di Renato Annibali
(tratto da “Civiltà” – Sett-Dic 1974 – Anno II – Numero 8-9)
La prima volta che vidi Evola ero giovanissimo, districato appena dai grovigli surreali d’una adolescenza al limite dello sbandamento. Benché avesse già pubblicato la sua opera maggiore, non avevo letto di lui che un articolo sull’alpinismo esoterico. Ne avevo tuttavia sentito parlare di frequente, inutile precisare in quali termini, da un amico fraterno che in quel tempo consentiva fervidamente con le sue concezioni.
Lo conobbi in una occasione luttuosa: i funerali d’un congiunto amatissimo del mio amico, giornalista ed uomo di cultura che Evola evidentemente aveva conosciuto e stimato. Il carro e la folla di intervenuti nel piccolo giardino della casa di Monteverde. Lo individuai subito, fra tanta gente, senza che nessuno m’avesse detto: “Quello è Evola!”; alto, diritto, il bel viso nobilmente improntato ad una austerità che s’avvertiva sua propria, non assunta per la circostanza.
Già quel suo differenziarsi, di contegno oltre che di figura, fermo e quasi sempre silenzioso nel brusiante e contenuto agitarsi della piccola folla in attesa che uscisse il feretro, preannunciava quel che seguì e s’incise per sempre quale immagine simbolica, risolutiva nella mia memoria… Devo avvertire che tutti i membri di quella famiglia eran gravitati attorno alla figura del defunto, in una struttura di famiglia quale oggi non s’arriva neanche più a concepire. Dire che le femminucce, sorelle del mio amico, vi erano affezionate è dir niente: lo adoravano; come s’intese dal loro pianto disperato dietro la bara che veniva portata fuori. Ma il dolore dietro una bara, ci riguardi o no, è cosa di tutti i giorni; mentre ciò che seguì appena si mosse il carro fu l’esplosione d’una violenza emotiva senza precedenti. La più grande delle femminucce s’aggrappò urlando ai raggi d’una ruota del carro funebre fino a fermarlo. Dovettero penare, tra esortazioni, gemiti, richiami e un lungo brivido di singhiozzare panico, per staccarla da quella ruota.
Appena resosi conto di ciò che stava accadendo, fui spinto a cercare con gli occhi tra la piccola folla agitata. Evola era lì immobile, inalterato, diritto entro lo spazio vuoto prodotto dall’improvviso aggrumarsi degli altri attorno al carro. Ne ebbi la sensazione d’aver urtato in un pilastro mentre fluivo con la corrente.
L’intera sua opera, dall’inizio d’arte alla fase filosofica, alle dottrine esoteriche, alla virile, combattiva sapienza che conclude il suo arco, è una traccia lucida e ininterrotta verso la reintegrazione dell’uomo nel suo centro solare. Essa insegna la rigenerazione, espone nella forma acconcia alla mente scaduta la dottrina interna propria per questo tempo di mortale infatuazione eversiva, indica il punto di consistenza e di sovrastante formazione nel generale inarrestabile disfacimento in atto. Nella sfera politica, ti persuade di quanto sia vano illudersi di poter levitare la quantità disseccata ai significati che la trascendono, senza il prodigio d’un risveglio delle radici.
Ma i suoi testi più incisivi, per chi sia disposto alla lettura, sono la sua vita e la sua morte. Dove si ha la cognizione che quando egli parla di “asse”, di “cardine”, di “centro della ruota”, sa quello che dice. Si consideri il punto centrale del suo arco di vita, la bomba che a Vienna lo stroncò nel fisico nel momento stesso in cui veniva stroncato, per forza di materia, ciò che restava della grande Europa. Evola sopravvive ma perde l’uso delle gambe, è condannato all’immobilità. Ebbene, inutilmente si cercherebbe nella sua opera successiva una traccia della stroncatura subita. Ciò che lo riguarda è il collasso d’Europa e il trionfo esteriore della civiltà negativa, e su queste innesta una feconda ripresa della sua azione di risveglio. La Tradizione, nel significato classico di trasmissione di principi e valori immutabili al disopra delle umane alternanze, è la sua missione, ed egli l’adempie fino in fondo, fino a coincidervi emblematicamente, opera ed esistenza.
Fino al Gran Valico, che ha voluto affrontare in piedi, davanti al suo tavolo, in vista del Gianicolo.
Da solo.
Ma guardiamoci dall’attribuirgli la desolazione umaniccia che in genere s’accompagna alle morti solitarie. A lui sta bene, gli spettava.
'Civiltà | R. Annibali – Arco di ponte' 1 Commento
17 Maggio 2017 @ 13:10 Danilo
Anche se non pubblico commenti, vorrei solo farvi sapere che seguo con grande interesse tutto il materiale che pubblicate. So per certo che tanti altri fanno lo stesso.Grazie