In vista della conferenza che si terrà a Roma, presso Raido, il prossimo 14 ottobre dal titolo “Suolo, sangue, spirito – la difesa delle identità oltre lo ius soli“ (che sarà anche l’occasione per presentare la nuova edizione di “Sintesi di dottrina della razza” di Julius Evola, curata dalle Edizioni di Ar), proponiamo un articolo estremamente interessante del relatore della conferenza, Massimo Pacilio, professore di storia e filosofia, da quasi vent’anni autore delle Edizioni di Ar, per le quali ha raccolto gli articoli di Evola apparsi su “La Vita Italiana” e con cui ha pubblicato “Conoscenza tradizionale e sapere profano – René Guénon critico delle scienze moderne“(1998) e, da pochissimi giorni, un pamphlet decisamente in tema con l’argomento in oggetto, “L’invasione – prodromi di una eliminazione etnica”. Nonostante sia stato pubblicato nel 2003, in occasione dell’uscita del quinto numero del bollettino periodico a cura delle Edizioni di Ar, “Risguardo”, che celebrava i quarant’anni delle edizioni di Ar , l’articolo in questione si dimostra di grandissima attualità, viste le tematiche affrontate e l’angolo visuale di riferimento che, essendo agganciato fermamente ai principi tradizionali, non può che essere garanzia di atemporalità e metastoricità e, quindi, conferire spirito profetico, capacità interpretativa ed una sostanziale immunità dinnanzi alle negatività del mero divenire storico a chi riesce ad inquadrarlo correttamente.
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di Massimo Pacilio
Tratto da “Risguardo V – Quarant’anni di edizioni AR – 1963 – 2003” (2003)
Nel 1991, le Edizioni di Ar danno vita alla collana iperborei ed etiopi, facendovi confluire testi già presenti da tempo nel proprio catalogo, ma anche accrescendola con nuovi saggi, tutti incentrati su uno dei più controversi e ‘ineffabili’ argomenti di studio: la razza. Il pensiero sulla razza, configuratosi, da de Gobineau a Evola, come ricerca di ciò che potremmo definire il sigillo iperboreo — il deposito spirituale sedimentatosi nell’anima e nel sangue delle popolazioni indoeuropee —, ha rappresentato una delle forme assunte dalla coscienza-di-sé nella civiltà occidentale, tra il XIX e il XX secolo.
La stesura dell’Essai sur l’inégalité des races humaines (1853-55), di Arthur de Gobineau — la cui versione italiana è stata il testo incipit delle Edizioni di Ar, nel 1964 —, rappresenta il primo tentativo di definire una nuova e organica prospettiva da cui re-interpretare la storia e gettare le fondamenta di una più complessa Weltanschauung. In linea con lo spirito ottocentesco, ancora erede di un mondo fedele al primato della forma (1), il conte de Gobineau rivisita le epoche della storia alla luce di una nuova dottrina, secondo la quale l‘ibridazione viene considerata la causa principale del declino delle razze portatrici di civiltà. La volontà di conservare una propria integrità è l’effetto dell’insopprimibile istinto di sopravvivenza e di affermazione di una stirpe, e costituisce, in altri termini, il limite al di là del quale la stessa razza, e con essa la civiltà che ne è derivata, scompare definitivamente dall’orizzonte della storia.
Il saggio del de Gobineau intendeva rappresentare un punto di vista alternativo alle concezioni illuministiche, che, con forte impronta egualitaristica, dispiegavano sulla ricerca storica il disegno di una definitiva affermazione dell’idea di progresso indefinito. Secondo il saggista francese, invece, la storia è, in sintesi, un conflitto di razze, e i cambiamenti ingenerati nelle vicende umane ne sono la conseguenza diretta. Egli si dimostra, in ciò, immune dall’idea di progresso e dalla credenza, tutta moderna e razionalistica, secondo la quale l’uomo sia perfettibile all’infinito. I giudizi dei suoi contemporanei sulla superiorità delle moderne conoscenze scientifiche, sulle conquiste della tecnica e sullo sviluppo della giurisprudenza e della politica erano da lui reputati come “alte pretese” (2) Una precisa affermazione delle differenze, dunque, che tiene le distanze dalla superstizione illuministica dell’uguaglianza; un’attestazione della diversità, proprio mentre la praktischen Vernunft (3) imponeva la fissazione concettuale di un astratto essere umano, ipotetico titolare di diritti che non prevedessero variazioni di caso in caso.
