Civiltà | La cultura sotterranea (II parte)

Seconda ed ultima parte del saggio di Gianfranco De Turris inizialmente scritto come premessa al volume “Citazioni” del 1972, e ripubblicato sul numero speciale di “Civiltà” dedicato ad Evola.

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di Gianfranco De Turris

(da “Civiltà” n. 8-9 settembre-dicembre 1974)

segue dalla prima parte

Il 1934 fu l’anno in cui vide la luce l’opera forse fondamentale del pensiero evoliano («Dopo averlo letto ci si sente trasformati», ha detto il famoso poeta e critico tedesco Gottfried Benn): Rivolta contro il mondo moderno, una monumentale summa ancor oggi insuperata, di notizie e cognizioni attraverso le quali l’autore ricostruisce il «mondo della tradizione» e traccia la genesi del «mondo moderno» secondo un’ottica che trovò in genere l’approvazione dello studioso tradizionalista francese René Guénon, il quale ebbe modo di esaminarla in anteprima sulle bozze che lo stesso Evola gli inviava man mano.

Per comprenderne l’inedito punto di vista si leggano attentamente queste righe che vi sono premesse: «In genere, l’ordine di cose di cui ci occuperemo principalmente è quello ove ogni materiale che valga “storicamente” e “scientificamente” è il materiale che meno vale; ove ciò che come mito, leggenda, saga, viene destituito di verità storica e di forza dimostrativa, acquista invece proprio per questo una validità superiore e vi fa fronte per una conoscenza più reale e più certa. E proprio questa è la frontiera che supera la dottrina tradizionale dalla cultura profana. Ciò non vale solo con riferimento ai tempi antichi, alle forme di una vita “mitologica”, cioè superstorica, come in fondo fu sempre quella tradizionale: mentre dal punto di vista della “scienza” si dà valore al mito per quel che esso può fornire alla storia, dal nostro, si dà valore alla stessa storia per quel che essa può fornire al mito, o per quei miti che s’insinuano nelle sue trame, quali integrazioni di “senso” alla storia stessa (…) Gli anatemi “scientifici” a tale riguardo sono noti: arbitrario! soggettivo! fantasioso! Dal nostro punto di vista non c’è l’arbitrario, il soggettivo e il fantasioso, e non c’è l’oggettivo e lo scientifico quale i moderni lo concepiscono. Tutto ciò non esiste. Tutto ciò sta fuori della Tradizione. La Tradizione comincia là dove col raggiungimento di un punto di vista superindividuale e non umano e possibile porsi al di sopra di tutto ciò» (1). Si immaginino a questo punto le reazioni degli storici! Ma il fatto è che quella di Evola è una storia… antistorica: non descrive la evoluzione dell’uomo e della civiltà, bensì la loro involuzione!

Ne consegue che ciò che separa questo mondo tradizionale dal mondo moderno è che il primo si fonda essenzialmente sui valori del sacro e dell’eternità, mentre il secondo su quelli dell’utile e del tempo: tale contrapposizione continua delle «civiltà del tempo» con le « civiltà dello spazio» è sempre presente nella seconda parte della Rivolta dedicata a «Genesi e volto del mondo moderno»: vi sono esaminati tutti quei procedimenti storici che hanno condotto ad esso, ma, essendo il punto di riferimento sempre quello del «mondo della Tradizione» nella sua qualità di realtà superstorica, ed il metodo d’indagine quello d’individuare quanto agisce dietro l’apparenza dei fenomeni storici, ecco che ci si trova di fronte a ciò che Evola stesso definisce una «metafisica della storia». Ne deriva, per conseguenza, la descrizione particolareggiata della «decadenza» del mondo tradizionale: ipotesi antievoluzionistica e antidarwinistica. Non l’uomo-scimmia che si eleva, ma l’uomo-dio che decade. Tutte le antiche civiltà, infatti, parlano di un ciclo di epoche che tendono a regredire, da quella dell’oro a quella del ferro, al kali-yuga, all’età oscura, all’era del lupo. Gli anni che attualmente stiamo appunto penosamente attraversando.

Dunque, «il ciclo si chiude». E questo il titolo dell’ultimo capitolo della Rivolta. La tenaglia si stringe: americanismo e bolscevismo sono attualmente i simboli delle masse che prendono il potere, di filosofie di vita materialistiche, inaccettabili. Evola, quindi, «contesta» e «contesta», lo ripetiamo, in modo definitivo, assoluto, addirittura ante litteram nei confronti della moda presente, se si considera che il saggio che sta di base a quest’ultimo capitolo del libro apparve sull’autorevole Nuova Antologia addirittura nel maggio 1929, più di quaranta anni fa!

