In occasione del Natale di Roma, come da prassi, proponiamo uno scritto di Julius Evola sulla Romanità. Quest’anno si tratta di una recensione uscita su “Vita Italiana” nel dicembre 1940, relativa all’opera “Spirito della civiltà romana” di Pietro De Francisci (1883–1971), grande giurista e romanista, saggista e docente di storia del diritto romano (1924-1954), che ricoprì diversi incarichi durante il ventennio fascista, tra cui quello di Ministro di Grazia e Giustizia (1932-1935) e di Presidente dell’Istituto Fascista di Cultura (1937-1940). Autore di altre fondamentali pubblicazioni su Roma, quali Storia del diritto romano (1926, incompiuta, poi seguita da una Sintesi storica del diritto romano nel 1948), Civiltà Romana (1939), Arcana Imperii (in 4 volumi, 1947), Primordia Civitatis (1959), De Francisci rimane a tutt’oggi uno dei più attenti ed importanti studiosi della Romanità, da un punto di vista non banalmente storicistico-positivistico, ma realmente tradizionale, nel senso che il grande giurista seppe cogliere l’essenza ultima della Civiltà Romana nella sua dimensione eminentemente spirituale. Questo aspetto fondamentale fu messo in rilievo da Evola, che salutò con grande trasporto la pubblicazione di “Spirito della civiltà romana“, evidenziando le capacità dell’autore ed i pregi dell’opera, senza peraltro omettere di evidenziarne qualche difetto, non tale, in ogni caso, da inficiarne in alcun modo il valore e l’importanza.
Con l’occasione, annunciamo con piacere una imminente pubblicazione sul tema, da parte di Cinabro Edizioni. Si tratta di “Lo Spirito di Roma in cinque episodi“, a breve disponibile sui canali di vendita dell’editore, opera in cui il grande e compianto Rutilio Sermonti ripercorre in cinque episodi scelti, raccontati per immagini e parole, la nascita e lo sviluppo della vocazione imperiale di Roma, dal solco tracciato da Romolo sino al passaggio del Rubicone di Cesare, rievocando le gesta di coloro che, come Caio Duilio, inaugurarono la missione romana nel mediterraneo, e riabilitando il contegno tenuto da uomini come Ponzio Pilato, nel suo cruciale appuntamento con l’imperscrutabile disegno divino.
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di Julius Evola
Tratto da “Vita Italiana”, dicembre 1940
All’apparire di ogni nuova opera sulla civiltà romana, ci viene di avvertire un certo senso di fastidio: è noto, infatti, che nella maggior parte dei libri del genere da noi non sono che di circostanza, non rivelano nessuna idea nuova, ripetono luoghi comuni delle precedenti interpretazioni «positivistiche» aggiungendo solo delle gonfiature retoriche da commemorazione, sì da produrre un penoso effetto, su chiunque abbia un senso vero della nostra originaria tradizione, la quale, più che essere illuminata da simili scritti estemporanei, ne risulta solo banalizzata e quasi profana.
Siamo stati dunque contenti di essere stati rimossi, una volta almeno, da prevenzioni del genere nel leggere un libro recentissimo di cristallina chiarezza espositiva di Pietro de Francisci sullo spirito della civiltà romana (1). Soprattutto nello scorrerne i primi capitoli, ci è venuto da dire: finalmente vi è una persona autorevole che colpisce il segno, che sa che cosa si deve considerare essenziale, nella romanità. Ed anche la giustificazione del libro ci ha trovato del tutto consenzienti, vale a dire, che nessuna rivoluzione costruttiva è una creazione dal nulla, ma ha per condizione il ritorno a principii e fattori elementari, che per noi solo possono esser quelli della originaria tradizione di Roma. Ed è anche giustissima l’accusa mossa dal De Francisci a coloro che spezzano la nostra storia in due parti: la storia di Roma e del suo impero da un lato, la storia d’Italia dall’altro. Come per il Corradini, così anche per il De Francisci italianità e romanità sono una sola cosa – noi meglio diremmo: debbono essere una stessa cosa, sulla base di una scelta decisa delle proprie vocazioni e delle proprie tradizioni: dobbiamo cioè esaltare, considerare nostro e glorificare come «italiano» solo ciò che può valerci, nella nostra storia, come «romano», e non aver indulgenze né attenuazioni per il resto. Giustamente dice il De Francisci che portare i giovani alla coscienza della potenza e della profondità della corrente di romanità che si diffonde per tutta la storia nostra medievale e moderna, eliminando storture e distruggendo pregiudizi vecchi e nuovi, significa attingere un prezioso alimento per la forza ideale della nostra rivoluzione. Chi non vede l’abisso che separa simili posizioni da quelle di chi, purtuttavia, come il De Francisci, ebbe ad aver la direzione dell’Istituto Nazionale di Cultura fascista – intendiamo il Gentile, il quale non esitò ad affermare essere, la romanità, per noi, solo della retorica vuota di vita e di contenuto, perché per lui la vera tradizione italiana si identifica a quella di una serie di pensatori sospetti e di ribelli eretici a partir dal Rinascimento, sì che nella stessa Italia fascista altro non dovrebbe vedersi e volersi che lo sviluppo dell’Italia del ’70?
