Dopo “sul carattere della conoscenza iniziatica” e “sulla visione magica della vita” proponiamo oggi il terzo articolo a firma di Julius Evola, scritto sotto lo pseudonimo di EA, tra quelli da noi selezionati nell’ambito dei tre volumi raccolti sotto il titolo di Introduzione alla Magia, che ripropone i testi prodotti dal celebre “Gruppo di Ur” e contenuti nelle riviste pubblicate sotto il titolo di «Ur» dal 1927 al 1928, e di «Krur» nel 1929. In quest’articolo Evola tratta magistralmente del delicato tema della “magia”, oggetto di fraintedimenti d’ogni genere, fissando anche schematicamente dei “punti interni al campo magico e relativi al concetto iniziatico dei poteri“.
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di Julius Evola (alias EA)
Tratto da Introduzione alla Magia quale scienza dell’Io, volume primo, pp. 279-289.
L’uso frequente che in queste monografie si fa del termine «magia» rende opportuna una precisazione circa il significato che noi, essenzialmente, gli attribuiamo, come pure circa la legittimità di questo significato.
A parte le caricature moderne delle discipline magiche le quali, specie fra gli Anglosassoni, vanno a confondersi coi metodi per «diventare forti», per acquistare il «magnetismo personale», per raggiungere «il successo nella vita» e via dicendo, ciò a parte, anche nel mondo antico e tradizionale la parola «magia» spesso non si riferì ad un livello spirituale molto alto. Poteva indicare un insieme di metodi per un uso di forze non semplicemente fisiche, il quale poteva anche non avere alcun carattere spirituale, come non lo hanno, nel loro campo, l ‘uso delle forze e il potere che sono propri alla tecnica moderna. Ciò, fino al punto che in certi casi la magia poté esser qualcosa di simile ad una professione, ed operazioni di questa magia spicciola potettero esser compiute perfino per conto di terzi.
Tuttavia sarebbe arbitrario circonscrivere in questo àmbito inferiore tutta la magia; anzi diciamo sùbito che coloro che, partendo da diversi punti di vista, tendono a limitare in questo senso il contenuto del termine «magia», dimostrano una certa unilateralezza tendenziosa, di cui è possibile che essi non sempre si accorgano, ma che non per questo è meno reale.
Anche in sede di semplice terminologia una tale restrizione, in effetti, non si impone. Si può ricordare che «maghi» furono già chiamati i rappresentanti dell’antico culto mazdeo (iranico) del Dio di Luce, presso i quali notoriamente non si trattava della magia nel senso ristretto e spicciolo: sembra anzi che il termine derivasse da un’antica radice ario-iranica che si ritrova per esempio nel verbo tedesco mögen e che significa potere nel senso più vasto. Del resto, nella stessa tradizione che doveva specializzarsi nel conferire al termine «magia» ogni possibile significato tenebroso di «scienza maledetta», intendiamo dire nel cristianesimo, non si trovò difficoltà nel conservare il termine «magi» per i tre personaggi misteriosi che avrebbero salutato la nascita di Gesù.

I Re Magi nella celebre rappresentazione mosaicale nella Basilica di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna
Anche nel Medioevo il termine «magia» non ebbe il senso ristretto già accennato. Questo poté applicarsi, se mai, a ciò che allora si chiamava « magia naturale », di contro alla quale un Agrippa – per citare solo lui – concepì però una magia celeste ed una magia divina come discipline aventi dei fini ed una dignità ben diversi. Ruggero Bacone chiamò «metafisica pratica» la magia. Una testimonianza assai interessante che vale ricordare è l’uso che l’ermetista italiano C. Della Riviera fece dei termini «magia» e «magico» nella sua opera «Il mondo magico de gli Heroi» uscita al principio del Seicento; qui la magia viene concepita come sinonimo dell’arte di coloro che sanno aprirsi di nuovo la via fino al paradiso terrestre per partecipare dell’«Albero di Vita» situato nel suo centro: cosa che evidentemente allude a quella restaurazione dello stato primordiale, a quella reintegrazione del potere e a quel contatto col «Centro» , che costituiscono il fine precipuo dell’iniziazione vera e propria. Un dettaglio interessante – perché sia interessante, lo si vedrà più sotto – è che per Della Riviera il «mondo magico» fa tutt’uno col «mondo degli eroi» e coloro che seguono la via magica vengono da lui chiamati «i discepoli regali dell’alto Giove».
