nera”, krshna, è considerata simultaneamente come razza “titanica” o “demonica”, asurya, laddove la prima è detta razza divina, daivya. Ma vi è un punto ancor più interessante. Il termine ârya finisce con l’apparire nei testi come un sinonimo di dvíja, cioè di “nato due volte” o “rinato” ed è proprio in questi termini [che] viene a precisarsi l’opposizione fondamentale: mentre l’“ario” ha una doppia nascita, naturale l’una e l’altra sovrannaturale, l’uomo appartenente alla razza “oscura” e servile ne ha una sola, quella naturalistica. Ciò che produce la seconda nascita è l’iniziazione, upanayâna. L’ iniziazione, tuttavia, a sua volta, ha per condizione l’esser nato ario.
Ciò non è un circolo vizioso. Si tratta piuttosto di una doppia, reciproca condizionalità. Ari si nasce, non si diventa – questa è la prima condizione, che visibilmente si connette alle origini e ad una dignità delle origini. L’arianità, su tale base, è dunque una qualità condizionata dalla razza biologica, dalla eredità e dalla casta, trasmettentesi da padre a figlio e che da nulla può esser sostituita, così come il privilegio che, fino ad ieri, anche in occidente aveva sangue patrizio. Un codice particolarmente complicato, sviluppante una casistica fin nei più minimi dettagli, conteneva tutte le misure ritenute necessarie per preservare e mantenere pura questa eredità preziosa e insostituibile, considerando non solo l’aspetto biologico (razza del corpo), ma anche quello etico e sociale, il contegno, un dato stile di vita, diritti e doveri, quindi tutta una tradizione di “razza dell’anima”, differenziata poi per ciascuna delle caste nelle quali a sua volta si differenziava la società aria – capi spirituali, brâhmana, aristocrazia guerriera, kshatriya, proprietari patriarcali, vaiçya.

il battesimo: iniziazione cristiana e “porta d’accesso” ad una nuova via.
Ma, per quanto necessaria, questa condizione della nascita non era sufficiente per esser de iure arii. La qualità innata andava confermata per mezzo della iniziazione. Per usare la giusta espressione del Sénart, come il battesimo è condizione indispensabile per far parte della comunità cristiana, così l’iniziazione rappresentava la porta attraverso la quale si entrava a far parte effettiva della grande famiglia aria. E’ l’iniziazione che determina la “seconda nascita”, che crea il dvîja, colui che, a differenza del non-ario, “è nato due volte”. E il Mânavadharmaçâstra giunge fino a dichiarare, che chi è nato ario non è veramente superiore allo çûdra, al servo, prima di esser passato attraverso la seconda nascita o quando la sua gente avesse costantemente trascurato il rito determinante questa nascita, l’upanayâna.
Vi è tuttavia la controparte. Atto e qualificato a ricevere legittimamente l’iniziazione, in via di principio, non è chiunque, ma solo chi è di nascita aria. Impartirla ad altri è un delitto. Ci troviamo perciò di fronte ad una concezione completa, quasi diremmo “totalitaria” della razza. Essa si distingue dalla concezione cattolica, perché ignora un sacramento atto ad esser somministrato a chiunque, senza condizione di sangue, razza e casta, tanto da condurre ad una democrazia dello spirito. In pari tempo, essa supera un certo razzismo materialistico e scientista d’oggi, perché, mentre soddisfaceva molte esigenze di esso portando anzi il concetto della purità biologica e della non mescolanza fino al limite estremo, costituito dalla casta chiusa, pure l’antica civiltà indo-aria riteneva insufficiente la sola nascita fisica: aveva in vista una razza dello spirito da raggiungere – partendo dalla salda base e dall’aristocrazia di un dato sangue e di una data eredità naturale – per mezzo della rinascita, definita dal sacramento ario: poiché soltanto questo, trasmettendo determinate “influenze” spirituali, poteva destare l’intelletto necessario per comprendere e assimilare la conoscenza non-umana contenuta nei testi tradizionali.
Al principio abbiamo rilevato che nel suo senso più alto la “razza” può solo ritrovarsi in una élite. Devesi ritenere lo stesso nei riguardi della collettività aria la quale infatti, come si e già ripetutamente rilevato, a parte la sua opposizione rispetto ai çûdra, si articolava essa stessa nella gerarchia di tre caste distinte. Si è dunque portati a supporre che volendo conoscere l’ultimo significato dello spirito ario si debba esaminare appunto l’àpice di una tale gerarchia. Al che si e condotti da un’altra considerazione. L’iniziazione di casta di cui si e parlato, upanayâna, non va confusa con l’iniziazione in senso assoluto, che in sanscrito ha un altro nome, dîksha. La prima si può forse paragonare analogicamente appunto al sacramento cristiano del battesimo, al quale si attribuisce un certo potere trasformante, ma che viene distinto dalla rinascita propriamente mistica. Resta ad essa – all’iniziazione di casta – tuttavia, il valore di un “sacramento”: corrisponde ad una potenzialità, che può esser variamente sviluppata, fino ad una vera e propria iniziazione. Possiamo dunque pensare, in corrispondenza, ad una varia distribuzione della qualità aria nelle diverse caste, con un massimo intensivo corrispondente alla più alta di esse.