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Come premessa alla sua trattazione, il De Francisci, riprendendola in buona parte dallo Spengler, fa una distinzione morfologica assai opportuna, quella fra cultura e civiltà. La cultura, sia come fenomeno intellettualistico, sia come raffinamento delle condizioni materiali di vita di un popolo, non ha nulla da spartire con la civiltà, realtà, questa, ben più profonda: «Civiltà non è soltanto manifestazione di attività prevalentemente intellettuali – dice il De Francisci – ma espressione complessa e concreta di tutte le energie dello spirito: non è soltanto dominio dell’uomo sulla natura esteriore, ma è al tempo stesso signoria dell’uomo sulla propria natura umana, coscienza di coordinazione ad altri uomini, di subordinazione ad un certo ordine di gerarchie, di dipendenza da un potere supremo, divino, trascendente». È una costruzione unitaria ed organica, che però, per essere tale, investe anche il campo politico, presuppone, cioè, anche una organizzazione politica quale realizzatrice e banditrice dei valori fondamentali stanti alla base di quello stesso organismo. E in questo punto speciale si vede il contrasto tra l’idea di civiltà e la concezione astratta della «cultura», specie nelle assunzioni moderne di essa, per via delle quali la «cultura» sarebbe un regno a sé, alieno da tutto ciò che è «politica», invece di esser della politica la suprema forza animatrice e giustificatrice, così come sempre accade in tutte le civiltà tradizionali e, in prima linea – diciamolo fin d’ora – in quella romana (2).
Ora, proprio in sede di «civiltà» nel senso ora precisato il De Francisci studia l’antico mondo romano. Roma fu eminentemente «civiltà» ed è nel senso di questo ideale unitario ed antintellettualistico che deve parlarci la sua grandezza. Quale fu il volto specifico di tale civiltà? Quali gli elementi fondamentali, tipici e costanti del suo «stile»? Il De Francisci ne considera soprattutto quattro:
Chiarezza e semplicità anzitutto, fondate su di una intuizione precisa e sicura della realtà, e non solo della realtà visibile, ma anche – è merito del nostro autore riconoscerlo senz’altro – di quella invisibile. «Giacchè se i Romani sono stati dei realisti, essi mai sono stati dei materialisti: pochi popoli hanno anzi come i Romani portato con sé per secoli la convinzione dell’esistenza di una volontà e di una potenza trascendente, alle cui leggi deve adattarsi e conformarsi la condotta umana. Ma una chiarezza e una semplicità, che sono elementi di grandiosità» e che si riflettono – come eco di qualcosa di eterno e di staccato dalle piccole vicende dei singoli, da tutto ciò che è pathos e sensibilità – nell’elemento monumentale del mondo romano. In più, l’unità che è insieme «organicità e saldezza, fondate su di un equilibrio di forze e di fattori», su di un collegamento sapiente che supera e comprende tutte le varietà, le distinzioni, le complicazioni: unità come potenza formativa e organizzatrice.