Tutto ciò mostra dunque che è lecito usare il termine «magia» senza doverla confondere con la pratica empirica dei poteri psichici, riferendo invece l’«alta magia» ad un particolare modo di intendere la stessa scienza iniziatica integrale. Possiamo anche ammettere che a questo significato forse si avvicina di più l’antico termine di teurgia; ma anche qui sarebbero necessarie delle riserve, perché letteralmente «teurgo» significa tanto «facitore di opere divine» quanto «facitore di dèi» e nel secondo caso l’arte teurgica sarebbe quella di dar forma di apparizioni a certi poteri d’in alto evocati o risvegliati: sarebbe allora qualcosa che rientra più o meno in ciò che si usa chiamare «magia cerimoniale», la quale resta, come livello spirituale, al disotto dell’alta magia quale noi l’intendiamo.
Quanto alla ragione per cui, da parte nostra, teniamo al termine «magia», essa è duplice ed ora la spiegheremo brevemente.
In primo luogo, è per mettere in risalto il carattere di scienza sperimentale e di tecnica che è essenziale alla via iniziatica in genere e che la distingue da tutto ciò che è misticismo, medianità e simili. Di passata, si può rilevare che nel corpo delle religioni positive la componente magica è presente in tutto quel che è rito con un carattere definito ed oggettivo, opposto al dominio puramente soggettivo e psicologico della fede, dei sentimenti e degli stati d’animo.
La seconda ragione è che, malgrado tutte le sue contraffazioni e trasposizioni fiabesche, nel tipo del mago si mantiene ben visibile quell’ideale di una virilità spirituale, che è altrettanto essenziale per il tipo più alto dell’iniziato, dell’adepto. Il mago ha sempre richiamato alla mente l’idea di una superiorità dominatrice.
Col che si può accennare ad un ordine di idee per noi assai importante, perché definisce la tradizione a cui ci ricolleghiamo. Bisognerà però prender le mosse un po’ da lontano. È abbastanza agevole riconoscere, nell’insieme delle antiche civiltà, la presenza di due tradizioni sufficientemente distinte, che si possono definire approssimativamente tradizione regale e tradizione sacerdotale. Nelle origini queste due tradizioni non facevano che uno; la differenziazione è avvenuta in un periodo successivo ed essa si deve intendere come quella di due differenti modi di riprendere appunto la spiritualità delle origini e di continuare ciò che viene chiamata la tradizione primordiale; sulla qual base sono state possibili interferenze e reciproche integrazioni della tradizione regale con quella sacerdotale. Tuttavia, se nel sacerdote s’intende colui che semplicemente media il rapporto fra il mondo umano e quello divino, nel re (secondo la sua dignità originaria) colui che invece è direttamente un essere divino, per cui egli attua una funzione di mediazione già con la sua semplice presenza, allora si deve riconoscere che la tradizione regale è assai più vicina dell’altra alla tradizione primordiale e, quindi, al supremo ideale dell’adeptato. Questa priorità appare difficilmente contestabile a chi abbia in mente ciò che la regalità tradizionale rappresentò, ad esempio, in Egitto, nell’Iran, in Cina, fra gli Incas, in Giappone, nella stessa Roma antica; a quest’ultimo riguardo non sarà anzi inutile ricordare che il titolo pontifex maximus fu un titolo regale, un titolo dell’augustus, dell’imperatore romano (come già lo era stato nelle origini di Roma) e che il cattolicesimo, nel riprenderlo ed applicarlo al capo di una gerarchia semplicemente sacerdotale, commise poco meno di una usurpazione.
Ora, se la dignità magica, come si è detto, porta spontaneamente a pensare ad una virilità spirituale e ad una superiorità dominatrice, è evidente la relazione che essa ha con la tradizione della regalità iniziatica, come è evidente, per converso, che è proprio questa tradizione – per così dire – a legittimarla e a conferire ad essa la pienezza del suo significato di contro agli orizzonti propri ad ogni spiritualità di tipo sacerdotale. Che la tradizione della regalità iniziatica si sia spenta già da lungo tempo per quel che riguarda adepti che siano anche capi visibili di popoli e di Stati, ciò significa poco: la tradizione segreta della regalità iniziatica sussiste ed ha sussistito, nel suo giusto luogo, quanto quella dell’iniziazione in genere, e non è certo un caso che nell’ermetismo si è parlato di un’«Arte Regia» e di un rex physicorum, che i Rosacroce si riferivano ad un Imperator e che perfino nei residui degenerescenti e nelle contraffazioni della massoneria dei nostri giorni vi sono dignità che si legano all’idea del «Sacro Impero».
