Alla vigilia del Natale di Roma, che molto significativamente, quest’anno, coincide perfettamente con la data della Pasqua cristiana, entrambi centrati in un periodo dell’anno caratterizzato simbolicamente da rinascita, resurrezione, riemersione di forze sopite dopo la “pausa” invernale, proponiamo un articolo di Evola sulla concezione romana della Vittoria, che trovò spazio sulle colonne della rivista “Augustea” in piena guerra (maggio 1943). Pare evidente il tentativo di Evola di “stimolare” in qualche modo la ripresa di una concezione dell’eroismo e del coraggio estremo, fino al sacrifico di sé sul campo di battaglia, in quelle fasi decisive della terribile guerra “cosmica” del sangue contro l’oro che stava sconvolgendo l’Europa. Significativo, in tal senso, è soprattutto il finale dell’articolo, in cui Evola spiega l’azione rituale guerriera più estrema conosciuta nel mondo romano, la devotio, “arma soprannaturale” da usare nei casi più disperati, esempio di “eroismo tragico” ante litteram, che il barone metteva in parallelo con la pratica che i kamikaze giapponesi stavano seguendo sul fronte bellico estremo-orientale, in cui alla schiacciante, materialistica superiorità di mezzi e uomini americana, i guerrieri del sol levante opponevano il tragico sacrifico rituale della propria vita. Pur essendo difficile, nell’epoca contemporanea, “il sentire e il muovere forze di dietro le quinte e dare ad ogni gesta, ad ogni sacrificio, ad ogni vittoria dei significati trasfiguranti“, Evola chiudeva osservando che “non sentirsi soli sui campi di battaglia, presentire, malgrado tutto, dei rapporti con un ordine non soltanto umano e vie, che non si misurano con i soli valori di questa realtà visibile, può essere scaturigine di una forza e di una incrollabilità, i cui effetti, su ogni piano, secondo noi, non saprebbero essere supervalutati”.
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di Julius Evola
Tratto da “Augustea”, XVIII, 12, 16 maggio 1943.
Per i romani delle origini, Sallustio usa l’espressione “religiosissimi mortales” (Cat., 13) ed è di Cicerone il detto, che la civiltà romana antica fu quella che, per il suo senso del sacro, superò ogni altra gente o nazione, omnes gentes nationesque superavimus (Har. respon., IX, 19). Testimonianze analoghe si trovano, in molteplici varianti, in molti altri antichi scrittori. Di contro al pregiudizio di una certa storiografia, che si ostina a valutare in Roma antica il solo lato giuridico e politico, devesi mettere in rilievo un contenuto effettivamente spirituale e sacrale dell’antica romanità, da considerarsi anzi come l”elemento più importante, perche è facile rilevare come a Roma anche le forme politiche, giuridiche ed etiche in ultima analisi abbiano avuto per base ed origine comune appunto una speciale visione religiosa, uno speciale tipo di rapporti dell’uomo col mondo sovrasensibile.
Solo che questo rapporto è di tipo alquanto diverso da quello precipuo alle credenze venute successivamente a predominare. Il Romano, come l’uomo antico e tradizionale in genere, concepiva un incontrarsi e un reciproco compenetrarsi di forze divine e di forze umane. In proprio aveva poi uno speciale senso della storia e del tempo, cosa su cui, del resto, in questa stessa sede, parlando di un libro di Franz Altheim, abbiamo avuto occasione di attirare l’attenzione. Più che nello spazio, staccato dal mondo, di una contemplazione pura o negli immobili, silenti simboli di una yperkosmia, di un “supermondo”, il Romano antico sentì nel tempo e nella storia e in tutto ciò che si svolge attraverso l’azione umana il luogo della manifestazione del divino. Egli visse così la sua storia più o meno nei termini di una “storia sacra” o, per lo meno, “fatidica”: ciò, fin dagli inizi. Nella sua Vita di Romolo (I, 8) Plutarco scrive appunto: “Roma non avrebbe potuto acquistare tanta potenza se, in qualche modo, non avesse avuto una origine divina, tale da offrire agli occhi degli uomini alcunché di grande e di inesplicabile”.