La Rivolta non è, in conclusione, un libro di storia «pura», ma di « metafisica della storia», di «filosofia della storia»: non devono sorprendere, perciò, giudizi negativi su personaggi notevoli e oggettivamente grandi o su avvenimenti fondamentali e acquisiti, che vengono a sconvolgere valutazioni ormai radicate in noi: si ricordi che tutto l’arco della nostra civiltà è osservato da Evola in una prospettiva grandiosa e generale che supera i casi particolari e contingenti. Ma, a parte ciò, il libro è anche notevolmente affascinante, offrendo, come infatti offre, all’attenzione ed all’immaginazione inaridita dei giovani lettori degli Anni Settanta, una interpretazione fuori dagli schemi comuni della vicenda umana, spaziando dalle civiltà dell’Occidente a quelle dell’Oriente in una visione unitaria, aprendo nuovi orizzonti di sapere, divulgando Weltanschauungen oggi scomparse ma di enorme suggestione, rivelando la dimensione ignota e sconosciuta di fatti e cose. «Vi sono punti di forza magica nel libro», è stato detto. Lo sottoscriviamo.

Partendo, dai presupposti della Rivolta, tre anni dopo Evola esaminò a fondo, come nessun altro ha fatto sino ad oggi, Il mistero del Graal (1937) e le sue implicazioni dottrinarie nelle visioni politiche dei diversi periodi storici, imperniando il proprio discorso sulla «tradizione ghibellina dell’Impero»: ne derivò un affresco che nulla ha a che vedere con la pedanteria degli studiosi, ad esempio, di filologia classica. Ma, intorno a quegli anni, le contingenze politiche europee indussero l’attività di Evola ad orientarsi verso altri aspetti più propriamente politici e verso l’esame e lo studio della scienza della razza. Nel primo dominio, diede impulso alla sua vastissima attività giornalistica, che già spaziava in molti campi della cultura, scrivendo su quotidiani come Il Regime Fascista, Corriere Padano, Il Giornale della Domenica, Roma, Il Popolo d’Italia, La Stampa, Il Mattino; su riviste e periodici di varia estrazione come: Logos, Ultra, Educazione Fascista, La Nobiltà della Stirpe, Il Lavoro Fascista, Ignis, Idealismo realistico, La Fiera Letteraria, Critica Fascista, La Rivista del Club Alpino Italiano, Politica, Nuova Antologia, Il progresso religioso, Lo Stato, La Vita Italiana, La Difesa della Razza, Rassegna Italiana, Augustea, Bibliografia Fascista, Carattere, Insegnare, Scuola e Cultura, Il Saggiatore e altri. Anzi, ad Evola si deve una iniziativa veramente unica apparsa durante tutto il periodo fra le due guerre: la pubblicazione a sua cura su Il Regime Fascista, quotidiano di Cremona diretto da Roberto Farinacci, di una pagina speciale intitolata Diorama filosofico che, tra il 2 febbraio 1934 ed il 18 luglio 1943, indagò sui «problemi dello spirito nell’etica fascista»: ad essa chiamò a collaborare molti importanti uomini di pensiero italiani e stranieri del tempo (da Coppola a Guénon, da Fanelli a Heinrich, da Tilgher a Spann e a Benn).

Per quanto riguarda gli studi che Evola fece sulla razza, si deve dire subito, a scanso di equivoci, che egli respinse «recisamente ogni teorizzazione del razzismo in chiave esclusivamente biologica» (2), come ha scritto uno storico serio e imparziale, Renzo De Felice, il quale ha anche notato come Evola, in quell’occasione, « imboccata una certa strada la seppe percorrere (…) con dignità e persino con serietà» (3) (secondo il suo costume, aggiungiamo noi). Diede dunque alle stampe: Tre aspetti del problema ebraico (1936), Il mito del sangue (1937), mentre il ministro Bottai lo inviava, nonostante la mancanza di un titolo accademico, per un ciclo di conferenze-lezioni sull’argomento nelle Università di Milano e Firenze. In seguito, vedono la luce: Indirizzi per una educazione razziale (1941) e Sintesi di dottrina della razza (1941), libro, quest’ultimo, per il quale fu convocato a Palazzo Venezia da Mussolini il quale gli esternò la sua approvazione (4).