Tra il XVIII e il XIX secolo, dunque, vengono stabilite le premesse del liberalismo democratico e del suo opposto, della “open society” e dei suoi “nemici”, i quali, come metterà in evidenza Popper, hanno lontane origini, risalenti a quella politeia platonica in cui l’ordine organico delle caste rappresentava l’espressione statuale più conforme a un tipo umano non disponibile alla confusione. Un’idea di Stato che Freda, riprendendo l’ipotesi avanzata da Dumézil, legge come la riapparizione delle tradizioni indoeuropee (4) e alla quale potremmo accostare, naturalmente, la rhétra dettata da Apollo a Licurgo, luminoso riflesso della medesima idea del mondo.
La concezione di progresso indefinito sembra incepparsi proprio sul piano politico. Ma procediamo con ordine e risaliamo al 1937, anno in cui Julius Evola pubblica Il Mito del Sangue, ampliato, cinque anni più tardi, in una seconda edizione (di recente ripubblicata dalle Edizioni di Ar). Con questo breve saggio, l’Autore compone una vera e propria storia del razzismo, nella quale compaiono i nomi e le dottrine dei principali autori che si sono dedicati a questo argomento. Dal poligenismo teorizzato dall’imperatore Giuliano Augusto, fino al Volkergeist tipico del romanticismo tedesco, Evola ripercorre, inizialmente, le idee che hanno contribuito a definire una prospettiva razziale, per approfondire, nei capitoli successivi, le teorie propriamente razziste, a partire, naturalmente, dal Saggio di de Gobineau.
Sono perciò presenti i nomi di Blumenbach, Camper, Broca, Bopp, Klemm, Vacher de Lapouge, Wilser, Lange, Woltmann, Driesmans, Reimer, Fischer, Merkenschlager. Un’attenzione particolare Evola dedica alle tesi di de Gobineau, di Günther e di Clauss, senza tralasciare, ovviamente, le opere più note di Chamberlain e di Rosenberg, oltre all’esame del razzismo hitleriano. Un excursus sulle leggi mendeliane della ereditarietà completa il saggio, insieme a una sintetica analisi dell’antisemitismo.
Le tesi evoliane sulla razza godono oggi di una notorietà sufficiente a esimerci dal doverle riepilogare in questa sede. Dopo una ricezione confusa e tendenziosa, la dottrina di Evola appare ora chiara, grazie anche alla pubblicazione dei principali saggi che egli dedicò al tema della razza — inclusi nella collana iperborei ed etiopi — e dei numerosi articoli pubblicati negli anni Trenta e all’inizio dei Quaranta — gran parte dei quali sono compresi nella collezione de I testi di Julius Evola —, ai quali si affiancano le recenti opere di Di Vona, di Germinario e di Cassata (5). Non entriamo, naturalmente, nel merito dei temi trattati da questi autori, ma ci basti ricordare, sulla scorta di Di Vona, che per Evola il razzismo era valido in quanto capace “di invertire il corso della regressione delle caste, e perciò della storia, e di riportare l’Occidente e l’Italia ad una civiltà di tipo tradizionale” (6).
Seguendo la traccia lasciata da Evola, potremmo dunque ricomprendere le dottrine razziste venute alla luce in questi ultimi due secoli entro un medesimo orizzonte intellettuale. L’opera di un de Gobineau, evidentemente, non nasce dal nulla, né può essere considerata come uno stravagante frutto del positivismo; essa vede la luce non molto tempo dopo la pubblicazione dei saggi di Hegel (rispetto ai quali, noi riteniamo che essa si ponga in essenziale contrasto), negli stessi anni in cui Darwin e Marx redigevano i propri scritti fondamentali. Un profondo bisogno di conoscenza di sé pervadeva la cultura europea, per assumere, di lì a poco, le forme dell’analisi sociologica di un Weber e di quella psicologica di un Freud, fino alle riflessioni di Splenger sul destino dell’Occidente.
Ma il pensiero occidentale non aveva smarrito, fino allora, il suo vizio d’origine: parlava dell’umanità, dell’ “homme universel”, pensando all’uomo europeo quale si era sviluppato entro precisi confini culturali; assumeva la propria visione del reale e del razionale come quella che ogni uomo, ‘in quanto tale’, avrebbe dovuto necessariamente possedere, stabilendo finanche quali fossero le forme pure a priori dell’intelletto. Una tentazione a cui non è estraneo neanche il pensiero della crisi.