Questa più alta casta aria l’abbiamo detta dei “capi spirituali”, perchè una tale espressione previene molti equivoci e ci permette anche di evitare il problema alquanto complesso dei rapporti esistenti nelle civiltà arie originarie fra la casta sacerdotale – brâhman – e quella guerriera – kshâtram – o regale – râjan. Ancor oggi vi sono molti che, nel riferirsi alla prima là dove essa rappresentò effettivamente il vertice della gerarchia aria in India, credono potervi ravvisare una specie di supremazia “sacerdotale”, cosa effettivamente errata. Anche a prescindere dal fatto, che dalle più antiche testimonianze sembra risultare che la casta “sacerdotale” facesse in origine tutt’uno con quella guerriero-regale, anche a prescindere da ciò e a limitarsi ai soli brâhmana come capi ari, non si può pensare, nel riguardo, ad una società retta da “sacerdoti” e asservita ad idee “religiose”, come gli uni e le altre vengono concepiti ormai da secoli nella fede occidentale. Ciò, per due ragioni.
Anzitutto perché vi era l’accennata condizione del sangue, ignota alla Chiesa: per essere ordinato “sacerdote” (ad usar tale termine) bisognava, nella società aria, esser nati di razza di sacerdoti. La seconda ragione è che l’antica élite aria non costituiva una Chiesa, non aveva dogmi e, soprattutto, ignorava la distanza metafisica fra un Creatore e una creatura.
I suoi rappresentanti non apparivano come mediatori del divino, ma come nature esse stesse divine. La tradizione ce li descrive come dominatori non solo di uomini, ma anche di potenze invisibili – anzi sembra esser un tratto tipico delle epopee arie, questo, di potersi misurare vittoriosamente con le stesse potenze celesti. “Noi siamo dèi, voi (soltanto) uomini” – si legge in un testo (Kançíka, 104). Essi sono formati da “una sostanza ignea radiante”, vengono paragonati al sole, costituiscono “l’apice dell’universo”, “tutti gli dèi dimorano in essi” ed anzi essi “sono oggetto di venerazione da parte delle stesse divinità” (Pârikshita, II, 4; Catapatha-brâhmana, III ix, 1, 14, ecc.). Non sono gli amministratori di una fede, ma i possessori di una scienza sacra. Questa conoscenza è potenza e forza trasfigurante. Agisce come un fuoco che consuma e distrugge tutto ciò che per altri, nelle azioni, potrebbe significar colpa, peccato, costrizione (Mânavadharmaçâstra, XI, 246; XII, 101; XI, 261, 263, ecc,) – è qualcosa di simile al nietzschiano “al di là del bene e del male”, ma su di una ottava superiore, su di un piano trascendente, non da superuomo “bionda bestia da preda” (per quanto il termine hari, fulvo, biondo dorato, ricorra spesso nei testi con riferimento alle divinità arie) ma da superuomo, diciamo così, “olimpico”. Poiché essi sanno e “possono”, quesi capi ari non hanno bisogno di “credere”, non conoscono dogmi, nel dominio delle conoscenze tradizionali sono infallibili.
E come non hanno dogmi, essi non costituiscono nemmeno una “Chiesa”. Esercitano direttamente, di persona, la loro autorità, muniti di un proprio naturale prestigio, superiore, peraltro, a quello del dèposta più armato.

l’arcobaleno è il ponte per eccellenza che porta a stati superiori
Non hanno pontefici da ossequiare, per il fatto che in un certo modo, ogni esponente legittimo della loro casta è “pontefice”, nel senso originario della parola. Pontefice, pontifex è un termine che si basa, infatti, su di una trasposizione simbolica: è colui che fa i ponti, che stabilisce i contatti fra due rive, fra due mondi – fra l’umano e il superumano. Esattamente questa era la funzione propria al brâhman. E poiché in una civiltà orientata in senso eminentemente eroico e metafisico, come era il caso per quella degli antichi popoli arii, una tale funzione appariva di suprema utilità ed efficacia – per questo il capo spirituale, o brâhmana, incarnava agli occhi delle altre caste arie, per tacere di quelle servili non arie, una autorità illimitata e supremamente legittima. Il Bouglé, nel suo “Essai sur le régime des castes”, ha messo bene in luce questo punto.