«Nel settembre 1941 fui chiamato a Palazzo Venezia», racconta Evola in un articolo apparso nell’immediato dopoguerra. «Non supponevo che Mussolini stesso volesse parlarmi. A lui fui accompagnato da Pavolini che presenziò al nostro colloquio. Mussolini mi disse di avere letto la mia opera Sintesi di dottrina della razza, edita da Hoepli, di approvarla e di vedere, nelle idee in essa esposte, la base per dar forma ad un ‘razzismo fascista autonomo e antimaterialista”. “E il libro che ci occorreva”, disse testualmente» (5). Ne derivò da un lato l’odio e la calunnia dei razzisti «ufficiali» biologici, scienziati od opportunisti che fossero; dall’altro la traduzione in tedesco del libro come documento ufficiale del fascismo sulla questione della razza (intesa secondo la teoria evoliana in senso triplice: del corpo, dell’anima e dello spirito).

Ma la speculazione intellettuale di Evola non si fossilizzava e continuava in altre direzioni: ecco così una nuova via d’interesse che riprendeva un problema già affrontato in epoca giovanile: in pieno caos nazionale vide la luce La dottrina del risveglio (1943) che portava come sottotitolo «saggio sull’ascesi buddhista». Verrà poi tradotto in inglese sotto il patrocinio della «Pali Society», il più illustre centro buddhista esistente.

Il conflitto colpì direttamente Evola nell’aprile 1945, quando nella Vienna occupata dai sovietici e dove si trovava in incognito per missioni speciali, venne coinvolto in un bombardamento che gli provocò una lesione del midollo spinale e la conseguente paresi parziale degli arti inferiori: «A dire il vero», spiega nel Cammino del Cinabro, «il fatto non fu privo di relazione con la norma, da me già da tempo seguita, di non schivare, anzi di cercare i pericoli, nel senso di un tacito interrogare la sorte» (6) (durante un colloquio con l’interessato ci venne precisato come, mentre piovevano le bombe, invece di scendere nei rifugi, egli passeggiava per le strade deserte della capitale austriaca…). Conseguenza: due anni in clinica e quindi, nel 1948, rientro in Italia all’ospedale militare di Bologna. In quel periodo di immobilità e meditazione – oltre ad alcune traduzioni -riprese in mano la giovanile Teoria dell’individuo assoluto del 1927, che ancor oggi giace nei suoi cassetti in attesa di una propizia occasione editoriale (7).

Il dopoguerra è «tempo di arresto» (8), ma anche è tempo di bilanci, di messe a punto, di riattualizzazione di pensieri e di teorie. Evola rivide i testi di sue opere esaurite da tempo (Lo yoga della potenza, 1949) e, dato il momento, ne scrisse di altre estremamente importanti. Le idee di esse sono contenute in nuce in un libriccino dove come non mai condensato il suo pensiero in vista di un nuovo tipo di vita nel modo uscito dalla guerra perduta. Dalla ventina di pagine di Orientamenti (1950) si svilupperanno man mano le teorie di Evola sulle dottrine politiche (Gli uomini e le rovine, 1953), sulle teorie dell’eros, del sesso e dell’amore (Metafisica del sesso, 1958), sugli orientamenti esistenziali (Cavalcare la tigre, 1961). Con questi tre libri viene detta una parola praticamente definitiva sui singoli problemi trattati, naturalmente per chi crede che «contestare» questa società massificata e materialista si possa fare anche non con le idee di Marcuse, ma con quelle di un pensatore ben più serio e coerente.

Seguiranno ancora: un saggio sull’ideologia di Jünger (L’Operaio nel pensiero di Ernst Jünger, 1960), un libro tra il biografico ed il bibliografico (Il Cammino del Cinabro, 1963), un’opera d’interpretazione politica (Il fascismo, 1964), un volume di saggi (L’arco e la clava, 1968), una riedizione con aggiunte di inediti delle giovanili poesie dadaiste (Raâga Blanda, 1969). Anche la collaborazione giornalistica è da considerare abbastanza abbondante, pur se, a causa di evidenti ragioni politico-ideologiche, limitata ai pochi fogli non di regime: dal quotidiano Roma di Napoli a riviste come Meridiano d’ItaIia, Imperium, Monarchia, Il Ghibellino, Barbarossa, Ordine Nuovo, Domani, Il Conciliatore, l’Italiano, Totalità, Vie della Tradizione, Il Borghese e altri fra cui l’importante organo dell’Istituto per il Medio ed Estremo Oriente del professor Giuseppe Tucci, East and West (9).