Il razzismo, legato com’è al poligenismo, introduce una discontinuità. Esso tematizza — a volte intrecciandosi con le concezioni moderne, spesso allontanandosi da esse — la differenza, accentuando la disuguaglianza esistente tra gli uomini, ma facendola agire precipuamente sul piano etnico. L’esprit des nations non è più, dunque, un semplice espediente retorico, ma viene posto a fondamento della storia. Gradualmente, lo stesso concetto di nazione andrà specificandosi, assumendo diverse valenze. Già in de Gobineau, gli Stati moderni non appaiono come la monolitica manifestazione di un popolo, ma come luogo geografico di confluenza di molteplici razze.
La coscienza europea è posta di fronte alla propria complessità razziale; la sua scissione, prima che sul piano psichico, si manifesta consapevolmente su quello razziale. Parallelamente alle analisi antropometriche, il razzismo — come argomenta Evola ne Il mito del sangue — sviluppa un’analisi dei tipi umani attraverso lo stile di vita dei popoli, elevandosi, con i Günther e i Clauss, ben oltre ogni riduttivismo biologistico, e contribuendo a dare al Volkergeist un significato meno generico. È chiaro che il passo successivo, quello compiuto dallo stesso Evola con Sintesi di dottrina della razza (7), costituisce l’ultimo approdo del razzismo, in ordine di tempo. La collana iperborei ed etiopi, accettandone l’eredità, compie un atto di affermazione della differenza in un segmento temporale, l’attuale, oscurato da un cupo istinto di uguaglianza.
Dal Caos alla Modernità…
Ogni cosa esistente — scriveva Guénon in un suo magistrale saggio — si manifesta in virtù della combinazione dei due princìpi di Purusha (la forma, l’essenza) e Prakriti (la materia, la sostanza), che costituiscono rispettivamente il “lato qualitativo” e il “lato quantitativo” della “manifestazione universale”. Descrivendo i caratteri dell’epoca moderna, l’Autore francese individuava nel graduale passaggio verso la preminenza della quantità sulla qualità la dinamica interna allo sviluppo dei tempi e il significato stesso dell’avvento del Kali Yuga. L'”età oscura”, fase finale di questo passaggio, si presenta con i caratteri di un vero e proprio movimento di caduta (il cui effetto più evidente, ma anche più esteriore, è rappresentato dalla sensazione di accelerazione del tempo), capace di determinare simultaneamente, e su tutto il piano della esistenza, la progressiva eclisse della qualità (8).
Nell’ambito conoscitivo, questa trasformazione macrocosmica si traduce nella nascita e nella diffusione delle scienze moderne: la capacità di comprendere il mondo viene circoscritta nei limiti della quantità, mediante una matematica privata di ogni fondamento metafisico (9). Tra i connotati specifici del regno della quantità — scriveva Guénon — figura il prevalere dell’uniformità, limite ultimo dell’oscuramento delle essenze. Sul piano umano, l’uniformità si rende manifesta con l’avanzare dell’egualitarismo, che altro non è che il tentativo di ridurre l’uomo a una macchina, privandolo di qualsiasi qualità differenziante (10).
L’insegnamento guénoniano è chiarissimo: lo sviluppo dei concetti racchiusi nell’egualitarismo impone una accelerazione ulteriore al movimento di caduta fino a provocare, tra l’altro, il totale snaturamento dell’uomo, L’uniformità, intesa come condizione ultima e irreversibile, può dunque intendersi, seguendo la traccia lasciata dal maestro francese, come una caduta nell’infraumano, poiché la natura umana richiede un suo coefficiente minimo di differenziazione, in assenza del quale essa scompare del tutto.
È significativo che il saggio della cui autorità ci siamo avvalsi sia stato pubblicato nel 1945, anno cruciale per i destini dell’Europa, anno in cui il meccanismo teoretico che ha condotto il pensiero moderno a sviluppare il concetto di progresso indefinito, si inceppa. Per Guénon, la nascita della modernità rappresenta l’irruzione del caos in un mondo ancora legato a una tradizione e, pertanto, ‘in ordine’. Il prevalere del “polo quantitativo” della manifestazione comporta una perdita di conoscibilità del mondo stesso, dal momento che la conoscenza è un atto dell’intelletto fondato sull’intuizione delle forme. La materia rappresenta, aristotelicamente, un limite di inconoscibilità, di oscurità.