Ma vi sono anche altri aspetti della quistione. L’uno riguarda le qualificazioni: che non sono le stesse per la dignità regale e per quella sacerdotale. Per la prima entra evidentemente in quistione soprattutto la razza spirituale del guerriero e dell’eroe. Ora, vi è una tradizione assai significativa che si inquadra perfettamente nell’ordine di idee qui esposto. Esiodo riferisce l’insegnamento tradizionale circa le quattro età, le quali corrispondono alle singole fasi della discesa e dell’involuzione proprie al ciclo più recente dell’umanità. Ora egli, non certo a caso, ma riportandosi alle idee dell’antica Ellade, definisce come generazione degli eroi quella a cui Giove-Zeus avrebbe data la possibilità di partecipare nuovamente allo stato primordiale, malgrado l’approssimarsi dell’età ultima, o «età del ferro» ; partecipazione, che corrisponde alla reintegrazione iniziatica. Si capisce allora perché Della Riviera parli di «eroi», di «discepoli regali dell’alto Giove» (Giove valse sempre come un dio della regalità) e di «mondo magico degli eroi» e perché noi abbiamo creduto importante richiamare l’attenzione su questa testimonianza, che del resto non è certo la sola, a sostegno della tradizionalità e dell’ortodossia di un simile ordine di idee.
Ancora un aspetto, di non lieve momento, da trattare è il seguente: il limite superiore, se così si può chiamarlo, della tradizione sacerdotale è un’ascesi della contemplazione pura e un orientamento dello spirito, che dà speciale risalto alla sfera della conoscenza di fronte alla sfera dell’azione. Naturalmente, elevandosi verso le regioni superiori dello spirito le differenze non possono non attenuarsi, e là dove si parla di conoscenza, sempreché vi sia un qualche riferimento all’ordine iniziatico, s’intende anche realizzazione, allo stesso modo che il termine theoria, nel suo significato greco originario, spesso reso col termine «contemplazione», implica, di contro alle accezioni venute a predominare in sèguito, qualcosa di attivo, l’atto del pensiero puro. Ciò non impedisce però che una certa differenza, per lo meno in fatto d’intonazione, sussista, e chi troppo insiste sulla via della conoscenza inclinando a rivendicarle un primato avvertirà, di fronte alla via magica, la stessa diffidenza e, potremmo dire, lo stesso animus che il sacerdote ha avuto di fronte all’adepto regale.
Sul piano più basso, il caso più tipico di questo animus lo si trova nel cristianesimo. Il cristianesimo ha il carattere di una delle tradizioni più unilateralmente sacerdotali sviluppatasi in un senso tale, da finire quasi completamente in una semplice religione priva di ogni esoterismo. Così la presa di posizione del cristianesimo contro tutto ciò che ha sapore di «magia» è stata sempre tanto precisa quanto sintomatica, ed esso nel concetto di «magia» e di «arti diaboliche» non ha esitato ad associare, alla fine, anche tutto ciò che, in genere, ha attinenza col mondo dell’iniziazione. Ma anche su un piano superiore non manca chi, pur riconoscendo pienamente il significato e la dignità della via iniziatica, per intendere però questa via unilateralmente in termini di «conoscenza» tende anche lui più o meno a discreditare la nozione di magia, cercando di restringerla all’àmbito di una scienza assai poco interessante di manipolazione di poteri sottili. Ciò che abbiamo esposto mostra tuttavia che una tale restrizione è arbitraria, mostra l’influenza a cui si obbedisce quando vi si insiste, mentre conferma la legittimità di far della magia un sinonimo di ars regia e di scienza iniziatica dell’Io.
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Dopo queste considerazioni di carattere teorico vogliamo precisare alcuni pochi punti interni al campo magico e relativi al concetto iniziatico dei poteri.
1) È una massima iniziatica che «non devi cercare la potenza, è la potenza che deve cercare te». Nella nostra tradizione la potenza è femina. Essa cerca un centro, e chi sa fornirglielo col proprio consistere, con la propria rinuncia (diciamo proprio rinuncia e speriamo di essere capiti), con la propria durezza creata da dominio sull’anima, da isolamento, da resistenza, a costui essa si congiunge immancabilmente ed obbedisce, come al suo maschio. Allo stesso modo che le acque formano naturalmente dei vòrtici intorno ai piloni fermi nella loro corrente, in modo altrettanto spontaneo si forma l’aura intorno a chi, come una forza che si porta avanti e non guarda a sè stessa, fa proprio il modo dell’essere. L’essere è la condizione della potenza, una impassibilità (quasi diremmo una frigidità) che ad essa non guarda è ciò che l’attrae. Al desiderio di potenza la potenza si sottrae invece come una donna all’abbraccio lascivo di un amante impotente.
