(Tratto da Civiltà, Anno 1, n. 2, settembre-ottobre 1973)
di Giuseppe A. Spadaro
Il cerchio si chiude. Il fatto è posto dal pensiero e voluto; è quindi atto puro. Nell’unicità e interiorità dell’atto pensante e volente, momento concreto dello Spirito, si risolve ogni alterità e coattività. Ma nell’atto del pensare e del volere il pensiero «non può giudicare diversamente da come gli indica».
La coattività della legge non è che un momento oggettivato dell’io. «La positività del diritto è superata nell’atto concreto del volere che nega il diritto e agisce moralmente come libertà assoluta. (…) Superata la positività del diritto, il diritto stesso è risoluto nella morale».
Qui si prescinde da chi, materialmente, pone il diritto. O, meglio, «come il diritto positivo è negato nell’attualità dell’azione etica, così ogni opposizione di Governo e governati cade nel consenso di costoro, senza del quale il governo non si regge». Eccoci quindi alla teoria gentiliana della libertà. Niente di speciale: autorità e libertà coincidono e si risolvono anch’esse nell’unità di volente e voluto. «Questa dottrina pare che faccia inghiottire dallo Stato l’individuo; e che nell’autorità faccia assorbire senza residuo la libertà che ad ogni autorità dovrebbe contrapporsi come suo limite (…). Ma si può anche dire l’opposto – dice Gentile – che cioè in questo Stato che, in concreto, è la stessa volontà dell’individuo in quanto universale ed assoluto, l’individuo inghiotta lo Stato; e che l’autorità (la legittima autorità) non potendo essere espressa d’altronde che dall’attualità del volere attuale, si risolve essa senza residuo nella libertà».
Se confrontata con la scarna formula mussoliniana, quanto più onesta, più realistica, più incisiva ci appare quest’ultima: «La libertà non è un diritto, è un dovere; non è una elargizione, è una conquista; non è una uguaglianza, è un privilegio!». In poche parole senza retorica né funambolismi, è sintetizzata la vera essenza di una libertà differenziata e gerarchizzata, ben diversa da quella generalizzante di una filosofia dell’identità, che dissolve nella nebulosa del pensiero universale il significato della vera personalità e distrugge i presupposti di ogni autentica gerarchia e di ogni stabile autorità, eliminando l’ordine dei principî assoluti, liberi dal tempo e dal divenire, che ne sono il fondamento, per sostituirli con l’idea della relatività delle verità, da Léon Daudet già catalogata fra le 22 asinerie del sinistrismo demo-massonico!
E poiché il presente saggio non vuole essere una critica dell’attualismo, che è stata già fatta e da fonti più autorevoli, ma una verifica che vuole sfatare una notevolissima confusione, vale la pena di rilevare a quali conseguenze porta questa mistica della logica universale, in sede di Filosofia del diritto ed in particolare riguardo alla teoria dello Stato etico. Relativamente a questo, sempre gl’idealisti hanno dovuto difendersi dall’accusa di confondere il fatto col valore e di conferire eticità allo Stato in quanto tale. «La questione della molteplicità degli Stati è analoga, anzi identica, a quella della molteplicità degli individui. Che sono molti soltanto se considerato dal di fuori», dice il Gentile, e aggiunge: «unico è l’individuo perché libero, e perciò infinito. Unico lo Stato perché individuo concreto ed assoluto (…). Lo Stato, in quanto l’Unico, è divino, senza dubbio». Se lo Stato in quanto tale è etico, tutti gli Stati sono etici, è stato detto. In particolare i cattolici, ribadendo la vecchia tesi guelfa, hanno accusato l’idealismo di aberrazione statolatra, e a proposito dello Stato fonte dell’etica hanno chiesto: quale etica? In verità l’idealismo non può eludere il dilemma: o lo Stato è etico in quanto tale, e allora tutti gli Stati sono etici e, con riguardo ai diversi ordinamenti costituzionali e orientamenti politici, si può parlare di un relativismo nello spazio («cuius regio eius religio»!); o si attua una discriminazione tra gli Stati in base a un criterio di giudizio, che per gli idealisti è sempre la storicità di cui è incarnazione uno Stato-guida in quanto portatore della Kultur, e allora si può parlare di un relativismo nel tempo.