La più recente fase della cultura moderna possiede una caratteristica che prelude a questa sorta di azzeramento gnoseologico: la rimozione dell’idea di differenza. La dissoluzione di ogni qualità, infatti, non può che implicare la sparizione del difforme, radice stessa, diremmo, della qualità. Qualità è differenza, distinzione, disuguaglianza. Il pensiero moderno, invece, ipostatizza l’uguaglianza, atteggiandosi a pensiero della omologazione, dell’indifferenziazione, della reductio ad unum verso il polo quantitativo: tutto deve appartenere allo stesso genere — è questo l’assunto fondamentale, il motore immobile del concetto di progresso —, affinché si possa fare su ogni cosa lo stesso discorso, se ne possa avere la medesima dottrina. Nulla può essere lasciato al di fuori, nulla vi può essere che appartenga a un’altra visione del mondo. La società dei diritti è la società degli uguali, è il punto di arrivo di chi ha eliminato la difformità, sotto ogni rispetto. È evidente che l’uomo moderno, si immagina, e intende pertanto distinguersi, esclusivamente su un piano di quantità misurabili, che possano a loro volta essere cambiate in valori monetarii: la sola disuguaglianza ammissibile è quella numerica. La modernità insegue l’omogeneo, non come un introvabile Graal, ma alla stregua di un progetto da realizzare nella storia.

“Lungi dalle nostre intenzioni il voler rispolverare una stinta retorica risorgimentale (…) accogliamo con favore le eclissi dei nazionalismi (…). Eppure, considerando il destino delle parole, non possiamo non attribuire un valore simbolico alla lenta scomparsa del vocabolo nazione…”
Attualmente, con disinvolto opportunismo glottologico – segnale inequivocabile della ciclica riemersione dei più abietti difetti di stile —, va gradualmente scomparendo dal lessico politico in voga il lemma, fondativo e identificativo, di nazione. Apparentemente, la cauta sterzata linguistica sembra dettata da ragioni mediatiche: la conversione in una ideologia implica, infatti, un rapido revisionismo semantico-concettuale, che permetta una più agevole ricezione, e interiorizzazione, dei ‘buoni messaggi’.
Lungi dalle nostre intenzioni il voler rispolverare una stinta retorica risorgimentale quando ricordiamo che proprio sull’onda dell’idea di nazione fu costruita l’unità d’Italia, in opposizione a quanti, considerandola una mera espressione geografica, tenevano ingiustamente separate le genti di una medesima stirpe. Comprendiamo bene — anche se non approviamo – che l’attuale ristrutturazione sintattica delle categorie del politico richieda anche una corrispondente traduzione del linguaggio, e dunque non ci meraviglia l’ostracismo riservato ad alcuni termini. Accogliamo con favore, d’altra parte, le eclissi dei nazionalismi, lanciati con giacobina voracità contro i languidi resti dell’aristocrazia europea. Eppure, considerando il destino delle parole, non possiamo non attribuire un valore simbolico alla lenta scomparsa del vocabolo nazione, allarmante riconoscimento della graduale sparizione dell’entità etnica a cui esso si riferisce: nomina sunt consequentia rerum...
Ciò che invece, a un primo esame, potrebbe sorprendere è la puntuale ricorrenza della parola razza e dei suoi derivati: razzismo, razzista, razziale… A seguito della decisione di liquidare l’idea di razza dall’ambito dell’antropologia, e di impedire persine la pensabilità di un razzismo, oggi ci troviamo di fronte a quello che Giovanni Damiano, nella nota introduttiva al testo di Franco Giorgio Freda, I lupi azzurri, ha definito il paradosso di un “razzismo senza razze” e “senza razzisti’. Ma, se i nomi sono conseguenza delle cose, non possiamo negare che la razza — o almeno la sua rappresentazione mentale — è ben presente e attiva, benché a essa ci si riferisca pressoché esclusivamente per impedirne una qualsivoglia legittimazione. La razza, pertanto, agisce in interiore, provocando le reazioni più contrastanti. Solo in pochi individui, tuttavia, essa si dimostra capace di suscitare idee che vadano al di là delle opinioni volgari, se si escludono, naturalmente, i rari casi in cui le riflessioni sulla razza hanno avuto la facoltà di pervenire alla organicità di una dottrina.

