Nell’anniversario della scomparsa terrena di Julius Evola, riproponiamo, nell’ambito dello speciale “Civiltà”, un articolo in sua memoria scritto per il celebre periodico dall’avvocato Paolo Andriani, esattamente un anno dopo la dipartita del grande maestro.
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di Paolo Andriani
(da “Civiltà” n. 12-13 maggio-agosto 1975)
Roma, Corso Vittorio 197, un anno fa. Sono quasi le 3 del pomeriggio dell’11 giugno 1974; nel suo appartamento, all’ultimo piano di palazzo Baccelli, Julius Evola si solleva dal letto sul quale da alcuni mesi è rimasto ormai quasi immobile e chiede alla governante ed alla gentile amica che lo assiste, di aiutarlo ad indossare qualcosa: vuole sedersi al suo scrittoio, dinanzi alla finestra aperta, vuole vedere quell’orizzonte che si profila lontano quasi a livello della sua finestra, un orizzonte che gli è caro e che fa ormai parte integrante del suo ambiente domestico: il Gianicolo, il Fontanone, l’Accademia di Spagna, il verde, i pini, il sole; le due donne lo sorreggono amorevolmente, lo conducono sulla sua sedia dinanzi al tavolo di lavoro; egli si guarda d’attorno, osserva il suo scrittoio, la macchina da scrivere, le sue carte; non pronunzia verbo; poi dà un ultimo sguardo fuori, alla luce quasi abbagliante di quel pomeriggio della prima estate romana; quindi reclina il capo, senza una parola, senza un gemito, senza un sospiro.
È morto così, Julius Evola, da aristocratico, con estrema semplicità, con estrema dignità, con estrema naturalezza; simbolicamente in piedi a significare il superamento di quelle avversità che materialmente in piedi non lo avevano voluto per tanti anni della sua vita. In un baleno si propaga la ferale notizia; desolati, ma già da qualche tempo consapevoli della ineluttabilità dell’evento, accorrono subito gli amici più intimi; poi giungono, sempre più numerosi, i suoi discepoli, i suoi seguaci, i suoi estimatori; vengono a rendergli omaggio scrittori, giornalisti, uomini di cultura, personalità; vengono soprattutto tanti, tanti giovani che sostano in piedi, rigidi sull’attenti, protagonisti di un rito che essi sentono intensamente. Il dolore per l’immensa perdita aleggia denso, quasi palpabile, nelle due stanze dove si accalca ormai una piccola folla; ma è un dolore composto, virile, senza lacrime, all’altezza dell’uomo a cui si va a dare l’ultimo reverente saluto. Julius Evola è morto.
Ma tutti sanno che ciò è accaduto nel momento esatto in cui egli ha voluto che accadesse. Tutti sanno che la sua dipartita dalla vita terrena è stato l’esito di una libera scelta, assunta allorquando ciò che quivi lui doveva compiere, tutto aveva compiuto, sino in fondo, con assoluto rigore. E tutti si inchinano alla volontà del Maestro.
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Ad un anno di distanza da quel triste giorno, sappiamo ora con chiarezza che Evola ancora una volta ha avuto ragione, che ha scelto bene il momento, forse agognato, della liberazione del suo spirito dai vincoli di una esistenza terrena, alla quale egli, come entità materiale, più nulla poteva dare che non avesse già dato.
La realtà mondana che ci circonda, sempre più degradata ed ispessita di volgarità, non ha tanto bisogno di un Evola vivo, quanto invece delle idee che Evola ha incarnato da vivo, e che, con Evola morto, acquistano la meritata aureola del mito, ed anche la virulenza delle Idee-forza, delle Idee suscitatrici di fermenti spirituali, capaci di smuovere le cose del mondo e forse il mondo tutto intero. Perché di questo si tratta ormai: di rivolta contro il mondo moderno, come ci ricorda il titolo del libro suo più bello; per tale «rivolta» Evola ha fornito a noi tutti, e soprattutto alle giovani generazioni ed a quelle che verranno, le armi spirituali idonee al compito immane. Perché ormai, sarebbe stolto il negarlo, al cospetto di una rivoluzione demoniaca che l’intera civiltà sta sommergendo sotto la coltre plumbea di un materialismo misticamente abbracciato, solo una antitetica visione della vita e del mondo, altrettanto misticamente vissuta, e fondata su verità universali, può osare di proporre una svolta alternativa, una rivolta che consenta alla Civiltà di trarsi a salvamento. Perché Evola questo ci ha insegnato, illuminandoci sui princìpi dell’eterna saggezza, che contro la prorompente menzogna universale, il fortilizio che può reggere l’urto è solo quello delle «verità universali», tramandateci, attraverso lo scorrere dei secoli, dal filone immutabile della «tradizione».
In questo senso l’anno trascorso dalla sua scomparsa non è stato inutile: ci ha aiutato a capire l’immensità del patrimonio ideale che egli ci ha lasciato; ci ha imposto un periodo di sofferta meditazione sulla sua vita, sulla sua opera, sulla sua morte; ci ha fatto comprendere che per taluni spiriti eletti tra la vita e la morte non c’è alcun baratro, ma solo un «salto di qualità»; un anno quindi di severa riflessione che ha catalizzato in noi un flusso di volontà tenace, che non ammette tentennamenti lungo la strada che ha da essere percorsa dagli uomini della tradizione. Ci ha reso consapevoli che l’avremo percorsa, quella strada, se domani vi sarà altri che di noi potrà dire «essi hanno fatto tutto ciò che doveva essere fatto».
Significherà che saremo stati degni di Julius Evola.
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