Da qui, la concezione tipicamente romana di una controparte invisibile e “mistica” di tutto ciò che di visibile e di tangibile si svolge nel mondo umano. E per questo che il rito accompagnò ogni esplicazione della vita romana, sia individuale, sia collettiva, sia politica. E da qui, anche, la particolare concezione che il Romano ebbe del fatum: il fatum per lui non era, come per la tarda grecità, una potenza cieca, ma l’ordine divino del mondo come sviluppo, da interpretare e da intendere per mezzo di una adeguata scienza, affinché si potessero presentire le direzioni di efficacia dell’azione umana, quelle, lungo le quali quest’azione poteva attrarre anche forze dall’alto, ai fini non solo di un successo, ma anche ai fini di una specie di trasfigurazione e di superiore giustificazione.
Un tale ordine di idee estendendosi a tutta la realtà, esso si riaffermava, in Roma antica, anche nel dominio delle imprese guerriere, della lotta, dell’eroismo e della vittoria. Da qui si vede dove si siano arrestati coloro, che considerano i Romani antichi essenzialmente come una razza di mezzi barbari, che solo con la forza bruta delle armi si sarebbero imposti. Prendendo da altri popoli, da Etruschi, da Greci e da Siriaci, ciò che in essi avrebbe avuto significati di vera e propria cultura. Vero è invece, che l’antica romanità ebbe, della guerra e della vittoria, una particolare concezione mistica, l’importanza della quale e curiosamente sfuggita agli studiosi della romanità, limitatisi ad accennare distrattamente alle molte e ben documentate tradizioni in proposito.
Era anzitutto opinione romana che, per essere vinta materialmente, una guerra abbisognasse di essere vinta – o almeno propiziata – misticamente. Dopo la battaglia del Trasimeno, Fabio dice ai soldati: “La vostra colpa è più di aver negletto i sacrifici e di avere disconosciuto gli avvertimenti degli auguri, che non di aver mancato di coraggio o di abilità” (Livio, XVII, 9; cfr. XXXI, 5; XXXVI, 2; XLII, 2). Nessuna guerra romana si iniziava senza sacrifici, e un collegio speciale di sacerdoti – i fetiales – era incaricato dei riti relativi alla guerra, che solo allora veniva considerata come “guerra giusta”: iustum bellum. Come lo ebbe già a fare rilevare il De Coulanges, il fondo dell’arte militare dei Romani, in origine, consistette nel non essere costretti a combattere quando gli dèi fossero stati contrari, cioè quando non si avvertiva, per segni “fatali”, la concordanza delle forze umane con forze dall’alto.
Per tale via, anche il centro della vicenda guerriera cadeva su di un piano non semplicemente umano – e come non semplicemente umano veniva considerato sia il sacrificio che l’eroismo del combattente. Particolarmente importante è la concezione romana della vittoria.
Per essa, ogni vittoria aveva un lato mistico, nel senso più oggettivo del termine: nel vincitore, nel duce, nell’imperator acclamato sui campi di battaglia si aveva il senso del brusco manifestarsi di una forza divina che lo trasfigurava e trasumanava. Lo stesso rito guerriero, secondo il quale l’imperator (nel senso originario non di “imperatore”, ma di duce vittorioso) veniva sollevato su di uno speciale scudo, non è privo – come si può desumere da Ennio – di una sua controparte simbolica: lo scudo, già sacro nel tempio di Giove capitolino qui vale come l’altisonum coeli clupeum, come la sfera celeste, di là dalla quale la vittoria solleva l’uomo, che ha vinto.