Come già teorizzato da Hegel per la filosofia, così anche la dottrina della razza, osserva Pacilio, “non può che essere, per sua stessa natura, un pensiero ‘finale’, una riflessione ‘a posteriori’, una dottrina che si alza in volo nell’età della decadenza” (cfr. nota 11)
Gli storici, dal canto loro, ci assicurano che nell’antichità non fu teorizzato alcun razzismo, né le civiltà greca e romana furono in qualche modo razziste. Il termine stesso di razza, nella sua forma attuale, non si potrebbe far risalire ad un periodo anteriore al XV secolo. E, d’altra parte, una “dottrina della razza” è, per sua stessa natura, un pensiero “finale”, una riflessione “a posteriori”, una dottrina che si alza in volo (come “die Eule der Minerva beginnt erst mit der einbrechenden Dämmerung ihren Flug”) (11) nell’età della decadenza, perché è, irrimediabilmente, una coscienza della perdita. Pensare la razza è, ante omnia, una forma della “nostalgia delle origini”.
Ma proprio in questa sua implicita negazione del progresso — dovuta al convincimento che le razze, tendendo a mescolarsi, perdono la propria originaria ‘purezza’, al punto che lo stesso fluire del tempo sembra comportare un inevitabile decadimento esiziale dei popoli -, essa si manifesta come una riproposizione di quella medesima visione del mondo che induceva Esiodo a collocare l’età dell’oro in un lontano passato, prima, cioè, che tra i padri e i figli si potesse introdurre una fatale dissomiglianza (12) essa esprime la visione del mondo di chi, come Omero, pensa al proprio passato alla stregua di un’età “in cui gli eroi erano più forti e valorosi” (13).
Diventa opportuno, allora, soffermarsi su questa parola moderna a cui corrisponde, però, una delle visioni più arcaiche; comprenderne la vicenda linguistica e teoretica, studiarne lo sviluppo, verificare le premesse, le conclusioni e l’intima coerenza delle idee che ha suscitato (fu questo, in fondo, l’intento di Evola con le opere oggi riedite nella collana iperborei ed etiopi). Insieme alle considerazioni che l’hanno sostanziata negli ultimi due secoli, essa ha attraversato l’orizzonte del pensiero stabilendo un rapporto di estraneità radicale con le coeve concezioni egualitariste e progressiste.
Rispetto a queste ultime, va sottolineato, essa (la razza, n.d.r.) non ha subito alcun inceppamento speculativo. Il ‘progresso indefinito’, invece, lo troviamo oggi arenato sulle spiagge della democrazia, irretito dal canto delle sirene dell’uguaglianza, senza la benché minima illusione di poter riprendere il mare. Sul piano del pensiero politico, l’illuminismo ha prometeicamente rapito l’idea aristocratica e guerriera dell’assemblea, donandola alle masse nelle forme della democrazia; ma, elevandola a meta finale di tutto il progredire umano, ha avvelenato lo stesso concetto di progresso indefinito che aveva da poco partorito. Il pensiero filosofico, dipingendo grigio su grigio, si definisce solo quando la realtà ha già raggiunto una sua temporanea stabilità, e oggi niente, al di là della democrazia, vero limite invalicabile di questa epoca, sembra ancora politicamente pensabile. In questo si vede chiaramente come la modernità stia già chiudendo i conti con sé stessa.
… alla salvezza della Forma
Assume tutto il suo significato, allora, l’epigrafe posta a emblema della collana: “di fronte al caos della modernità, unica salvezza e la forma”. Con il cronologico succedersi delle pubblicazioni che la compongono, essa erige una barriera contro quella rimozione dell’idea di differenza cui si è accennato. Heideggerianamente — si potrebbe dire —, la riaffermazione della differenza non può che prendere l’avvio dall’ente che quella idea può riconoscere e, quindi, porre a fondamento della sua relazione con gli altri enti del mondo: l’uomo, pensato nell’insieme delle molteplici connessioni che lo costituiscono.
