Femminismo e crepuscolo di civiltà

L’8 marzo, festa-simbolo per antonomasia delle peggiori rivendicazioni femministe, col passare del tempo si sta colorando di significati sempre più nefasti, inglobando ed amplificando fenomeni sempre più contro-tradizionali e diabolici, come il genderismo o i deliri LGBT. Dal femminismo delle origini stando prendendo vita e linfa nuove, mostruose forme quali il “trans-femminismo” o il fenomeno internazionale a tinte sataniche delle “Femen”, adeguatamente finanziato e telecomandato da chi di dovere.

In quest’articolo pubblicato sul “Corriere Padano” nel lontano 1933 (“Considerazioni antimoderne. Femminismo e crepuscolo di civiltà“), in cui venivano proposte delle importanti riflessioni che sarebbero state poi sviluppate estensivamente in “Rivolta contro il mondo moderno” l’anno successivo (si veda il capitolo “Uomo e Donna” da noi già riproposto), Evola, con la consueta capacità di preveggenza che più volte gli abbiamo riconosciuto, parlava già del fenomeno del femminismo, come di una delle forme specifiche di manifestazione della degenerescenza caotica del mondo moderno e contemporaneo, i cui focolai, all’epoca, erano individuati nella promiscuità e nel livellamento slavo-bolscevico di parte dell’est europeo, e nell’emancipazione standardizzata della “nuova donna” sfornata dalla società americana. Il cuore più tradizionale dell’Europa non era ancora stato travolto dall’onda distruttrice che, amplificata dalla rivoluzione sessuale internazionale del femminismo sessantottino, avrebbe soffocato il vecchio Continente, creando i nuovi, sub-umani modelli ibridi ed asessuati odierni (quel “terzo sesso” di cui Evola stesso avrebbe cominciato ad intravedere l’arrivo). Già nel 1933 Evola sottolineava come, nel fondo del femminismo, fosse ravvisabile un radicale pessimismo: “cioè la premessa tacita, che la donna in quanto donna non possa valorizzarsi, onde debba, per quanto le è possibile, farsi uomo”.

Dall’eclissarsi delle figure archetipiche dell’Uomo Assoluto (Guerriero o Asceta) e della Donna Assoluta (Amante o Madre), di fatto, sarebbero derivati progressivi, irreversibili cedimenti delle fondamenta stesse della civiltà. Il consolidamento  delle nuove sottofigure sempre più evanescenti dell’uomo e della donna odierne, progressivamente attratte dall’ibrido del terzo sesso, quell’androgino rovesciato verso il basso che rappresenta la parodia finale dell’androgino edenico primordiale, sarà, di fatto, un altro dei segnali tipici dei Tempi Ultimi. All’avvento dei nuovi modelli corrotti di uomo e donna, osservava Evola, non potrà (…) non accompagnarsi il tramonto dello stesso amore in quel senso più profondo, organico, cui non è disgiunto lo stesso destino biologico delle razze: giacché l’amore, al pari dell’elettricità e del magnetismo, si basa sulla polarità”: non ci potrà essere più “amore in quel suo senso vero ed elementare, onde gli antichi vi vedevano la manifestazione di una forza originaria e temibile e di un significato cosmico”.

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di Julius Evola

Tratto da “Il Corriere Padano”, XI, 5 gennaio 1933

Il morbo livellatore e spersonalizzante che prostra la civiltà moderna ha aspetti cosi complessi e tentacolari, che non a tutti riesce varie il riconoscerlo dietro le maschere per opporre a ciascuna delle sue forme una rivolta decisa e una reazione consapevole.

La dama ed il cavaliere, uno degli archetipi più significativi della potenza del rapporto Uomo-Donna correttamente inquadrato nell’alveo sacro della Tradizione (nell’immagine, “The End of the Quest” di Frank Dicksee, 1921)

Cosi sta di fatto che, non paga di aver compromesso ormai quasi irreparabilmente quelle differenze di casta, di natura e di interna dignità che facevan da principio ad ogni sana organizzazione tradizionale; protesa a riportare ogni valore sotto la legge della quantità e l’anonimia del mero collettivo sociale, una ideologia contaminatrice vuole che, dopo il livellamento fra uomo e uomo, si proceda anche a quello fra sesso e sesso e in ciò si consideri una «conquista, un «progresso». Epperò, dallo stesso ceppo antigerarchico e antiqualitativo di tante forme della degenerescenza moderna noi vediamo spiccarsi il conato «femministico» e prender figura nei due paesi che son quasi come le due branche di una unica tenaglia in atto di chiudersi, da Oriente e da Occidente, intorno all’antica Europa: la Russia sovietica e l’America – giacché la parificazione bolscevica della donna all’uomo sotto ogni riguardo della vita sociale trova perfetto riscontro con la compiuta emancipazione che le è stata da tempo concessa di là dall’Oceano.