Oggi la posizione di Evola è – nonostante tutto – ancora quella di un «maestro occulto», anche se, finalmente, come dimostrano le ristampe dei suoi libri che escono con regolarità, sta riuscendo ad ottenere, in mezzo al generale conformismo intellettuale, gli adeguati riconoscimenti e per la sua originale posizione filosofica e politica (Del Noce, Curcio, De Felice, Nolte, Gregor, De Tejada, tra gli altri, ne hanno parlato nei loro libri), e per quella sui problemi del sesso (Servadio, Antonini), e per la sua competenza in storia delle religioni e dottrine orientali (Bussagli, Eliade, De Rachewiltz).

È inoltre stato chiamato a far parte del Consiglio Consultivo della Fondazione «Ludwig Keimer» per le Ricerche Comparate in Archeologia ed Etnologia di Basilea, mentre le Edizioni Mediterranee di Roma gli hanno affidato la direzione della prestigiosa collana «Orizzonti dello Spirito», «Maestro occulto», sia per la sua ritrosia a pubblicizzarsi (nonostante gli sforzi contrari di chi gli è vicino, concretizzatisi in quattro interviste per la stampa italiana, due per la radiotelevisione francese, una per la radio belga), sia perché effettivamente i suoi rapporti con personalità di ogni tipo che lo hanno conosciuto nelle più disparate occasioni e che tuttora lo frequentano attingendone esperienze e consigli, superano ogni più positiva valutazione (tanto più che quasi nessuno conferma o vuol far sapere di questa… amicizia). «Maestro occulto», perché ancora pochissimi vogliono ammettere la sua influenza. «Maestro occulto», perché le sue idee ed i suoi libri hanno agito sotto la pelle (e a dispetto) di questa cultura mummificata e circoscritta che è l’italiana.

Ma anche «maestro difficile», come scrisse un lettore a Panorama, il settimanale che aveva citato con superficialità Evola. Infatti, le sue teorie e la sua Weltanschauung si rivolgono a quello che egli stesso ha definito «un tipo umano differenziato»: cioè, come ha specificato nel corso di una intervista che ha voluto concedere all’autore di queste righe, quell’uomo che, dal punto di vista della personalità, «è in grado di assumere un atteggiamento attivo, anziché passivo di fronte a tutto ciò che in lui è istintualità, passione, impulso, attività, “natura”. È colui che, almeno in parte, ha in sé quel principio che un’antica filosofia chiamò il “sovrano interiore”, l’egemonikon. Nel campo del sesso come in altri campi, per lui dovrebbe valere questa norma: «Ti è lecito fare ciò di cui sai che, se vuoi, puoi anche astenerti» (10).

«Ciò che ho sentito di dover esprimere ed affermare appartiene ad un mondo diverso da quello in cui mi sono trovato a vivere», ha scritto nel 1962 (11): ecco il motivo per cui i capitoli più «sentiti» della Rivolta contro il mondo moderno sono quelli in cui si descrive il passaggio tra i due mondi, quello tradizionale e quello moderno: più sentiti perché più sofferti. Ed ecco anche il motivo per cui le idee e le teorie di Evola trovano tanto fertile terreno fra 1’attuale sbandata gioventù che da un lato si trova a disagio in un mondo che non sente suo e dall’altro anela a verità in cui credere non accontentandosi dei postulati di una superficiale «contestazione» marcusiana.

E che gli domanda anche «cosa fare» concretamente nel purgatorio che è divenuta l’Italia di questi Anni Settanta. Al di fuori della politica contingente, molti articoli sono stati dedicati all’argomento ed un intero libro (Cavalcare la tigre), ma, per ricapitolare i concetti, ci sia concesso riportare la risposta che lo stesso Evola ci ha dato direttamente nell’intervista citata in precedenza: « Se dovesse essere questione di una reazione di fondo contro il “sistema”, il che vale quanto dire contro le strutture della società e del mondo moderno in genere, secondo me vi sono poche prospettive: le conclusioni cui sono giunto al termine della esposizione del corso spiritualmente involutivo della storia, nella Rivolta, sono pessimiste.

Non si tratterebbe di “contestare” e di polemizzare, ma di far saltare tutto in aria: il che, al punto attuale, è ovviamente fantasia e utopia, con buona pace per uno sporadico anarchismo. Forse occorre che un destino si compia, che un ciclo si chiuda. Possibile e importante può essere solamente un’azione di formazione e di difesa interiore individuale, per la quale una formula adatta è: «Fa in modo che ciò su cui non puoi nulla, nulla possa contro di te» (12).