Di tale dignità, che nello stesso Oriente a poco a poco si offuscò col prevalere di uno stereotipo ritualismo e della speculazione filosofica, tanto da rendere necessaria una riforma su basi, in una certa misura, antirazziali e anticastali, come quella del Buddha – di una tale dignità in Occidente non sono rimasti che dei frammenti e degli echi. Si ricordino le parole riferite a Cesare: “Est ergo in genere (meo) et sanctitas regum, qui plurimum inter homines pollent, et caerimonía deorum, quorum ipsi in potestate sunt reges” (1).
Si ricordino anche alcuni attributi di sovrani medievali, nordici, e romano-germanici, nei quali ricorrono, p. es., i riferimenti alla enigmatica “religione regale di Melchisedek”.
Perciò, riassumendo, se lo si vuole precisare e comprendere sulla base delle vedute e delle tradizioni proprie alle civiltà, alle quali appartenne in via rigorosa e provata, il termine “ario”, più che una semplice realtà filologica o una data “etnia”, finisce col lumeggiare una specie di razza dello spirito.
In genere, esso si riferisce a coloro che si trovano impegnati in una specie di lotta metafisica in terra e che, adombrati dall’“hvarenô” – dalla “gloria” delle “genti arie passate e future e del santo Zarathustra”, hanno in proprio una etica dell’onore e della verità: onde sono, oltre che guerrieri, i “giusti”, i “nobili” (veduta ario-iranica). Nella veduta, invece, indo-aria la nozione comprende in primo luogo l’ideale di un’alta purità biologica, una nobiltà di razza del corpo; in secondo luogo, nella sua espressione più alta, una sintesi fra l’elemento sacrale e l’elemento dominatore o regale come stile interiore – sono tratti di una vera e propria “superrazza”.

Joseph Arthur de Gobineau (1816-1882)
Ci si può chiedere pertanto, se con tutto questo si abbia, alla fine, soltanto un ordine di rievocazioni da un remoto passato, prive di ogni utilità pratica. Ciò dipende. Dipende dalla portata che si vuol dare al movimento di rinnovazione e di restaurazione, che oggi ha fatto sua l’idea di razza così come quella “ariana”. Una tale idea nel De Gobineau che, da un certo punto di vista, può considerarsi il padre del razzismo moderno, conservava ancora dei tratti aristocratici e l’eco di qualcuno dei significati ora accennati – il razzismo del De Gobineau, in realtà, può considerarsi infatti come l’effetto di una reazione aristocratica contro il pantano democratico e egualitario che alla sua epoca andava prendendo tratti sempre più precisi. Ma in seguito il termine “ario”, come si è detto, è stato sempre più banalizzato, sempre più svuotato del suo contenuto. E vero che presso ad alcune forme di razzismo ferve, oggi, la cosiddetta “lotta per la visione del mondo”, der Kampf um die Weltanschauung: ma, di nuovo, in essa, troppa parte hanno mere parole d’ordine politico-nazionalistiche, troppo poca ne ha una ripresa delle vere tradizioni e una severa conoscenza dei principii.
Come pur stiano le cose, il processo di degradazione delle parole rispetto ai loro significati originari costituisce sempre un sintomo preoccupante, sì che, rendendosi conto di ciò così come della più alta vocazione compresa nelle forme migliori e più meditate del razzismo contemporaneo, bisognerebbe far in modo, che l’espressione “ario” cessi di esser la semplice designazione di chiunque non sia proprio un ebreo o un bastardo. Circa, poi, le nostre avanguardie spirituali, esse sanno che occorre sempre tener presenti i supremi punti di riferimento, i concetti-limite, le linee di vetta, perché da essi dipende il senso di tutto uno sviluppo, partendo dai primi gradi di esso. Così, nel riguardo, potrebbe perfino avvenire una scelta delle vocazioni: valori che, oggi, appaiono relegati in mitiche, irraggiungibili lontananze, mentre possono indurre gli uni a “non perdere tempo” in fantasticherie anacronistiche, estranee a questa “epoca delle masse”, [possono] destare negli altri una tensione creatrice, suscitatrice di superiori possibilità, e [possono] indurli a porre il problema delle forme, nelle quali alcuni significati fondamentali connessi all’idea “aria” come idea di vera “superrazza” possano ancor oggi riaffermarsi, in espressioni adatte, tenenti conto del tipo attuale di civiltà.
Nota
(1) “Vi è dunque nella (mia) stirpe la santità dei re, che si innalzano sugli uomini, e la solennità degli dei, sotto il cui potere si trovano gli stessi re” (Svetonio, Vita dei Cesari, libro I) (N.d.R.).
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