Quale etica? «Evidentemente quella di un volere che, essendo qualificato dall’universale è sempre etico» rispondeva il Battaglia, un idealista passato dal sostenere «la fede nello Stato, che sì baldanzosa e sicura lo ispirava» nel 1939, alla esigenza di «garantire le formazioni autonomiche, le ragioni stesse dell’individuo nello Stato». Ma sia prima che dopo il Battaglia sosteneva la coincidenza di Stato etico e Stato di diritto, nonché la personalità giuridica dello Stato, di reminiscenza contrattualista, mentre il Costamagna ammoniva che «occorre ben fissare che la personalità dello Stato ha valore integrale e totalitario; intendendo così prima di tutto affermare che la reale esistenza dello Stato stesso ha valore metagiuridico» («Storia e dottrina del fascismo», 1938). Quel che qui importa rilevare è che, scava e scava, la logica dell’idealismo non può trovare il criterio dell’eticità che in concetti generalizzanti e collettivizzanti quali la storicità, la socialità, la universalità, la volontà generale, il consensus gentium, la vox populi, o in quel fantoccio che è lo Stato di diritto. «Si tratta dell’equivoco di chi crede di poter riferire il carattere della spiritualità e di fine morale a certe esigenze materiali non appena esse non sono più individuali ma collettive, generali. E’ così che per es., collegando la nozione di diritto ai fini di un benessere non più individuale, ma soprattutto comune e sociale, si pensa di averle fornito una base etica ed una superiore giustificazione, laddove si tratta semplicemente di uno spostamento di piano» (Evola, «Per una nuova scienza dello Stato»).
A questa logica giusnaturalistica non sfugge certo il Gentile, che nel suo misticismo panlogistico dissolve ogni alterità e determinatezza, quasi in un «inconscio collettivo» freudiano in cui al posto della libido sta la ratio universale. Questo è infatti il sugo di tutto l’attualismo: l’identificazione nel tutto logico, o Pensiero universale, in una inerte e quasi animale spontaneità. Ciò traspare anche da particolari che potrebbero sembrare secondari e non lo sono. Si confronti ad esempio quanto Gentile ha scritto sul genio politico. Genio politico non è per Gentile colui che ha sottomesso la natura in sé e negli altri, colui che per avere la legge dentro di sé la impone agli altri, colui che, secondo la nota precisazione di Richelieu, rende possibile ciò che è necessario. Genio politico «non è, come tutti sanno, arte, ma natura: non è frutto di riflessione, di disciplina e dottrina, ma certa divina ispirazione, Deus in nobis, quella sorta di natura dello spirito e nello spirito che è il sentire (…). Ci sarà il ragionamento e l’attenta osservazione dei fatti (…), ma tutto ciò che sarebbe un nulla se non fosse messo a profitto da un artefice ascoso, che ha l’intuitività e la spontaneità naturale del senso», problematica definizione!
Il pensiero gentiliano resta dunque fino alla fine immanentisticamente teso verso l’identificazione col divenire universale, col farsi dello spirito, che è quanto dire: il progresso. Il suo genio politico è in realtà un demagogo, che asseconda l’iter della storia e ne approfitta. L’immortalità è intesa, con una trasposizione concretizzante dell’«illusione» foscoliana, come sopravvivenza nel pensiero degli altri, in quella società trascendentale del Pensiero universale, che «è anche il mondo del bene e della verità; là dove l’anima si riposa come nell’infinito, in cui, al dire del Poeta, naufragare è dolce».
E infine: « (…) Quid est veritas? L’intolleranza è immorale non perché l’umana intelligenza non sia in grado di rispondere a questa gran domanda. Ché anzi essa vi risponde sempre; e tutta la sua vita è una incessante risposta. Ma questo non vuol dire che la verità sia formulabile in una proposizione dommatica definitiva una volta per sempre con diritto al corso forzoso. La verità è nel pensiero umano; ma conforme alla natura di questo; senza di che questo non potrebbe contenerla. Perché esso è movimento, sviluppo, processo; ma nulla di immediato. Se si vuole che il bambino intenda (…) dobbiamo aver pazienza: egli intende poco ora (…). E il mondo umano è pieno di fanciulli (…). E chi non ha pazienza e si sdegna degli spropositi che sente intorno a sé e non vuol turarsi gli orecchi, menerà la mazza intorno; ma con qual frutto? La verità così non si insegna, non si diffonde; quel regno dello spirito che si vorrebbe pur costruire, rimane sempre un desiderio fallito (…). I bambini non sono ancora grandi, ma diverranno: perciò Gesù li chiamava intorno a sé per far loro credito: sinite pargulos venire ad me». («Genesi e struttura della società»: «La tolleranza»). Questo brano di sapore massonico, così pieno di attendismo e di quietismo, nonché di ottimistica fiducia progressista (in un mondo umano fanciullo che diverrà adulto …), così distante dall’atteggiamento di un filosofo che non voleva «stare alla finestra», ma essere «un filosofo nella mischia», come amava definirsi il Gentile, testimonia soltanto di un momento di stanchezza e di debolezza, nel vedere il mondo che amava e in cui aveva creduto crollargli attorno, o non scaturiva forse, al di là delle scelte esistenziali, dalla sua filosofia di fondo, che la mano incosciente di un fanatico veniva ad avallare e ad identificare con la scelta che l’uomo aveva fatto nella mischia?