Nel razzismo, la diversità razziale è pensata come consustanziale alla natura umana, non è un accidens che interviene a determinarne aspetti secondari: la natura umana si manifesta come razza. Un ente uomo privo di una sua determinazione razziale non è nemmeno pensabile, così come non è possibile concepirlo privo di una sua materia. La razza, allora, non può essere teorizzata come la conseguenza di un imprevedibile “processo evolutivo” ma come il perdurare di una forma che, in quanto tale, non è suscettibile di cambiamenti, bensì solo di origine e di estinzione. Essa si può considerare come la causa formale dell’ente uomo, e ne garantisce, pertanto, la conoscibilità più di qualsiasi teoria psicanalitica — quest’ultima restando sul piano superficiale, se non esclusivamente clinico, dello studio della persona. Ciò che circoscrive l’ambito delle possibili reazioni del singolo nell’insieme delle interrelazioni sociali non è l’inconscio, inteso come somma delle esperienze pregresse depositate nella memoria individuale, ma è la razza e la sua relativa purezza.
Alla psicanalisi, del resto, non è stato riservato lo stesso trattamento del razzismo: se il secondo è stato pressoché unanimemente giudicato, dagli intellettuali d’Occidente, il responsabile diretto delle tragedie che hanno accompagnato il secondo conflitto mondiale, alla prima non è stato impedito di tessere attorno alla coscienza umana una fitta rete costituita dalle più bizzarre e insidiose teorie e di produrre, così, i propri “misfatti”.

L’Europa, ormai piegata dai sensi di colpa, da una rimozione forzata della propria identità etnica e culturale, da un’opera costante di auto-dissoluzione, si condanna da sé ad una damnatio memoriae (René Magritte, “La memoria”, 1948)
La cultura europea appare fortemente condizionata dal processo di rimozione a cui si è accennato. Trovandosi costretto a rimuovere quella forma della consapevolezza che è il pensiero della razza, l’occidentale moderno ha sviluppato una vera a propria nevrosi, che si rivela in una marcata alterazione del rapporto con le altre culture e le altre razze. Egli tende a negarsi, a scomparire, oppresso dai sensi di colpa per il passato colonialista, schiavista, imperialista, etc. Immagina, svelando in ciò la situazione di turbamento della propria psiche, di poter cancellare un passato che non riconosce più (e di cui si pente a ogni istante) consegnando la propria terra, le proprie tradizioni e finanche il proprio sangue a qualsiasi straniero. L’angosciante anelito all’auto-dissoluzione gli impone la rimozione delle idee di straniero, di nemico, vale a dire delle nozioni primarie su cui si forma qualsiasi processo di identità. Non può sostenere il peso della differenza, soprattutto quando questa gli rivelerebbe una possibile, esecranda superiorità: così si trova a dover rimuovere, contro ogni evidenza sensibile, perfino l’idea che esistano delle razze differenti, trasformando in delirio la sua nevrosi.
È utile ricordare, in chiusura, che iperborei ed etiopi ha suscitato l’attenzione di uno studioso italiano, Mauro Raspanti, che, sulle pagine della rivista Razzismo & Modernità, ha ritenuto di poter indicare la collana come la “biblioteca del razzista militante” (14), in riferimento alla prospettiva ‘realistica’ delle dottrine della razza, cui sono dedicati in particolare i volumi di Freda. Poco o nulla delle nostre pur rapide e incomplete considerazioni si potrebbe rintracciare nell’articolo di Raspanti, preoccupato com’è questi di escludere che l’ipotesi di un’invasione dell’Europa da parte di altre razze possa avere una qualche plausibilità. Gli scontri razziali sono molto meno “presunti” e l’invasione meno “pretesa” di quanto Raspanti non immagini. È bene precisare, infatti, che si tratta di ipotesi che, ancora una volta, hanno attraversato il pensiero europeo da de Gobineau a Spengler.

“L’eventualità di una guerra etnica — quale esito di un processo di contrasto all’azione antitradizionale di un Occidente modernizzato — era addirittura paventata da Rene Guénon fin dal 1921”
L’eventualità di una guerra etnica — quale esito di un processo di contrasto all’azione antitradizionale di un Occidente modernizzato — era addirittura paventata da Rene Guénon fin dal 1921. Con straordinaria capacità di previsione e anticipazione, l’Autore francese aveva prospettato, tra le possibili conclusioni della crisi apertasi con l’età moderna, che l’Occidente, disancorato dalla Tradizione e abbandonato a sé stesso, «se trouverait plongé dans la pire barbarie» (15). Tuttavia, i popoli orientali, per salvare l’Occidente e scongiurare questa eventualità, «se l’assimileraient de gré ou de force […] dans sa totalité ou dans quelques-unes de ses parties composantes». Questa seconda conclusione avrebbe però comportato «une période transitoire occupée par des révolutions ethniques fort pénibles, dont il est difficile de se faire une idée […]» (16). Non si può escludere che già all’indomani della prima guerra mondiale vi fossero ambienti ‘orientali’ in cui venisse posta la questione di un’eventuale assimilazione, anche forzata, dell’Occidente. Le stesse Edizioni di Ar avevano messo in risalto, sulla fascetta che accompagnava ogni copia del testo di Alberto Lembo (17), le parole del procuratore generale presso la Corte d’Appello dell’Aquila, Bruno Tarquini. Questo magistrato indicava, nella relazione inaugurale dell’anno giudiziario 1999, come tesi da ritenere fondata, l’«invasione dell’Europa» finalizzata alla «ibridazione dei popoli e delle religioni», momento di un più ampio progetto di «dominio universale».
