Questa terza parte è la prosecuzione della I e II parte, già pubblicata nelle scorse settimane. Il titolo di questa, e della successiva IV, V e VI Parte, presenta una lieve differenza ma, trattasi del medesimo studio e del medesimo autore. La pubblicazione dello studio di G. A. Spadaro avvenne a cavallo degli anni 1971-73, partendo dalla rivista ‘Ordine Nuovo’ e poi proseguendo su ‘Civiltà’, che della prima (ormai chiusa, all’indomani dell’ingresso di Ordine Nuovo nel MSI) fu la prosecuzione. (ndr)
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(Tratto da Civiltà, Anno 1, n. 2, settembre-ottobre 1973)
di Giuseppe A. Spadaro
Eccoci così a parlare, per l’importanza che assume nello sviluppo della verità filosofica, e cioè idealistica, della «Teoria generale dello spirito come atto puro», che dà il nome alla filosofica gentiliana, meglio conosciuta come attualismo. Si è già accennato a tale teoria come alla unica rilevante variante da parte del Gentile alla filosofia hegeliana. Per Gentile, Hegel si limitò ad una dialettica del pensato, cioè della realtà pensabile, ignorando la dialettica del pensante, cioè lo sviluppo del soggetto attuale del pensiero che è l’unica realtà, poiché, fuori dell’atto pensante che lo costituisce e lo pone, niente è reale. L’atto del pensiero è quindi infinito e creatore.
In realtà questa variante, che più che ad Hegel si rifà alla prima «Dottrina della scienza» di Fichte, altera sensibilmente le valenze della filosofia hegeliana. Fichte, nella polemica post-kantiana sulla natura della cosa in sé, era intervenuto negandone l’esistenza e attribuendo Dio, la natura, gli altri io all’attività infinita dell’io pensante. La cosa in sé era risolta da Fichte nel pensiero che la pone. Per Gentile è addirittura creata dal pensiero. Hegel si limita in fondo, piuttosto prosaicamente, a dire che ciò che accade deve accadere, e accade come deve accadere, e in quanto accade è razionale. Ma non si sarebbe mai sognato di dire che il fatto è posto dal pensiero e voluto, e coincide con l’atto, è anzi atto puro, senza misura di potenza, cioè pienamente realizzato in ogni suo momento.
È qui che la lunga chiacchierata hegeliana s’ingarbuglia, nella contraddizione tra un io libero e creatore che, per essere tale, deve necessariamente realizzarsi quale individuo universale, perché soltanto in questo farsi universale consiste il suo creare. «Io penso e pensando realizzo l’individuo che è universale, ed è perciò tutto quel che dev’essere assolutamente: oltre al quale, fuori dal quale non si può cercare altro». «L’altro da non è tanto altro che non sia noi stessi», dice Gentile alludendo ad una identificazione nel tutto, o Io Universale. Nello stesso tempo, però, «la realtà dell’io trascendentale importa pure la realtà di quello empirico»; ma l’io empirico non è creatore se non in quanto si fa universale!
Così alcuni critici hanno potuto parlare dell’attualismo come misticismo e altri come solipsismo, senza centrarne ugualmente il punto di crisi, che consiste soprattutto nella mancanza di concretezza nel concepire la persona umana, della quale anzi si smarriscono le tracce tra le nebbie della logicità universale. In realtà, la libertà e creatività dello spirito (a parte la riduzione di spirito alla sola attività logica) presenta gli stessi difetti di astrattezza e di genericità del pensiero illuministico e democratico. Cioè quando si parla di libertà e di creatività dello spirito non ci si dice di quale spirito si parla, ma sia attribuiscono queste qualità all’Uomo in generale, o, nel migliore dei casi, al filosofo idealista suo gran sacerdote.
Non si vuole certamente negare le possibilità aperte ad un io superiore, sia sul piano della realizzazione interiore e veramente spirituale (dominio però assolutamente sconosciuto a certo idealismo), che sul piano politico, per spezzare l’irrazionale condizionamento dell’ananke storica[1]. Per meglio comprendere questo concetto si può fare ricorso a una dialettica dei distinti, nella direzione della profondità (cfr. Evola, «Fenomenologia dell’individuo assoluto») da sostituire alla dialettica degli opposti, di derivazione hegeliana, nella direzione dell’andare in avanti; dialettica dei distinti segnante un passaggio dal senza-forma a un grado sempre maggiore di forma (intendendo aristotelicamente tale termine nel senso dell’opposizione di forma a sub-stantia), a un grado sempre maggiore di «integrazione, di completezza, di libertà», in poche parole di incondizionato.
Ma questa via è estranea all’attualismo, che pretende di eliminare l’alterità fino a comprendere e ad assimilare il Tutto nell’atto dell’individuo pensante, e che, per esigenza dialettica, preferisce creare in seno all’io (etim. in-dividuus) un alter o socius, contrapponendo all’in-sé un per-sé (o sé oggettivato) da superare poi nell’in-sé-e-per-sé, in un «insulso autoinseguirsi»!