Qui non si tratta di avversioni personali, né di pregiudizi di un’epoca o di un popolo. Nel fenomeno femministico è essenzialmente da considerarsi un sintomo che, riconnesso da una logica precisa a tanti altri, indica l’avvento di una concezione attraverso la quale l’ideale stesso di «cultura», di civiltà, soprattutto nel senso tradizionale classico, viene ad essere mortalmente colpito.

Il significato fondamentale di ogni civiltà fu quello di una vittoria della forma sull’informe, del «kosmos» sul «caos». Così, e caratteristicamente, al centro della visione classica della vita e dello Stato troviamo appunto il culto e la valorizzazione del limite, della forma, della differenza, della chiara personalità. Il mondo è «kosmos», e non «caos», in quanto, simile ad un organismo vivente armonioso, esso è costituito da un insieme di parti finite, le quali hanno ciascuna una funzione precisa, propria e inconfondibile nel tutto; il cui bene, la cui «verità» non consiste dunque nella cessazione della loro individualità e nell’indietreggiare verso il non qualificato, l’identico, l’indefinito – verso ciò in cui esse divengono misticamente o atomisticamente una sola cosa – ma consiste invece nell’esser sempre più sé stesse, nell’esprimere sempre meglio la loro natura propria, nel portare sempre più a fondo la loro individuazione rendendo così più ricco, vario e determinato il gran corpo del tutto.

Alle visioni evasionistiche e panteistiche, le quali ripongono il bene nell’impersonale, nell’indifferenziato, e quasi intendono come una colpa o un castigo l’esser individui, le nostre migliori tradizioni sempre opposero questa valorizzazione della differenza, del limite, dell’individuazione. Così esse stabilirono il principio, per forza del quale, sulla base delle differenze naturali fra gli esseri, poteva sorgere e costituirsi un ordinamento gerarchico nella «gens», nella città, nello Stato e, al limite, nell’Impero.

In via immediata, nessuna cosa e nessun essere di natura è solamente «sé stesso»; ma questa condizione di «mescolanza», che pur veniva riconosciuta per «le cose di qui in basso», venne tradizionalmente considerata come una condizione di imperfezione, e si pose come compito alle norme istituzionali, alla morale e, infine, all’ascesi, il superarla e l’enucleare tipi, generi, classi e individui distinti – proprio come l’artista trae le sue figure dall’informe materia. Tale fu il concetto tradizionale di cultura o civiltà: forma – ripetiamo – vittoriosa sul «caos».

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Che contraddizione di simile punto di vista costituiscano tutti quei princìpi di egualitarismo, di fraternalismo acefalo, di pallido umanitarismo o di impersonale universalismo che, in forme varie, serpeggiano nel mondo moderno a minare non solo i concetti di società, di Stato, di diritto, ma fino gli ideali del conoscere e dell’agire – ognuno può vederlo chiaramente. Tornando al nostro punto di partenza, su questa base risulta altresì chiaro, a titolo di applicazione particolare, lo spirito e il volto del femminismo moderno.

Esso, nei riguardi dei sessi, nella sua richiesta di parificazione, obbedisce precisamente alla veduta, secondo la quale ogni differenza e ogni distanza vale come un male. Esso vorrebbe abolire la specificità delle funzioni e dei tipi, tenderebbe a qualcosa di uniforme che però noi non diremmo (come si pretende) «al di là», ma «al di qua» dell’individuazione e della differenziazione dei sessi. Il risultato è appunto o il nuovissimo tipo neutro e amazzonico delle americane e delle «garçonnes» sportive europee – ovvero la promiscuità presessuale, cameratistico-comunistica cosi caratteristica per la razza slava e oggi statuita dallo «Zag» bolscevico: quella promiscuità onde staremmo quasi per dire che ogni relazione sessuale slava di rado è disgiunta da una certa sfumatura incestuosa. Sono appunto le due soluzioni possibili – uniformistica (standardizzata) e «mistica» (promiscuo-comunistica) – dell’antidifferenza.

Là dove la nostra morale comanderebbe all’uomo e alla donna di esser sempre più sé stessi, di esprimere sempre più decisamente ed arditamente quel che fa dell’uno un uomo e dell’altra una donna – questi conati respingono dunque indietro, adulano lo stadio in cui la differenza ancora non esiste – e in ciò hanno pur la pretesa di pensare ad una «evoluzione» della quale le nostre menti «antiquate» non sarebbero capaci.