Il rito romano del Trionfo: il comandante vincitore, rivestito e dipinto di porpora, raggiungeva il Tempio di Giove Capitolino
Conferme univoche e significative di questa antica concezione romana sono offerte dalla natura della liturgia e della pompa del trionfo. Parliamo di “liturgia”, perche questa cerimonia, colla quale si onorava ogni vincitore, a Roma ebbe un carattere assai più religioso, che non militare. Il capo vittorioso qui si presentava come una specie di manifestazione o di incarnazione visibile dello stesso dio olimpico, del quale recava tutti i segni e gli attributi. La quadriga dai cavalli bianchi corrispondeva a quella del dio solare del cielo luminoso, così come il manto del trionfatore, la toga purpurea ricamata di stelle d’oro, riproduceva il manto celeste e stellare proprio a Jupiter. La corona d’oro, così come lo scettro sormontato dallo stesso sacrario capitolino. E il vincitore si tingeva di minio il volto, proprio come nel culto del tempio del dio olimpico, al quale egli poi si recava per deporre solennemente dinanzi alla statua di Giove il lauro trionfale della sua vittoria, volendo con ciò significare che Giove era il vero autore della vittoria e che egli essenzialmente come una forza divina, come una forza di Giove, aveva vinto: donde l’identificazione rituale nella cerimonia.
La circostanza, poi, che il paludamento ora indicato dei trionfatori corrispondesse a quello degli antichi re romani, potrebbe dar luogo ad ulteriori considerazioni: essa potrebbe ricondurci al fatto, messo in rilievo dall’Altheim, che ancor prima del definirsi della cerimonia del trionfo il re, nella concezione romana prisca, appariva parimenti come una imagine della divinità celeste: l’ordine divino, alla quale questa presiedeva, si rifletteva e manifestava in quello umano, incentrato appunto nel re. A tale riguardo – in questa concezione che, come varie altre delle origini, doveva riaffiorare nel periodo imperiale – Roma testimonia di una tradizione di portata universale, ritrovandosi essa in tutto un ciclo di grandi civiltà, nel mondo indo-ario e ario-iranico, nell’ antica Grecia, nell’ antico Egitto, in Estremo Oriente.
Ma, per non dilontanarci dall’argomento, accenniamo ad un altro elemento caratteristico per la concezione romana della vittoria. Appunto perché fu pensata non solo come un fatto umano, spesso la vittoria di un duce assunse per i Romani i tratti di un numen, di una divinità indipendente, la cui vita misteriosa si faceva centro di un sistema speciale di riti, destinata ad alimentarla, a confermarne la presenza invisibile fra gli uomini.
L’esempio più noto è costituito dalla Victoria Caesaris. Si è che ogni vittoria si credeva attuasse un nuovo centro di forze, disgiunto dalla particolare individualità dell’uomo mortale che l’aveva realizzata o, se si preferisce, che, attraverso la vittoria, il vincitore fosse divenuto una forza sussistente in un ordine quasi trascendente, forza non della vittoria conseguita in un dato momento della storia, ma – appunto come era l’espressione romana – di una vittoria “perpetua o “perenne”. Il culto di tali enti, statuito dalla legge, era destinato a stabilizzare, per così dire, la presenza di questa forza, affinché si aggiungesse invisibilmente a quella della razza per condurla verso esiti di “fortuna”, per fare di nuove vittorie il mezzo per un rivelarsi e per un ulteriore rafforzarsi della energia della vittoria originaria. È così che, confusasi, a Roma, la celebrazione del Cesare morto con quella della sua vittoria, e consacrati alla Victoria Caesaris dei ludi aventi un significato rituale, in lui si potè considerare un “perpetuo vincitore”.
Il culto della Vittoria, che fu giudicato preistorico, può dirsi, più in generale, l’anima segreta della grandezza di Roma e della sua fede nel proprio destino fatidico. Dai tempi di Augusto, la statua della dea Vittoria era stata collocata sull’altare del Senato romano, ed era rito anche che ogni senatore, prima di prendere posto, passasse per quell’ altare e vi bruciasse un grano d’incenso. Quella forza sembrava cosi presiedere invisibilmente alle deliberazioni della curia; verso la sua imagine si protendevano altresì le mani quando, all’avvento di un nuovo Principe, gli si giurava fedeltà, e poi al 3 gennaio di ogni anno, quando si facevano solenni voti, in senato, per la salute dell’imperatore e per la prosperità dell’impero. Particolare degno d’interesse, questo fu il culto romano più tenace del cosidetto “paganesimo” , quello che resistette per ultimo al cristianesimo, dopo la distruzione di tutti gli altri.