Ne risulta un ordine, che mentre «è sentito come un sistema trascendente di principii determinati dalla natura stessa delle cose» (è l’antica concezione aria del cosmos o del rta), si esprime attraverso uno stile di rigore, di determinatezza, di essenzialità: insofferenza per tutto ciò che incomposto, incerto, soggettivo, disperso. Preciso e chiaro predominio dell’ethos, ma non come norma soltanto umana, bensì come rigorosa obbiettivazione di una realtà supersensibile (3). A tal riguardo, il De Francisci assai giustamente combatte coloro che vogliono supporre l’antico Romano arido, privo di sentimenti e di fantasia. Quel che, solo, restò alieno dall’anima romana, fu il soggettivismo infecondo che si abbandona ai capricci dell’arbitrio nei quali di disperde e si dissipa ogni energia morale: «ma non per questo è meno ricca la sua interiorità, che consiste soprattutto nell’adesione dello spirito alle norme di un ordine superiore» nel segno della pietas, della fides e della gravitas. E, come noi stessi in altra occasione abbiamo sottolineato, la mancanza di fantasia nei Romani è più un titolo di superiorità che di inferiorità: essa è da intendersi nel senso che – come dice il De Francisci – «la fantasia dei Romani non è un giuoco gratuito di arditezze intellettuali, non è creazione di un mondo di imagini staccato dalla realtà, ma uno strumento per chiudere questa realtà in forme ben definite, per inquadrarne ed organizzarne le forze».
E lo stesso va rilevato circa l’accusa, mossa ai Romani, di aver avvilito il pensiero di fronte all’azione. Ma di che pensiero si tratta? Nessuno contesta la scarsa simpatia dei Romani per le costruzioni teoriche. Ma l’azione stessa, quando si dimostra coerente, lineare, efficace – nota il De Francisci – non testimonia essa stessa di un pensiero, anzi di una più alta potenza del pensiero? Tutta la storia dei romani sta a dimostrare che essi hanno creduto in taluni valori e hanno tenuto fermo alcuni principii i quali, attraverso la loro esperienza, si sono definiti, precisati, affermati ed anzi hanno assunto una portata e una applicabilità sempre universali.
In ordine all’elemento strutturale, vi è un elemento specifico nella «civiltà» di Roma, cioè una gerarchia, in cui la preminenza è riservata ai valori politici: tutto è assunto e organizzato in funzione di Stato. Ma siamo stati lieti di vedere che il De Francisci ha evitato una duplice falsa svolta nella quale, nel riguardo, finisce la grandissima parte degli interpreti moderni della romanità. Infatti, in primo luogo, una tale preminenza dell’elemento politico non è per nulla da intendersi come secondo certe moderne aspirazioni politiche al primato di un potere temporale su qualsiasi autorità spirituale. L’elemento politico e quello religioso in Roma antica si trovarono invece in una unione indissolubile. Il punto di partenza del Romano è stata la coscienza, che forze divine e trascendenti esistono ed agiscono dietro a quelle umane storiche. Così il principio supremo della «politica» romana, e conseguentemente di ogni determinazione della volontà e dell’azione, fu quello di conformare la vita individuale e collettiva al fas, «volontà divina rivelata, che è legge suprema contro la quale non è possibile reagire se non commettendo un nefas, cioè un atto non solo riprovevole ma produttivo di conseguenze funeste». La base religiosa del primo diritto romano, del resto, il De Francisci l’aveva già messa in rilievo in una sua precedente «storia del diritto romano». Nel nuovo libro egli ricorda il significato profondo relativo al fatto dell’inseparabile connessione dell’imperium dei capi politici romani, con l’auspicium, vale a dire con una disciplina avente per presupposto la possibilità di entrare in rapporto con le forze divine e di presentire le direzioni, lungo le quali esse possono confermare e potenziare le forze e le azioni umane. Anche se il De Francisci non va oltre in un esame approfondito del senso del rito nel mondo antico, pure in ciò vi è quanto basta per ben distanziarlo da quanti, nel riguardo, non sanno vedere che «superstizione» e «ottuso fatalismo» per non apprezzare, dello ius romano, che il suo cadavere giuridico «positivo».
