Civiltà e civilizzazione

Un altro approfondimento di Evola su Spengler: su “Civiltà”, nel numero di maggio-agosto 1974, quindi a distanza di poco tempo dalla scomparsa terrena del barone, uscì questo articolo in cui Evola tornava ancora, significativamente, sull’antinomia Kultur-Zivilitation, inquadrandola da un punto di vista morfologico anzichè storico-cronologico, onde aggirare le criticità che, a giudizio di Evola, presentava il sistema spengleriano. Ciò gli permise di soffermarsi di nuovo, spendendo ulteriori, importanti parole, su uno dei aspetti che più di tutti lo avevano convinto dell’elaborazione dello scrittore tedesco, anche perchè più in linea con l’oggettività dei precetti tradizionali. In effetti, al di là delle critiche, che, come visto, non risparmiò a Spengler, Evola non mancò di dedicargli molto del suo lavoro, dalle traduzioni, alle prefazioni, agli articoli: segno che, al di là dei limiti dovuti all’approccio soggettivistico ed immanentistico dello scrittore tedesco, non sufficientemente connesso al sistema tradizionale, il lavoro di Spengler meritava comunque di essere conosciuto ed analizzato; il rinnovato interesse per l’opera spengleriana in anni di profonda crisi come questi, ne costituisce una conferma.

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di Julius Evola

Tratto da “Civiltà”, maggio-agosto 1974

Devesi ascrivere a merito di Oswald Spengler – di cui in questi giorni è uscita per le Edizioni del Borghese la ristampa di Anni decisivi (1) – l’aver dato una espressione precisa a idee più o meno distintamente intuire da coloro che avevano studiato la crisi del mondo, e ciò mediante la contrapposizione dei due termini Kultur e Zivilitation.

La nostra lingua permette una traduzione abbastanza pertinente di queste parole, con civiltà per la prima con civilizzazione per la seconda, mentre altre lingue, come l’inglese o il francese, incontrano a tale riguardo delle difficoltà e debbono ricorrere alla parola «cultura» per Kultur (come del resto fanno alcuni in Italia), parola inadatta in questo contesto e, come accenneremo, tale anche da dar luogo ad un equivoco.

Si può prescindere dalla concezione storica personale dello Spengler che, come è noto, concepisce una pluralità di civiltà chiuse aventi ognuna un decorso ciclico costante, con una aurora, una maturità e un fatale tramonto, la «civiltà» in senso specifico stando per lui all’inizio di ogni ciclo, la «civilizzazione» segnando invece il suo crepuscolo. Possiamo considerare, invece che storicamente, morfologicamente i due concetti, cioè in relazione a due tipi o forme possibili e universali di organizzazione umana.

La «civiltà» sta sorto il segno della qualità, dell’organicità, della forma vivente, della strutturazione gerarchica; la «civilizzazione» si sviluppa invece sul piano della quantità, della meccanicità, della forma astratta, del livellamento e di una informe potenza. La «civiltà» conosce il regime delle classi funzionali, delle caste, dei corpi sociali particolari, ordini e corporazioni. Tutto l’ordinamento gravita su ciò che lo Spengler chiama gli Urstände, cioè le classi o caste primordiali, costituite, per lui, dalla nobiltà e dalla sacerdotalità, che sono esse, anche, a dare il tono a tutta la civiltà e ad incarnare i simboli fondamentali di essa. Più in genere e più esattamente, noi possiamo parlare di una naturale autorità posseduta dal tipo del guerriero e da quello dell’asceta o del capo spirituale, che agli occhi di tutti appaiono come incarnazioni del più alto ideale umano. La spiritualità qui non è qualcosa di intellettualistico e di scisso dalla vita; è invece una forza in atto che detta direttamente una legge evidente in esseri dal sicuro istinto, in alto come in basso. Vi è così tradizione viva, senso di razza, aderenza alla terra dovunque esiste una «civiltà».

La civilizzazione ha tutt’altri caratteri. Geneticamente, essa di solito sorge dalla dissoluzione di una precedente «civiltà» e da un diverso orientamento di ogni interesse umano. L’inizio è quasi sempre l’avvento del Terzo stato, cioè della borghesia, e l`individualismo. Le connessioni organiche vengono sentite come vincoli da infrangere, l’uomo diventa «individuo», cioè unità staccata e «libera», atomo senza radici. Così nasce a poco a poco, sopra tutto nel segno dei grandi agglomerati cittadini, il regno della democrazia e della quantità, il mondo delle masse. È come sabbia senza coesione che secondo il vario spirare del vento assume ora una forma e ora un’altra, docile alle suggestioni della demagogia o dei miti fabbricati dai capipopolo e, in genere, da coloro che manovrano gli strumenti della formazione dell’opinione pubblica, partendo dalla stampa.