Altre considerazioni potrebbero essere svolte sulla nozione romana della mors triumphalis, della “morte trionfale”, che presenta vari aspetti dei quali forse tratteremo in altra occasione. Qui vogliamo aggiungere solo qualcosa circa uno speciale aspetto della dedizione eroica, connesso al concetto romano antico di devotio. Vi si esprime ciò che, in termini moderni, si potrebbe chiamare un “eroismo tragico”, ma esso stesso legato ad un senso di forze sovrasensibili e ad una superiore, ben precisa finalità.

“La morte del console Publio Decio Mure per devotio”, opera di Pieter Paul Rubens, 1617-1618 (cliccare per ingrandire)
Nell’antica Roma devotio non significava “devozione”, nel senso moderno di pratica minuziosa e timorata di un culto religioso. Era invece un’azione rituale guerriera, nella quale si faceva il sacrificio di sé stessi, si dedicava coscientemente la propria vita a delle potenze “infere”, lo scatenamento delle quali, motivo di irresistibilità da un lato, e dall’altro di panico nel nemico, doveva contribuire a produrre la vittoria. Fu un rito statuito formalmente dallo stato romano come un’arma sovrannaturale in casi disperati, là dove si pensava che il nemico difficilmente avrebbe potuto essere vinto con le forze normali.
Da Livio (VIII, 9) conosciamo tutti i dettagli di questo tragico rito ed anche la formula solenne, evocatoria e sacrificale, che colui che intendeva sacrificarsi per la vittoria deve pronunciare, ripetendola dal pontefice, rivestito della praetesta, colla testa velata, la mano posata sul mento e col piede su di un giavellotto. Dopo di che, egli si lanciava nella mischia, come una forza scagliata fatale, non più umana, per trovarvi la morte. Vi furono famiglie patrizie romane, in cui questo tragico rito fu quasi tradizione: ad esempio, tre del ceppo dei Deci lo praticarono nel 340 a.C. nella guerra contro i Latini in rivolta, poi nel 295 nella guerra contro i Sanniti e nel 79 alla battaglia d’Ascoli: quasi fosse “legge della loro famiglia”, come Livio si esprime.
Come pure [sic] attitudine interna, questo sacrificio può fare ricordare, nella sua perfetta lucidità e volontarietà, ciò che ancor oggi avviene nella guerra del Giappone: si sa di speciali siluranti o di aeroplani giapponesi, scagliati col loro equipaggio contro l’obiettivo, ed anche qui il sacrificio, quasi sempre operato da membri dell’antica aristocrazia guerriera, da samurai, si lega ad un rito e ad un aspetto mistico. La differenza è che, sicuramente, non si mira in egual misura ad un’azione non soltanto materiale, ad una vera e propria evocazione, come nell’antica teoria romana della devotio.
E naturalmente, quello moderno e soprattutto occidentale è un ambiente che, per mille cause divenute, diciamo così, costituzionali attraverso i secoli, rende estremamente difficile il sentire e il muovere forze di dietro le quinte e dare ad ogni gesta, ad ogni sacrificio, ad ogni vittoria dei significati trasfiguranti, come quelli qui accennati. È tuttavia certo che ancor oggi, in questa vicenda scatenata, non sentirsi soli sui campi di battaglia, presentire, malgrado tutto, dei rapporti con un ordine non soltanto umano e vie, che non si misurano con i soli valori di questa realtà visibile, può essere scaturigine di una forza e di una incrollabilità, i cui effetti, su ogni piano, secondo noi, non saprebbero essere supervalutati.
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