2) Chi comprende questo, comprende anche la natura del pericolo continuo che si lega ai poteri. Ogni potere è per l’Io come una vertigine di forza sottile fissata ed incatenata dalla sua qualità «centrale». Venendo meno la fermezza, cioè l’essere per cui un potere è attratto dall’iniziato e gli obbedisce, esso lo travolge. In simili casi la conseguenza è di solito il retrocedere in uno stato più basso di quello da cui si è partiti. I poteri si trasformano in enti che posseggono chi è caduto.
3) Si parla talvolta di un «rigetto dei poteri». Questo è un non-senso, allo stesso modo che lo è la «rinuncia al nirvâna» di cui parimenti si parla in certi ambienti teosofisti. Il nirvâna non è come una abitazione in cui si può entrare o non entrare a piacere. Il nirvâna è uno stato, e una volta realizzato che esso sia non vi è modo di «rinunciarvi» per il semplice fatto che esso costituisce, una volta per tutte, una parte integrante dell’essere. Del pari, si potrà, si, parlare di una rinuncia all’uso dei poteri, cosa equivalente ad aver il potere in uno stato in semplice possibilità, ma il rigetto dei poteri non ha senso, perché essi si connettono in via naturale alla dignità metafisica dell’iniziato e sono, in un certo modo, il crisma di essa; per cui, di rigore, i poteri potrebbero esser respinti solo quando a quella dignità si potesse rinunciare – cosa impossibile per la ragione ora detta parlando del nirvâna.
Certo è in ogni caso, che i poteri, lungi dall’essere sempre desiderabili come il profano si imagina, sono tali che chi li ha senza averli chiesti volentieri se ne scaricherebbe, se lo potesse. Cosa che si può presentire per analogia pensando alle dignità e ai posti di comando nel mondo degli uomini, che implicano non solo il rischio, ma anche un alto grado di impegno e di responsabilità: responsabilità, in primo luogo, di fronte a sè stessi.
4) L’attrattiva che sulle menti comuni esercita la nozione dei poteri magici si basa su di un equivoco grossolano: da una parte si concepisce un uomo qualunque, con i suoi vari desideri, fini, passioni ed interessi, e quest’uomo lo si pensa investito dei poteri, laddove il soggetto dei poteri, l’uomo magico, è un essere sostanzialmente diverso dal primo; esso col primo non può aver nulla di comune ed è un vero e proprio cambiamento di stato che gli ha messo in mano i poteri (ciò vale almeno per il dominio dell’alta magia; nella magia che, senza moralismi, noi stessi possiamo chiamare magia nera e che è più o meno lo stesso della stregoneria, le cose possono anche andare altrimenti). Così accade che la gran parte di ciò che un uomo comune potrebbe desiderare di fare e di conseguire coi «poteri» cessa quasi interamente di aver interesse per chi ha conseguito lo stato che lo introduce al reale possesso degli stessi. Ciò vale tanto più rigorosamente per quanto più si ascende (o si guadagna in profondità: è la stessa cosa, detta in modo differente), e costituisce la ragione per cui coloro che più possono, meno lo manifestano.
5) Persiste, in molti, una concezione addirittura bambinesca dell’azione magica: quasi come quella di un fatto che si determini senza un nesso causale – più o meno come è proprio alle bacchette magiche delle fiabe che ipso facto producono automaticamente questo o quell’effetto. Evidentemente anche se non ci si riferisce proprio alle bacchette magiche, ma a formule misteriose o a segni segreti che avrebbero un potere analogo, l’orizzonte non cambia di molto. Di passata, vogliamo rilevare che per un esempio di situazioni del genere, se mai, non è al mondo della vera magia, bensì a quello della tecnica moderna che ci si dovrebbe riferire: il potere di far saltare in aria una roccia premendo il tasto di un interruttore, od anche semplicemente quello di far sprizzare del fuoco stropicciando un fiammifero è, in fondo, proprio di quel tipo: qui sono io, là si produce l’effetto, provocato automaticamente, «magicamente» , da un potere che non è il mio, che mi è del tutto incomprensibile ed estraneo per quanto bene ne possa anche conoscere le modalità o, per dir meglio, le abitudini. Inoltre simile magia della tecnica ammette le possibilità che, in forza di ciò che si è mostrato nel punto precedente, l’alta magia esclude: se ne può fare un uso indifferente per qualsiasi desiderio o scopo di una qualsiasi individualità umana.
Invece il vero atto magico è, dal punto di vista dell’esperienza interna, proprio il contrario del miracolo nel senso supposto di fenomeno incomprensibile e stupefacente. Esso procede da uno stato di assoluta evidenza-conoscenza e gli è inseparabile il senso di una diretta, reale causalità, del potere che sbocca direttamente nell’effetto. Questo effetto viene realizzato in funzione delle sue cause e la causa fa tutt’uno con lo stato di una vita integrata e delle sue culminazioni. Si ricorderà che abbiamo già trattato di ciò parlando del concetto iniziatico di conoscenza.