È stato rilevato che «la filosofia del Gentile rimane tutta inscritta nel circolo chiuso del romanticismo ed è del romanticismo stesso l’estrema, più ardita e più rigorosa espressione» (Abbagnano), o che si tratti del «più straordinario vaneggiamento dello spirito umano illuso di poter emulare e raggiungere la potenza di Dio» (Ottaviano). È stato pure rilevato come agli epigoni italiani dell’idealismo manchi «la genialità, l’inventiva, l’empito creativo, lo sforzo possente ad abbracciare articolatamente la molteplice varietà della realtà e della materia del’esperienza dei primi idealisti», e che in essi tutto si riduce a un «portare all’assurdo le esigenze originarie col gioco di bussolotti di una dialettica artefatta composta da un paio di scarne categorie» (Evola). Invece è proprio la teoria dell’Atto puro che ha fatto parlare i gentiliani, e quanti del Gentile ammirano il rigore logico senza accettarne il contenuto speculativo, di una ricostruzione dell’unità e dell’organicità del pensiero logico, nonché di un volontarismo che lo distinguerebbe e dallo storicismo assoluto del Croce, sviluppante il principio hegeliano dell’identità di razionale e reale (che peraltro il Croce smentì con la mancata accettazione del fenomeno fascistico, così come lo smentì il Gentile aderendo alla RSI dei disperati dopo il 25 luglio del ’43) e dallo hegelismo, togliendogli quel carattere di filosofia del fatto compiuto e quel tanto di determinismo che non può essere estraneo ad ogni monismo e ad ogni filosofia dell’immanenza. E non vedono che qui tutto si riduce a tronfia retorica, compiacentesi di termini magniloquenti e di attributi per nulla pertinenti alla natura del vero io. Termini e retorica che snaturano le stesse esigenze di partenza del primo idealismo, portandolo a un vero e proprio collasso speculativo.
Qui conviene la sciare la parola a J. Evola che, essendosi interessato nel suo periodo speculativo alla problematica dell’idealismo, studiandolo direttamente sui testi originari dei suoi grandi maestri, muove un’acuta critica agli epigoni italiani di esso: «In certo modo la posizione dell’idealismo si riassume nella formula di Berkeley: esse est percipi, ossia che l’unico essere di cui io possa concretamente e sensatamente parlare è quello che corrisponde ad una mia percezione, ad un mio pensiero o ad una mia rappresentazione. Di ogni altro essere non so nulla, epperò è come se esso non esistesse. (…) Gli idealisti assoluti a questo atto hanno dato il carattere di un porre. Se Schopenhauer aveva detto (sulle orme di Kant): “il mondo è la mia rappresentazione”, costoro (sulle orme di Fichte) dicevano: il mondo è la mia posizione, mentre gli epigoni parlarono addirittura di creazione (…). Ma ad un pensiero sufficientemente rigoroso (e onesto) era facile scoprire la crepa profonda di tutto questo sistema. Si è che un conto è affermare che “il mondo è la mia rappresentazione”, la mia esperienza, il mio pensiero, un altro è dire: il mondo è la mia posizione, o creazione».
La critica evoliana all’attualismo si può così riassumere. L’io non si definisce tanto in termini di pensiero, o come soggetto gnoseologico, quanto di libertà, di azione e di volontà. E ad una analisi realistica appare evidente che a carico di questa creatività dell’io sono ascrivibili i caratteri di non-intenzionalità, non-prevedibilità, e di contingenza, perché nessun filosofo idealista potrà prevedere ciò che gli accadrà o ciò che farà, né tantomeno affermare che nella sua intenzione rientrasse tutto l’accaduto e il fatto; cosicché ci si dovrà spiegare «se quel, che accade lo si dice reale perché voluto (epperò reale nella sola misura in cui può dirsi davvero voluto, per il resto rimanendo non reale quale correlativo ad una privazione della volontà), ovvero se lo si dice voluto (come fatto dell’atto, come posto, ecc.) solo perché reale, ossia pel semplice e irrazionale fatto del suo esserci o accadere».
A spiegare questo interviene la teoria gentiliana della volontà concreta nella cui storicità il reale e il voluto, il fatto e l’atto coincidono. Ciò che io non voglio in quanto soggetto empirico e volontà astratta lo voglio in quanto soggetto universale la cui volontà concreta è atto puro. Il risultato è che, per poter riferire all’Io trascendentale tutto ciò che accade, sono condannato a riconoscere come mio e voluto da me anche ciò che meno voglio o che semplicemente subisco.
L’idealista «chiama essere il suo non essere, chiama reale ciò che, essendo privazione della sua potenza, dovrebbe dire invece irreale». Per concludere, ascrivere la natura e l’esperienza sensibile a creazione dell’io è possibile soltanto «in quanto si riduce l’io stesso a natura, cioè in quanto di quell’Io, che è libertà, non si sa nulla o, meglio, si fa come se non si sapesse nulla, e con un evidente paralogismo si identifica il concetto dell’Io con quello del principio di spontaneità, che è poi quello della natura».