A tutto ciò che è spiritualità e sano istinto di razza si sostituisce ora l’intelletto astratto e la «cultura» (ecco perché non si può tradurre Kultur, in senso spengleriano, con «cultura»). Non l’asceta o il guerriero, ma l’«intellettuale» occupa il primo piano. La nobiltà del sangue o della sacralità è scalzata dalla «aristocrazia dell’intelletto» coi tipi del dottrinario, del critico, del «pensatore» e del professore – come controparte della «aristocrazia del danaro».

In effetti in regime di «civilizzazione» le classi funzionali si trasformano in semplici classi economiche, e l’economia, il lavoro divengono un destino. Cessando di stare al servizio di interessi superiori, le facoltà intellettuali, quando non si esercitano sul piano della pura «cultura», delle arti e delle lettere (che qui hanno uno sviluppo ipertrofico e anarchico, privo di aderenza con qualsiasi idea superpersonale), si applicano al dominio della materia sotto specie di scienza esatta ma disanimata, di conoscenza quantitativa informata da un interesse puramente pratico. Da qui lo sviluppo senza pari della tecnica e della tecnicizzazione, la realizzazione della potenza sulla natura, l’industrialismo e la produzione, la elevazione delle condizioni dell’esistenza fisica da un lato, la proletarizzazione dall’altro. Le «civilizzazioni» tendono pertanto a sboccare nella pura quantità organizzata astrattamente e meccanicamente, senza distinzioni qualitative e vincoli organici, con tecnici e capipopolo al centro, ora in veste di democratici vociferanti controllati dalla finanza, ora in veste di dittatori, privi in ogni caso di qualsiasi crisma superiore. Tradizione, patria e razza qui finiscono col divenire semplici parole. In fondo, si è sul piano di un gioco di forze irrazionali lasciate a sé stesse.

Tutto l’equivoco in cui cadono gli esaltatori del «progresso» e della «marcia in avanti» dell’umanità si basa sul confondere la «civiltà» con la «civilizzazione». Dall’incremento della civilizzazione con tutte le conquiste e i miraggi di grandezza e di potenza, di miglioramento sociale e tecnico che le sono propri, si inferisce ad un incremento di «civiltà». Sembra essere invece destino che i due termini siano antitetici: ogni progresso in fatto di «civilizzazione» viene pagato con un regresso – spesso impercepibile per lo sguardo superficiale, ma non per questo meno reale e fatale – in fatto di «civiltà». Sembra che si debba scegliere: fra un sistema che materialmente e socialmente presenta inevitabili imperfezioni e disfunzioni e un sistema che in tale dominio può raggiungere un incomparabile grado di perfezione, mantenendo però all’interno un vacuum, una mancanza sostanziale del senso della vita, mancanza malamente compensata o mitigata da forme molteplici e esasperate di distrazioni o di esaltazione collettiva e di ebrezze illusorie: nel caso attuale cinema, radio, sport, partiti, sesso.

Nota redazionale

(1) Evola si riferiva all’edizione di Anni decisivi pubblicata dalle Edizioni del Borghese di Milano nel 1973, per la quale il barone scrisse la prefazione, che avremo modo di presentarvi più avanti.

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"In una civiltà tradizionale è quasi inconcepibile che un uomo pretenda di rivendicare la proprietà di una idea e, in ogni caso, in essa chi così facesse, con ciò stesso si priverebbe di ogni credito e di ogni autorità, poiché condannerebbe l’idea a non esser più che una specie di fantasia senza alcuna reale portata. Se una idea è vera, essa appartiene in egual modo a tutti coloro che sono capaci di comprenderla; se è falsa, non c’è da gloriarsi di averla inventata. Una idea vera non può essere «nuova», poiché la verità non è un prodotto dello spirito umano, essa esiste indipendentemente da noi, e noi abbiamo solo da conoscerla. Fuor da tale conoscenza, non può esservi che l’errore" (R. Guénon)

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