Vi è solo da aggiungere che formule, riti, segni che in origine servivano solo da appoggi e da ausiliari per azioni aventi un tale significato, per via di una degenerescenza possono essere stati tramandati senza che siano stati più capiti. Ciò non impedisce che, per tutti i fattori sottili che vi si legano e per reazioni indirette sull’operatore (è ciò di cui effettivamente si tratta nei casi in cui si crede che tutto si riduca al potere di una autosuggestione e ai mezzi per crearla), l’uso di quegli strumenti magici tramandati possa, in determinate circostanze, continuare a produrre gli stessi effetti; effetti, che allora si può esser portati a considerare come «magic » nel senso cattivo e miracolistico, appunto perché in simili casi il processo causale sfugge in larga misura alla chiara coscienza.
6) Il punto ora trattato riconduce ad operazioni, che siano appunto esercizio di poteri e non abbiano una finalità esclusivamente iniziatica. E si deve ammettere che varie delle istruzioni di magia comunicate in queste pagine si riferiscono a questo piano o, almeno, ad esso possono riferirsi. Si può seguire la giusta via eppure darsi ad operazioni del genere? Ciò che si è detto al punto 4) mantiene la sua validità; tuttavia si può concepire una fase intermedia in cui l’esperienza magica può avere il significato ed il valore di una specie di sport, non nel senso deteriore, ma come un allenamento di forze e di organi, che qui non sono del piano fisico e corporeo e che entrano in linea di conto per chi comincia a condurre una duplice vita, nel visibile e nell’invisibile. Vi è da aggiungere che, come uno sport sano sviluppa qualità di disciplina, di coraggio, di perseveranza, di dominio lucido di una situazione, disposizioni analoghe sono sviluppate – e, naturalmente, in una qualità ed una misura più alte – nelle azioni e nelle esperienze di cui si è detto; e queste disposizioni non possono che essere d’aiuto per le stesse realizzazioni iniziatiche in senso proprio. Resta solo da saper riconoscere il limite, oltre il quale, proprio come nello sport fisico, non si ha più uno sviluppo, ma una deviazione, perché si finisce col dare un valore in sé a cose che ne hanno solo uno contingente.
Poniamo infine quest’ultima quistione. È pensabile un uso del potere, quando esso non sia concepito nei termini di cui al punto 4) (ossia pel soddisfacimento personale di desideri e passioni umane), né abbia la finalità affatto contingente e subordinata di cui si è detto or ora? Si può rispondere affermativamente. In primo luogo, sulla stessa via iniziatica e su di un piano affatto trascendente, perché vi sono tradizioni precise nelle quali la capacità di agire costituisce una prova, il superamento della quale conduce dall’«identità passiva» propria ad una specie di beatitudine cosmico-estatica, all’«identità attiva» che è la vera realizzazione iniziatica e «regale» del Supremo Principio. Si parla di questa prova in certi insegnamenti esoterici islamici; nella tradizione indù ne dà il senso il Dio Krshna, quando nella Bhagavad-gîtâ (IV, 6; IX, 8) dice: «In me tutti gli universi sono già compiuti; pure, dominando la mia natura, io mi manifesto fra gli esseri ed agisco» (1).
L’ultima possibilità da considerare è quella di azioni effettuate non sulla via del compimento, – nella quale, in fondo, rientra la stessa possibilità ora detta, pur costituendone l’ultima tappa – ma da un adepto, che tale via ha già percorsa. Ma, circa tali azioni possibili, ben poco si può dire, sfuggendo esse, per ipotesi, alle misure e ai motivi umani. Certo è che a loro base non possono stare passioni e fini particolari; ma nemmeno le nozioni di «bene» e di «male» possono informarle, tali nozioni e la loro contrapposizione appartenendo parimenti alla sfera umana; ciò che ha qualità di centro e di «invariabile mezzo» è egualmente distante dall’uno e dall’altro, dal «bene» e dal «male», e la stessa natura debbono necessariamente averla le azioni disindividuali di coloro che hanno realizzato il collegamento secondo essenza col «Centro».
Nota
(1) Tale è il vero senso di ciò che, nel campo di una seria dottrina, può corrispondere all’accennata «rinuncia al nirvâna» .
L’immagine in evidenza è tratta liberamente e senza modifiche da pixabay.com (free simplified pixabay license; author: Kellepics – Stefan Keller).
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