Ognuno sa che il Gentile aderì al Fascismo perché vi vide l’espressione della razionalità assoluta, il superamento e l’inveramento di liberalismo e socialismo, l’essenza dell’attualità e della storicità, concetti tutti che, se possono far piacere a qualche superficiale, vengono a cadere quando la stella del fascismo tramonta e altre stelle prendono il suo posto nel firmamento della storicità; quando cioè si assiste al trionfo mondiale della democrazia e, chissà, del socialismo; trionfo che, in base alla coincidenza del fatto con l’atto, in quanto posto dal pensiero e voluto, sarebbe vero, bello, giusto, positivo perché «l’errore è errore in quanto è superato».
Ci si permetta di ritornare su quest’ultimo concetto, in quanto Gentile vi insiste, in una esplicazione che è una conferma, nell’ultimo suo libro. «Chi si ribella a questa assegnazione del male all’inattualità dello spirito, crede che per questa via si venga a negare quella consistenza del male che è presente, e perché tale interesse sia combattuto; laddove la tesi della inattualità del male importa che tutto ciò che è attuale è bene». Ci si potrebbe accusare di disonestà se chiudessimo qui la citazione, e così proseguiamo: «Ma le obiezioni di questo genere derivano sempre da disordinata analisi dell’esperienza (…). Quando si constata la consistenza attuale del male, l’individuo che constata non guarda alla propria attualità morale bensì a quella degli altri e si mette perciò sul terreno di quella molteplicità degli individui (…). Se si corregge codesto insufficiente e provvisorio punto di vista, si può osservare che non è punto vero che il male altrui è solo degli altri e non è anche nostro. Il cardinal Federigo sente la responsabilità dei traviamenti orribili dell’Innominato; e Gandhi fu educato dal padre ad assumersi l’espiazione delle colpe dei figli e degli alunni. Gli altri non sono assolutamente altri, sono prossimo nostro, noi stessi». E fin qui il solito misticismo collettivizzante di cui si è già parlato. «Analoghe considerazioni occorrono per il male che storicamente va collocato nel passato, e che certamente deve esservi veduto come male, meritevole di riprovazione e condanna. Ma lo storico non è degno di questo nome, se si ferma a questa prima condanna (…). Lo storico deve andare oltre. Deve comprendere quel male: donde esso abbia tratto origine, e quali ragioni avesse, onde gli riuscì di attuarsi; (…) e come nello svolgimento dello spirito umano ebbe la sua necessità, e fu perciò, esso stesso, anello della catena onde si conchiuse il bene del periodo storico, che si costruisce come un ciclo atto a dimostrare la razionalità del processo storico. Infine, se il vero soggetto storico non è il particolare, ma l’universale, ecco che il male viene respinto dall’esistente nell’inattuale».
A questo punto si deve, non tanto richiamare ad una scelta coerente gli attualisti (ché anzi siamo sempre lieti di constatare la prevalenza di ciò che è originario e profondo su ciò che è semplicemente mentale e culturale), quanto analizzare a quali sviluppi porta in base alla sua logica interna, non solo l’attualismo ma tutto l’idealismo assoluto. Si è già accennato alle tesi statalizzatrici a fondo economicistico del pancorporativismo e della corporazione proprietaria lanciate da U. Spirito e Volpicelli, discepoli di Gentile, al convegno di Ferrara. Esse non erano, come si può pensare, il frutto di un’interpretazione avventata e personale del corporativismo, ma lo sviluppo delle premesse collettivizzanti e storicizzanti insite nel pensiero gentiliano. E non fu, del resto, lo stesso Gentile che nel suo «Discorso agli Italiani» del ’43 disse: «Chi oggi parla di comunismo in Italia è un corporativista impaziente nelle more necessarie dello sviluppo, ecc. ecc.», da cui sembrerebbe che lo sbocco ultimo del corporativismo dovesse essere (addirittura!) il comunismo?
L’adesione al fascismo da parte del Gentile non deriva necessariamente dalla sua filosofia, bensì dalla sua equazione personale, potendo l’attualismo, come ha rilevato J. Evola, «sanzionare in eguale misura le idee più opposte», per cui, ad es., Guido De Ruggero, convinto attualista, rimane fino all’ultimo antifascista e liberale. In breve l’attualismo non fece, durante il Ventennio, che divulgare una interpretazione storicistico-sociale del fascismo, su basi patriottico-risorgimentali, in netta antitesi con quella aristocratico-qualitativa e autenticamente spiritualistica che gli è propria, ad avallare nel solco della storia (cioè delle opinioni e del costume già in atto), le componenti più problematiche di esso, quali lo statalismo centralizzatore e moralizzatore etichettato di Stato etico, e il populismo (per il momento nazionalistico) che sboccherà nella formula speciosa dell’Umanesimo del lavoro e di Stato Nazionale del Lavoro.
'Dall’idealismo al relativismo. Gentile e il fascismo (IV parte)' has no comments
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