L’altro pregiudizio che di solito si nutre nei riguardi della totalitarietà delle civiltà politica romana, si riferisce alla libertas. Ma, di nuovo, è impossibile giudicare il mondo antico con misure moderne, che poi sono semplicemente misure false e falsatrici. Il De Francisci mette bene in rilievo tutto il rispetto che Roma antica tributò alla libertas: ma è una libertas concreta, comprendente in sé il concetto di limite: è la libertà come facoltà e diritto legittimo di muoversi, di agire, di disporre di sé e del proprio entro uno spazio ben determinato, all’interno di una gerarchia positiva, ove ad ognuno si riconosce il suo: suum cuique. Così il Romano conobbe un equilibrio esemplare di auctoritas o lex e di libertas nell’ignorare il concetto democratico di eguaglianza proprio alla decadenza ellenica, nel superare l’individualismo con una determinazione di limiti, con una fissazione di gerarchie, con un coordinamento di attività. E questo è un altro degli aspetti, secondo i quali la Romanità resta, nei secoli, segno e simbolo di un superiore ideale politico e tradizionale.
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Avendo fissato in questi termini il lato veramente pregevole e, per molti, illuminativo della nuova opera del De Francisci, ci sia permesso far anche alcuni rilievi.

Romolo traccia con l’aratro i confini di Roma (Bartolomeo Pinelli, da ‘Istoria Romana’, 1818-1819, incisione)
Anzitutto, nel riguardo delle origini. È vero che, nel riguardo, oggi se ne sentono dire di ogni colore. Purtuttavia chi ha l’occhio sufficientemente addestrato può riconoscere e discriminare quel che vi è di valido in fatto di razze e forze spirituali del mondo delle origini. Sul problema ario in Italia, sul significato dell’incrociarsi o comporsi di simboli e costumi vari – p.es. riti di inumazioni o di arsione, culti solari e culti tellurico-materni, ecc. – sui rapporti spirituali fra Etruria e Roma e via dicendo, poco o nulla si trova nel libro del De Francisci. Ora, se non si riesce ad avere una visione, per così dire, drammatica del mondo antico italico, in funzione sia di razza che di spirito, non si può nemmeno cogliere il vero significato di Roma, delle sue lotte, della sua missione, del suo destino (4).
In relazione a ciò, manca parimenti nell’opera del De Francisci una qualunque indagine di quel che noi vorremmo chiamare la «storia sotterranea» di Roma. In essa, l’attenzione resta concentrata sulla storia nel senso comune, bidimensionale del termine, anche se esaminata con innegabile acume. L’analisi del lato più profondo, spirituale, di certi dissidi sociali e di certe opposizioni di culto in Roma, non viene fatta. Quale fu, p.es., l’influenza che agì, in Roma antica, attraverso i «Libri Sibillini»? (5). È un problema fra i tanti, della storia sotterranea di Roma, la cui importanza è tutt’altro che da trascurarsi.
Il De Francisci, come si è detto, ha ben visto nella connessione della volontà umana, epperò dell’azione, a significati più che umani, un elemento caratteristico della realtà romana. E da altri è stato messo più particolarmente in rilievo che non nello spazio, come visione, ma nel tempo e nella storia, come azione, il Romano percepì essenzialmente la rivelazione del divino (6). Ora, si può riconoscere ciò, senza riconoscere anche, che una storia della romanità sarà sempre incompleta, se non diviene, in una certa misura, una metafisica della storia, se non si sforza, cioè, di cogliere un contenuto simbolico a suo modo oggettivo nei rivolgimenti più importanti e decisivi della romanità? Il pericolo di divagazioni e di pure interpretazioni personali, qui, naturalmente, è grande. Purtuttavia è necessario far qualcosa in questo senso, se la storia romana deve veramente parlarci. Conosce il De Francisci la famosa introduzione a Die Sage von Tanaquil di J. J. Bachofen? in quest’opera antica, e proprio in riferimento alla romanità, vi sono spunti metodologici, che ancor oggi sono di particolare importanza.
Anche vari problemi del periodo imperiale, specie in ordine all’importazione dei culti «asiatici» e del loro significato, sono stati trattati dal De Francisci in modo soltanto «storico», nel senso corrente della parola. Il momento razziale sul piano degli elementi di civiltà e di culto, non viene approfondito. Ad esempio: che cosa dei culti «asiatici» e delle forme dello stesso culto imperiale rimanda, malgrado la degenerescenza delle loro espressioni esteriori, ad elementi di una comune, arcaica tradizione aria, tanto che p.es. certi aspetti della riforma religiosa augustea richiamarono in vita, di fatto, alcune idee dimenticate o offuscate dalla prima romanità?