A questo punto parlare di volontarismo, di una differenziazione dalle posizioni dello storicismo assoluto del Croce, di un superamento dello hegelismo, appare almeno fuori luogo. Il bilancio dell’attualismo si chiude in netta passività. Il determinismo immanentistico dal pensato investe senza scampo il pensante. La filosofia del fatto compiuto resta tale con l’aggravante di una astratta sufficienza che non fa riconoscere come negativo ciò che, per essere una privazione di potenza, non può che costituire un non-valore per l’individuo.
Né ci si venga a dire che l’ultimo Gentile ha dei toni inconsueti che lasciano presagire chissà quali sviluppi, se ancora in «Genesi e struttura della società» si può leggere: «… vale come pensiero universale che Tizio pensa, ma non è nel particolare Tizio, figlio d’Eva e, come tutti i suoi fratelli mortale; ma è pensiero assoluto, che dove splenda attira lo sguardo di tutti i veggenti. (…) La verità allora non è verità per quel certo contenuto che a volta a volta essa ha; qualunque ne sia il contenuto essa ha certa forma per cui nell’atto del pensarla il pensiero non può pensarla che universalmente vera: cioè tale che il pensiero, nel formulare quel giudizio determinato e particolare, non possa giudicare diversamente da come giudica».
Il cerchio si chiude. Il fatto è posto dal pensiero e voluto di atto puro. Nell’unicità e interiorità dell’atto pensante e voluto nel momento concreto dello spirito, si risolve ogni alterità e coattività. Ma nell’atto del pensare e del volere il pensiero «non può giudicare diversamente da come giudica»!
In verità il pensiero gentiliano, più che ricostruire l’unicità e l’organicità del pensiero logico, rimane prigioniero di questa costruzione dialettica che è l’atto puro, fino a perdere ogni contatto con la realtà. Così in pedagogia, in filosofia del diritto, in politica. «Altro da noi non c’é se noi ne parliamo e lo conosciamo» afferma Gentile. Con quest’atto di conoscenza discorsiva l’io supera e annulla l’alterità. L’errore, il male, il dolore sono soltanto momenti superato dallo spirito, sono posizioni già oltrepassate. L’alterità di docente e discente viene superata ed annullata nell’atto educativo. L’ignoranza scompare nel momento in cui si conosce e se ne prende atto. La morte stessa non esiste dal momento che con essa l’io cessa di esistere in quanto individualità e autocoscienza (col Giusti: «quando verrà lei me ne andrò io!»).
«Si prenda qualunque errore e si dimostri bene che è tale – dice Gentile – e si vedrà che non ci sarà mai nessuno che voglia assumerne la paternità e sostenerlo. L’errore, cioè, è errore in quanto è superato: in quanto in altri termini sta dirimpetto al concetto nostro come suo non essere». Ma c’è di più: l’errore è anche posto e voluto dall’io per oggettivarsi e «vincere l’opposizione dell’oggetto, che è sempre opposizione tra sé e sé, e risolvere nell’unità di sé ogni contrasto. Perché le difficoltà (…) in cui il pensatore s’imbatte, non avrebbero voce e non gli si farebbero avvertire col pungolo stimolante (…) se questa voce non fosse prestata loro da lui stesso».
Così la critica dell’individualismo, l’esigenza di risolvere in interiore homine la società e lo Stato, lungi dall’approdare a una sana concezione organica che assuma integralmente l’uomo come microcosmo per tendere analogicamente oltre l’uomo, sfocia invece nella impossibilità di una società inter homines, nella negazione puramente mentale ed astratta dell’alterità. Una società di uomini, cioè di esseri finiti e legati tra loro e al mondo che li ospita da bisogni e da esigenze di varia natura, è per Gentile addirittura un assurdo.
Note:
[1] Ananke, in greco antico Ἀνάγκη, è la dea greca che rappresenta la personificazione o potenza del destino, della necessità ineluttabile e del fato, soprattutto nell’ambito dei misteri orfici. Quindi l’espressione “ananke storica” usata nel testo va intesa come “necessità storica”, una sorta di fato ineluttabile sotteso al divenire storico, un destino paralizzante, che rappresenta un irrazionale condizionamento da superare, come sottolineato dall’autore, mediante una dialettica verticale dei distinti che permetta di approdare al vero incondizionato, alla libertà dell’agire impersonale quale prospettata da Evola, nell’ottica del suo idealismo “magico”, del tutto in antitesi con quello hegeliano e, ancor più, con quello gentiliano. Lo storicismo di matrice idealistica, d’altronde, appare nascondere (perlomeno secondo l’interpretazione che ne viene normalmente fornita) proprio questa sorta di ineluttabilità di fondo, che dovrebbe essere definitivamente superata (N.d.c.).
'Dall’idealismo al relativismo. Gentile e il fascismo (III parte)' has no comments
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