Anche stavolta la prima fase del teatrino delle elezioni politiche, e cioè quello della campagna elettorale culminante nella celebrazione del “rito” laico, antigerarchico e antitradizionale delle votazioni, è terminata. Ora inizierà la fase successiva di quel teatrino, quella dei risultati, dei commenti ai risultati (tutti hanno vinto), dei giri di consultazioni, dei mandati “esplorativi”, delle notti insonni passate ad elaborare maggioranze trasversali, schemi di governi politici, tecnici, di unità/salvezza nazionale, di “responsabilità”, grandi coalizioni, prospetti di ripartizioni di poltrone in stile “Manuale Cencelli”, possibili ritorni alle urne, ed altre amenità varie.
Turandoci il naso, leggiamo intanto cosa ne pensava Evola: il breve commento risale al giugno 1953, un paio di settimane dopo le elezioni del 7 giugno di quell’anno, che videro un buon risultato sia del Partito Nazionale Monarchico (massimo storico al 6,85%) che del M.S.I. (5,84%): in particolare, proprio al Partito della Fiamma (e, udite bene: a “qualsiasi altro partito, presente o futuro, che alle stesse idee si ispiri”) si rivolse l’indignazione di Evola. Leggiamo perché. Cambiano i tempi, ma al netto delle contingenze storiche, rimangono intatte certe ineludibili esigenze di stile, di dignità, di incorruttibilità, di coerenza, di trasparenza ideale, di non compromissione: in poche parole, di onore e di fedeltà.
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di Julius Evola
Tratto da “Rivolta Ideale” (21-28 giugno 1953)
Ora che, in un modo o nell’altro, tutta la faccenda «elettorale» è finita vorremmo esprimere il disagio che lo spettacolo di essa ha fatto nascere in noi, per ragioni sulle quali forse non sarà inutile qui qualche breve considerazione.
Anzitutto per noi è stato demoralizzante veder precipitarsi tutti – tutti senza eccezione senza nessun ritegno o esame di coscienza – nella mischia per la conquista del seggio parlamentare. Là dove si tratti di partiti dichiaratamente democratici, certo, non c’era da aspettarsi altro. Ma nel quadro di uno schieramento di opposizione nazionale, che può esser democratico solo nella forma imposta da questo periodo di interregnum (perché non diversamente noi possiamo considerare l’attuale regime italiano), non nello spirito e negli ideali, la cosa per noi è stata deprimente. Parafrasando un detto evangelico, la nostra idea possiamo riassumerla così: «È necessario che il MSI (o qualsiasi altro partito, presente o futuro, che alle stesse idee si ispiri) abbia i suoi deputati al Parlamento, ma guai a coloro che sentono l’ambizione di divenire dei deputati».

Storico manifesto elettorale del M.S.I. antecedente all’operazione di allargamento a Destra del 1972
Che senso ha disprezzare la democrazia e poi mettere tutto in giuoco per la conquista di una carica che solo in termini democratici può avere un significato ed esser tale da venire desiderata? E a che vale la diversità delle idee – idee patriottiche, di destra invece che di sinistra – quando lo stile è identico, vogliamo dire quando in non pochi appare abbastanza chiaro che non la persona serve alle idee, ma le idee servono alla persona per farsi avanti per raggiungere la méta, non avendo scrupolo, eventualmente, di giuocare dei tiri mancini e di usare accorgimenti di sabotaggio nei riguardi di «camerati» incomodi o pericolosi come concorrenti nell’agone elettoralistico? E in quanti non è legittimo il sospetto che essi il sistema democratico lo disprezzino a parole, ma intanto mirino ai vantaggi che può procacciare a chi conosce le arti generiche del politicante?
Inoltre: quanto si è curata una linea di vera dignità e di severità in quell’agone? Ci è capitato fra le mani più di uno degli opuscoletti autobiografici di propaganda diffusi dall’uno o dall’altro candidato degli stessi partiti d’opposizione. «Prostituzione», nel suo senso rigorosamente etimologico, vuol dire esibire, mettere in mostra ai fini di un’offerta o vendita, come quando si mette un oggetto in vetrina. Ebbene, non sapremmo trovare una espressione più acconcia per lo stile che più di una volta ci ha colpiti negli accennati strumenti di propaganda personalistica. Saremo degli utopisti, certo: ma secondo noi non è su questa linea che possono determinarsi delle vere selezioni e che il riconoscimento può avere basi serie e salde, non frivole, da «fiera politica delle vanità».
Ci si chiederà che cosa, allora si sarebbe dovuto fare. È tutto il sistema che si dovrebbe cambiare, mettendo al bando ambizioni sbagliate. Un partito corrispondente al nostro ideale dovrebbe organizzarsi secondo una propria struttura gerarchica ed acquistare sempre maggior prestigio e forza come movimento, in attesa delle ore decisive, consapevole che data l’attuale situazione, e interna e internazionale, non certo a Montecitorio potrà determinarsi qualcosa di risolutivo nel senso da noi desiderato.
In questo partito ideale dovrebbe essere ben chiara l’opposizione radicale esistente fra il tipo del capo e quello dell’«onorevole», si dovrebbe ambire ad avere e formare dei capi, non a produrre degli «onorevoli» e una clausola dello statuto dovrebbe decretare l’incompatibilità di appartenere alle supreme gerarchie del partito e di essere, in pari tempo, un «onorevole». Gli «onorevoli» dovrebbero essere semplici elementi distaccati, designati dai capi del partito come «osservatori» e curatori di piccole faccende contingenti al parlamento nel periodo dell’interregnum. Questo è il nostro punto di vista. Né saprebbe averne uno diverso chi dice davvero «no» all’attuale sistema.
Tornando a ciò che accennavamo al principio, sarebbe ingiusto non riconoscere l’eccezione costituita da coloro che hanno accettato la lotta elettorale non tanto per un interesse personale quanto per il fatto che, dopo essersi messi in disparte in attesa che figure davvero significative dessero al partito la giusta direzione, delusi in questa loro speranza, hanno sentito il dovere di intervenire.
Va anche considerato ciò che alcuni amici candidati ci hanno detto a loro giustificazione: per loro non si sarebbe trattato di ambire al seggio parlamentare in sé, ma di usarlo come mezzo a fine con riguardo alle cose interne al partito: perché lasciare che altri fossero eletti avrebbe significato lasciare che essi poi facessero uso del prestigio ottenuto onde far prevalere, all’interno del partito, il loro gruppo o la loro tendenzialità ideologica. Potrà essere stato così. Ma la necessità di ricorrere a questa «azione indiretta» propiziata dal sistema democratico non è forse segno di uno stato di cose che, nel partito, «non è in ordine»?
Ora che il baccano è finito, e una volta che è passata sia la disillusione degli uni, sia l’euforia degli altri, sarà da vedersi fini a che punto saranno presenti le premesse per una nuova fase realmente, silenziosamente costruttiva.
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