Ottima è invece l’analisi fatta dal De Francisci dei vari fattori politici e sociali e dei vari tentativi di restaurazione del tardo periodo imperiale. La vera causa della decadenza è da lui ben messa in luce: l’impero universale poteva reggersi solo a patto che il momento espansivo avesse avuto un corrispondente momento di concentrazione e di intensificazione nazional-razziale. Per quanto indispensabile, un unico, supremo punto di riferimento – l’autorità imperiale divina – non poteva essere sufficiente: sarebbe stato invece d’uopo provvedere simultaneamente alla difesa materiale e spirituale della razza italico-romana, come matrice privilegiata degli elementi destinati a reggere e a comandare nel mondo. Al luogo di ciò, Roma accettò il cosmopolitismo, fermento di livellamento e di disarticolazione. L’impero presunse di abbracciare universalisticamente il genere umano, senza distinzione di razze, genti o tradizioni, sulla sola base del supremo potere centrale divino, e presso ad uno sfaldamento e ad una «positivizzazione» dell’antica idea giuridica, ormai trapassante nel giusnaturalismo.
Su tale base noi incliniamo a credere che, contrariamente all’opinione di molti e, può darsi, a giudicare da alcuni suoi accenni, dello stesso De Francisci, il cristianesimo o, almeno, un certo cristianesimo, solo degli aspetti negativi dell’Impero assunse l’eredità. Infatti, solo in termini di «spirito», universalisticamente, esso si propone di unificare e raccogliere le genti nell’impero disfattosi; e se, oltre a ciò, creò nel clero una gerarchia e un potere centrale, esso lo creò senza nessun presupposto razziale: il clero venne reclutato da tutti i ceti e da tutte le genti e, per via del celibato, non potè costituire una casta, non potè dar luogo ad una tradizione regolare, poggiata anche sul sangue, come invece accadde in molte antiche società ariane.
Solo nel Medioevo, per mezzo del contributo ario-germanico, si venne ad una certa rettificazione di questi aspetti negativi del retaggio dell’ultima romanità. Risorse l’ideale organico. Lo stesso cattolicesimo andò a presentare meno i tratti di una religione universalistica che quelli della fede propria al blocco combattivo delle nazioni arie e europee della «cristianità». Ed è in questi termini ed in forme che, come abbiamo avuto occasione recentemente di accennare in questa stessa sede (fasc. novembre), oggi hanno un curioso aspetto di attualità e perfino di «futurismo», che la forza più pura delle nostre origini si riaffermò di là dal tramonto della prima Roma.
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Note dell’autore
(1) P. DE FRANCISCI: Spirito della civiltà romana, edito da Principato, Milano-Messina, 1940, a cura dell’Istituto Nazionale di Cultura Fascista;
(2) Assai efficacemente è stato messo in rilievo questo punto in un’opera non sufficientemente notata: G. CAVALLUCCI: L’intelligenza come forza rivoluzionaria, Roma, 1937;
(3) Un risalto particolare, mediante la considerazione del senso del rito, viene dato a questa idea nell’opera di M. SCALIGERO: La Razza di Roma, Roma, 1939, anche se alcune parti di essa avrebbero forse avuto bisogno di venir ultriormente elaborate;
(4) Si cfr. le linee generali di un tentativo di inquadramento del genere nella seconda parte della nostra opera: Rivolta contro il mondo moderno (Milano, 1935). Del resto, spunti analoghi, per quanto in una utilizzazione prevalentemente politica (nel senso cattivo, moderno del termine) si trovano nella nota opera di A. ROSENBERG: Der Mythos des XX Jahrhunderts (Muenchen, 1933);
(5) Cfr. il nostro articolo in proposito su questa rivista, fascicolo di settembre 1939, pag. 313;
(6) Cfr. C. KERENYI: La religione antica nelle sue linee fondamentali, Bologna, 1940.
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