Questo è dunque Evola: il vero «maestro occulto» della cultura italiana, come Guénon lo è stato per quella francese (il fatto che li si stia «riscoprendo» in questo momento di crisi ideologiche è forse un « segno dei tempi»?). Il suo destino, ha rilevato giustamente Romualdi nella citata monografia, «non era quello di chi invecchia e arricchisce su posizioni d’avanguardia, né la sua rivolta quella bohèmien e progressista degli spiriti deboli in cerca di equivoche libertà» (13); della sua giovanile disciplina nichilista doveva fare «la base per l’affermazione di valori positivi» (14). Come, in effetti, è stato.

In conclusione, crediamo ormai di poter veramente dire con cognizione di causa che Julius Evola non è soltanto il rappresentante italiano di un certo radicalismo tradizionale che, dando maggiore importanza all’«azione» di quanto non abbia fatto il francese Guénon, si pone in nettissimo contrasto con le correnti di pensiero contemporanee, con la politica, con la morale, con le mode culturali di oggi, risaltando quindi proprio per questa sua diversità: il fatto è che Evola offre anche un supporto ideale a tutti gli spiriti confusamente scontenti della società attuale e dei suoi (falsi) miti; dà un bagaglio di cognizioni teoriche e di modi di comportamento concreti che non sono vagamente protestatari, ma appaiono saldamente positivi; soprattutto infonde una grande speranza: di credere nell’esistenza di una comunità non palese di uomini che si sollevano al di sopra della massa informe ed amorfa, e pongono in tal modo le premesse di un’umanità più alta, più forte, più drammaticamente significativa, dando così la sensazione di non essere più soli, di non essere più inutili.

Questo è forse il vero, grande merito di Evola.

Note

(1) Julius Evola, Rivolta contro il mondo moderno, Edizioni Mediterranee, Roma 1969, III ed., pag. 12.

(2) Renzo De Felice, Storia degli Ebrei italiani sotto il fascismo, Einaudi, Torino 1961, pag. 447.

(3) Ibidem, pag. 447.

(4) Questo giudizio del professor De Felice sull’onestà e la serietà di Evola, cioè di uno storico che pur non condivide le idee, ha provocato tali e tante reazioni negli ambienti antifascisti che, in occasione della recente ristampa accresciuta del libro, pare siano state fatte pressioni su di lui per eliminarla: per fortuna l’autore, coerente con se stesso, si è rifiutato di farlo. Mal gliene incolse, perché in un recente volumetto (A. Di Nola, L’antisemitismo in Italia. Vallecchi, Firenze 1973) viene quasi accusato di fornire un avallo «antifascista» (sic!) ai difensori di Evola (Nota 1904).

(5) Julius Evola, Mussolini e il razzismo, in Il Meridiano d’Italia n. 49, 16 dicembre 1951, pag. 3.

(6) Julius Evola, Il Cammino del Cinabro cit., pag. 177.

(7) È apparso nel 1973 per i tipi delle Edizioni Mediterranee (Nota 1974).

(8) Ibidem, pag. 230.

(9) Nel 1974 è apparso un altro volume di saggi dal titolo Ricognizioni, e due antologie curate da terze persone: Diorama filosofico (vol. I) e Meditazioni delle vette. Fra le collaborazioni e riviste bisogna aggiungere: La Torre, La Destra e Intervento (Nota 1974).

(10) Gianfranco de Turris, L’uomo di vetta (sette domande a Julius Evola), in Il Conciliatore n. 1, gennaio 1970, pag. 19.

(11) Julius Evola, Il Cammino del Cinabro cit., pag. 10.

(12) Gianfranco de Turris, L’uomo di vetta cit., pag. 19.

(13) Adriano Romualdi, Julius Evola: l’uomo e l’opera cit., pag. 12.

(14) Ibidem, pag. 13.



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"In una civiltà tradizionale è quasi inconcepibile che un uomo pretenda di rivendicare la proprietà di una idea e, in ogni caso, in essa chi così facesse, con ciò stesso si priverebbe di ogni credito e di ogni autorità, poiché condannerebbe l’idea a non esser più che una specie di fantasia senza alcuna reale portata. Se una idea è vera, essa appartiene in egual modo a tutti coloro che sono capaci di comprenderla; se è falsa, non c’è da gloriarsi di averla inventata. Una idea vera non può essere «nuova», poiché la verità non è un prodotto dello spirito umano, essa esiste indipendentemente da noi, e noi abbiamo solo da conoscerla. Fuor da tale conoscenza, non può esservi che l’errore" (R. Guénon)

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