Si potrebbero muovere altri rilievi allo scritto del Raspanti, soprattutto per il sorprendente — stavolta sì — giudizio espresso nei confronti dell’arringa difensiva tenuta dall’avvocato Carlo Taormina (18), difensore di Freda nel processo contro il Fronte Nazionale, e che vale la pena riportare: «Nonostante le ripetute dichiarazioni [del Taormina] non-razziste e ‘liberali’ o volterriane (la difesa del diritto all’espressione di idee che non si condividono), appare evidente la condivisione dell’orizzonte categoriale e teorico con l’ideologia razzista». Un giudizio che tradisce una maggiore dimestichezza, da parte del Raspanti, con il Manuale dell’Inquisitore di Bernard Guy che con il Trattato sulla tolleranza di Voltaire.
Se dunque, sulla scorta dell’insegnamento guénoniano, si riconosce il destino di oscuramento della conoscenza, conseguente al trionfo del regno della quantità, non si può non concludere che, passando ogni possibile conoscenza di ciò che appartiene al mondo della manifestazione attraverso la forma, per gli occidentali moderni il processo di conoscenza-di-sé si può dire che sia sostanzialmente bloccato. In questa fase, la dottrina della razza di Evola, le lucide pagine di un Waldner (19) o di un Malafronte (20), fino alle evocative immagini di un Howard (21), costituiscono un terapeutico controcanto per l’anima moderna. L’intera collana iperborei ed etiopi, strutturandosi come dottrina e come exemplum di applicazione di essa attraverso l’interiore e personale riconoscimento del sigillo iperboreo, funge da autentica ascesi razziale, e si assume pertanto il compito di riannodare i fili recisi di quel γνῶϑι σεαυτόν (gnòthi seautòn) (22), di iperborea origine, che ha attraversato in differenti modi le diverse età del mondo per inabissarsi, infine, nella lunga notte del Ragna-rókr.
Note
- Si veda in proposito F. Ingravalle, “Una metafisica della forma: il ‘razzismo morfologico‘”, in G. Freda, I lupi azzurri, cit., pp. 105 ess.
- Cfr. A. de Gobineau, Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane, Edizioni di Ar, Padova 1964, passim.
- Trad. dal tedesco: “Ragion pratica” (N.d.R.).
- Cfr. E G. Freda, Platone. Lo Stato secondo giustizia, Edizioni di Ar, Padova 1996, pp. 68 e ss.
- Cfr. P. Di Vona, Metafisica e politica in Julius Evola, Edizioni di Ar Padova 2000; E Germinario, Razza del Sangue, razza dello Spirito, Bollati-Boringhieri, Torino 2001; E Cassata, A destra del Fascismo, Bollati-Boringhieri, Torino 2003.
- P. Di Vona, op. cit.,p.42.
- L’opera è del 1941; in seguito, è stata pubblicata dalle Edizioni di Ar in più occasioni, fino al 1996 (N.d.R. – come sopra preannunciato in premessa, è appena uscita per le edizioni di AR una nuova versione di “Sintesi”, di cui sia avrà modo di parlare).
- R. Guénon, Le règne de la quantité et les signes des temps, Paris, Gallimard 1945.
- Su quest’ultimo aspetto, si veda P. Di Vona, René Guénon e la metafisica, Sear, Borzano 1998, cap. XIII, e il nostro Conoscenza tradizionale e sapere profano, Edizioni di Ar, Padova 1998, pp. 136-151.
- R. Guénon, op. cit., cap. VII.