La verità vera è invece che nel fondo del femminismo si cela un «radicale pessimismo»: cioè la premessa tacita, che la donna «in quanto donna» non possa valorizzarsi, onde debba, per quanto le è possibile, farsi uomo, rivendicare le stesse prerogative sociali e intellettuali dell’uomo. In questo senso, noi diciamo pessimismo: la presunta «rivendicazione» femministica della donna maschera una abdicazione della donna moderna, la sua impotenza, o sfiducia, ad essere e a valere come ciò che essa è: come donna e non come uomo. Maschera insomma una degenerescenza, nel significato più rigoroso del termine. Al che, del resto, nell’uomo moderno fa riscontro il suo abbrutimento in un ideale puramente fisico e animale – al più, pallidamente intellettuale – , il suo decadere dalle sue forme apicali di vita, che ne consacravano la effettiva «virilità», onde nelle nostre tradizioni più grandi ad esse corrispondevano le due caste superiori della gerarchia sociale: quella degli «Asceti» e quella dei «Guerrieri».

Come donna – e non come uomo – la donna realizza sé stessa, si eleva allo stesso livello dell’uomo come Asceta e come Guerriero in quanto è «Amante» e in quanto è «Madre». Uno ed identico è, per noi, il ceppo di ogni valore: l’eroismo, il superamento di sé. Ma vi è un eroismo attivo e un eroismo negativo: vi è l’eroismo dell’assoluta affermazione e vi è l’eroismo dell’assoluto obbedire – vi è l’eroismo dell’assoluta affermazione e vi è l’eroismo dell’assoluta dedizione, in una identica luce e grandezza.

Pertanto, questa differenziazione statuisce la differenza naturale delle vie di compimento interiore per l’uomo e per la donna. Al gesto del Guerriero e dell’Asceta che, l’uno a mezzo della pura azione, l’altro a mezzo della rinuncia chiara e virile, dalla vita passano ad un «più che vita» – nella donna corrisponde idealmente l’eroismo dello slancio di esser tutta per un altro essere, di darsi tutta ad un altro essere – sia esso l’uomo che essa ama e che le è il Signore (tipo dell’«Amante»), sia esso il figlio (tipo della «Madre») – in ciò trovando il senso della propria vita, la propria gioia, la propria giustificazione e liberazione. E nel realizzarsi sempre più intensamente e luminosamente secondo queste due direzioni distinte ed inconfondibili di eroismo, riducendo tutto ciò che nell’uomo è donna e che nella donna è uomo – in ciò sta la norma interna che può dar forma ad un ordine secondo natura e secondo spirito.

Il neo-femminismo satanico delle Femen

Invece il mondo moderno con i suoi «boxeurs», con i suoi esaltati nelle passioni e nelle ambizioni più misere, con i suoi trafficanti d’oro e di macchine con i suoi «chauffeurs» al luogo degli Asceti e dei Guerrieri – dall’altra parte: con le sue «garçonnes», con le sue impiegate e le sue «intellettuali», le «girls» e tutte le altre forme di femmine naturalizzate e spinte pietosamente in tutti i trivi della vita pubblica e della corruzione moderna – è esattamente nelle direzione opposta che va procedendo a passo di corsa. Al che, non potrà però non accompagnarsi il tramonto dello stesso amore in quel senso più profondo, «organico», cui non è disgiunto lo stesso destino biologico delle razze: giacchè l’amore, al pari dell’elettricità e del magnetismo, si basa sulla polarità. Esso è tanto più forte e creativo, per quanto più decisa è la polarità, la differenziazione dei tipi e dei sessi: donna assoluta di fronte a uomo assoluto, senza mezzi termini.

Nel mondo della donna «evoluta», «emancipata» e cosciente potrà esservi la promiscuità di un cameratismo equivoco o di pallide simpatie intellettuali, potranno esservi incontri di piacere così come ci si può accordare per una partita di «bridge» – ma non più amore in quel suo senso vero ed elementare, onde gli antichi vi vedevano la manifestazione di una forza originaria e temibile e di un significato cosmico. Come l’egualitarismo sociale ha ucciso gli antichi, viventi, virili, rapporti fra uomo e uomo, fra guerriero e guerriero, fra Capo e suddito – così pure l’egualitarismo femministico condurrà sempre più verso un mondo insipido o pervertito ove forse – come già si vede nel banale esibizionismo delle americane – le donne potranno «perfino» sembrare caste per non saper giungere nemmeno alla complicazione di una peccaminosità.



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"In una civiltà tradizionale è quasi inconcepibile che un uomo pretenda di rivendicare la proprietà di una idea e, in ogni caso, in essa chi così facesse, con ciò stesso si priverebbe di ogni credito e di ogni autorità, poiché condannerebbe l’idea a non esser più che una specie di fantasia senza alcuna reale portata. Se una idea è vera, essa appartiene in egual modo a tutti coloro che sono capaci di comprenderla; se è falsa, non c’è da gloriarsi di averla inventata. Una idea vera non può essere «nuova», poiché la verità non è un prodotto dello spirito umano, essa esiste indipendentemente da noi, e noi abbiamo solo da conoscerla. Fuor da tale conoscenza, non può esservi che l’errore" (R. Guénon)

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