- Massimo Pacilio si riferisce alla celebre metafora utilizzata da Hegel per definire cos’è la filosofia nella Prefazione ai Lineamenti di filosofia del diritto (1820), in cui si legge la frase in tedesco sopra riportata dall’autore, la cui traduzione è “la nottola di Minerva inizia il suo volo sul far del crepuscolo“. Hegel sosteneva, in poche parole, che la filosofia è simile alla “Nottola di Minerva” (una specie di civetta, uccello sacro alla dea della sapienza), che inizia il suo volo soltanto al crepuscolo, cioè quando il sole è già tramontato, per sostenere che la filosofia sorge quando una civiltà ha ormai compiuto il suo processo di formazione e si avvia al suo declino. La filosofia non ha il compito di trasformare la società, di determinarla o guidarla, ma di spiegarla; per fare questo, occorre che la parabola del processo vitale di una civiltà stia giungendo alla fine del suo andamento discendente. La filosofia è dunque un pensiero “finale”, una riflessione “a posteriori”, tipica dell’età della decadenza: esattamente ciò che Pacilio sostiene a proposito della “dottrina della razza” (N.d.R.).
- Esiodo, Le Opere e i Giorni, vv. 182-184.
- Iliade, I, 260-272.
- M. Raspanti, «La biblioteca del razzista militante. ‘Iperborei ed Etiopi’», in Razzismo & Modernità, anno II, n. 2/2002, pp. 74-75, corsivo nostro.
- Traduz. dal francese: “si troverà precipitato nella peggiore delle barbarie“. Massimo Pacilio cita un passaggio di René Guénon da “Introduzione generale allo studio delle dottrine indù“, inserito in questa considerazione sulle sorti dell’Occidente sconsacrato: “La questione che ora si pone è questa: ammesso che ad un’epoca determinata e in seguito ad avvenimenti di non importa qual natura, s’abbia in Occidente a produrre una reazione, ed essa provochi l’abbandono di ciò di che consiste in modo esclusivo la civiltà europea, quali ne potranno essere le conseguenze? Sono possibili diversi casi, ed è opportuno prendere in esame le differenti ipotesi che vi corrispondono; la più sfavorevole è che nulla venga a prendere il posto di tale civiltà, e che, essa scomparsa, l’Occidente abbandonato a se stesso si trovi precipitato nella peggiore delle barbarie” (N.d.R.).
- R. Guénon, Introduction générale a l’étude des doctrines hindoues, Paris, Marcel Rivière 1921, pp. 332-333, corsivo nostro. — N.d.R. – prosegue la citazione di cui alla nota precedente. La traduzione delle due frasi citate è la seguente: “lo assimilino con le buone o con le cattive (…) nella sua totalità o in qualcuna delle parti che lo compongono” e “un periodo transitorio occupato da rivoluzioni etniche estremamente dolorose, di cui sarebbe difficile farsi un’idea“. L’intero passo del Guénon è il seguente, a proseguire quello citato nella nota precedente: “La seconda ipotesi è costituita da ciò: che i rappresentanti di altre civiltà, vale a dire i popoli orientali, per salvare il mondo occidentale da un simile irrimediabile decadimento, lo assimilino con le buone o con le cattive, ammessa la cosa possibile e a patto che l’Oriente vi consenta, nella sua totalità o in qualcuna delle parti che lo compongono. Pensiamo che, per quanto accecato dai pregiudizi occidentali, non vi sia chi non veda quanta sarebbe preferibile il realizzarsi di questa ipotesi a quello della precedente: è evidente che in circostanze simili si avrebbe un periodo transitorio occupato da rivoluzioni etniche estremamente dolorose, quali è ben difficile poter rappresentarsi, sennonché il risultato finale sarebbe di tal natura da compensare i danni fatalmente causati da simile catastrofe; ma in questo caso l’Occidente dovrebbe rinunciare alle proprie caratteristiche e verrebbe a trovarsi assorbito puramente e semplicemente“.
- A. Lembo, Mondialismo e resistenza etnica, cit.
- Ora in C. Taormina, Un delitto d’eresia, cit.
- S. Waldner, La deformazione della natura, cit.
- U. Malafronte, II disordine demografico, cit.
- E. Howard, L’ultimo uomo bianco, cit.
- Si tratta del celebre “Conosci te stesso” (nosce te ipsum), la massima religiosa che era iscritta sul frontone del tempio di Apollo a Delfi, patrimonio della sapienza oracolare delfica (N.d.R.).
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