Dall’idealismo al relativismo. Gentile e il fascismo (V parte)

(Tratto da Civiltà, Anno 1, n. 2,  settembre-ottobre 1973)

di Giuseppe A. Spadaro

(Continua da IV parte)

 

«Bisognava che si riconoscesse anche al lavoratore l’alta dignità che l’uomo pensando aveva scoperto nel pensiero. Bisognava che pensatori scienziati ed artisti si abbracciassero coi lavoratori in questa coscienza della umana universale dignità». Lasciamo a Primo Siena il compito di commentare l’assunto dell’umanesimo del lavoro; al nostro Siena che, per l’ammirazione verso l’uomo Gentile, è fin troppo tenero verso l’attualismo, di cui notoriamente «non sposa la speculazione» e «non raccoglie le suggestioni». Scrive Siena in «Giovanni Gentile, filosofo, lungo la strada per Damasco»:

«Ma per quanto suggestivo sia apparso e possa apparire l’auspicato avvento dell’umanesimo del lavoro (…), le remore idealistiche restano evidenti. (…) Qui affiora – e forse inconsapevolmente – la sottile intimazione psicologica d’uno dei feticci del nostro tempo; quella che pretende di ridurre anche le attività eminentemente intellettuali a lavoro inteso comunemente come lavoro utile; intimazione che trasforma la vita dell’uomo in quella di estrema tensione di forze attive che Josef Pieper ha giustamente considerato quale disposizione cieca e incondizionata alla sofferenza, in contrasto con la misura di silenzioso raccoglimento espresso dall’ide classica, romana dell’otium. (…) L’umanesimo del lavoro ci sembra insufficiente reazione alla degradazione d’ogni attività umana a semplice attività di lavoro come fatica e funzione sociale. Per nobili che siano i suoi scopi l’umanesimo del lavoro non dissolve, con i richiami alla dimensione dell’humanum, l’equivocità della quale è impregnato, poiché esso ci appare tuttora incapace di ascendere e nobilitarsi al livello del valore autenticamente culturale dell’otium».

Il quarto statoA questo commento c’è poco da aggiungere, soprattutto laddove Siena suggerisce di «elevare la degradata e degradante considerazione moderna del lavoro a forma di azione, se si vuol veramente bloccare la tendenza ad abbassare ogni forma di azione in lavoro». Senonché in Gentile il concetto di umanesimo del lavoro va ben oltre l’esigenza, sottolineata da Siena, di recuperare alla dimensione umana il lavoro, se procede da una concezione bottegaia e mercantilistica della vita e dell’uomo, propria della Rivoluzione del Terzo Stato: quella secondo cui «l’uomo reale, che conta, è l’uomo che lavora, e secondo il suo lavoro vale quello che vale». In effetti Gentile rovescia la tradizionale gerarchia di valori, per la quale non ogni attività umana è riducibile al lavoro (lat.: laborare = soffrire), e l’uomo vale per quel che è, non per quel che fa, potendosi al limite svolgere un’attività servile o produttiva senza restarne menomati, per sentire eventualmente, nel nucleo centrale del proprio essere, una diversa vocazione ed una diversa dignità. Per Gentile «il valore è il lavoro, e secondo il suo lavoro qualitativamente e quantitativamente differenziato l’uomo vale quel che vale»: e in base all’equazione pensare = volere = fare, nel sacro nome del Pensiero Universale viene riconosciuta uguale dignità ad ogni tipo di attività materiale o mentale.

In queste affermazioni Gentile è, più che mai, figlio delle varie rivoluzioni. Vana risulta quindi la differenziazione operata da Siena tra azione e opus servile, perché estranea alla preoccupazione di Gentile, che è quella di riconoscere storicisticamente le posizioni raggiunte dalle rivoluzioni borghese e proletaria per superarle e inverarle in una sintesi che sarebbe «il compito del nostro secolo»: quel nuovo umanesimo che stranamente ha la stessa denominazione dell’umanesimo marxista, nello stesso quadro della divinizzazione del lavoro, della produzione e del progresso, con l’unica variante della differenziazione qualitativa e quantitativa, in cui consisterebbe la sua attualità e concretezza. Basta saper leggere per rendersi conto del trapasso dialettico dalla ideologia della terza casta a quella della quarta:

«… sorge la borghesia. Di fronte alle classi privilegiate (…), sorge questa nuova classe che scalzerà le altre e vorrà essere tutto; la classe degli uomini senza passato e senza investitura, figli di sé stessi, e forti della forza che essi stessi vengono di fatto dimostrando col lavoro e ogni altra sorta di attività personale, nell’industria creatrice dei beni di cui tutti han bisogno per vivere. Questa classe raccoglie in verità tutti gli uomini che siano degni di questo nome nello Stato moderno, in cui l’uomo (il principe) vale quanto sa e può, e perciò quanto è capace di produrre e mettere di suo nel mondo (…). La rivoluzione francese (…) è l’affermarsi del terzo Stato, ossia della borghesia che a un certo punto nel suo sviluppo si sveglia, sente che il Principe di contro ad essa è puro arbitrio, e gli sorge di fronte per limitarlo alla funzione di organo esecutore della propria volontà. Che d’ora innanzi si presumerà possa manifestarsi attraverso la rappresentanza nazionale. (…) Sorse il socialismo e il comunismo; e lo Stato liberale, lo Stato della borghesia cominciò ad essere scrollato come Stato incapace a garantire la libertà della maggioranza dei cittadini, che è costituita dalla massa dei lavoratori. (…) Nessun dubbio che i moti sociali e i paralleli moti socialistici del sec. XIX abbiano creato questo nuovo umanesimo la cui instaurazione come attualità e concretezza politica è l’opera e il compito del nostro secolo».

A questa aberrante interpretazione del fascismo dà la mano Ugo Spirito, il vero erede e continuatore dell’idealismo gentiliano, con la sua definizione di comunismo gerarchico che, nella sua apparente contraddittorietà, è la formula più appropriata per l’umanesimo del lavoro. E se si vuole prendere il gusto di approfondire a quali sviluppi porta la logica del pensiero gentiliano, ci si può limitare, senza per questo scomodare il Gentile stesso, a seguire, per la loro emblematicità, gli sviluppi alquanto travagliati del pensiero spiritiano.

trovaimgIn Ugo Spirito la definizione comunismo gerarchico in realtà preludeva, sul piano politico, all’adesione al comunismo, come surrogato di quella metafisica e di quell’assoluto prima trovato nella concretezza e storicità del Pensiero universale. Quanto è accaduto con Ugo Spirito nei riguardi dell’attualismo non è, del resto, che la ripetizione di ciò che era accaduto con Carlo Marx nei riguardi dell’idealismo hegeliano. Soltanto, nel pensiero spiritiano manca quella coesione tra scelta politica e posizione speculativa, la quale ultima vaga tra le ipotesi della ratio individuale tesa ad assimilare immanentisticamente in sé stessa tutta la verità. Così dal problematicismo, «conclusione dell’impossibilità di concludere», egli approda all’onnicentrismo, che nella pretesa di smentire il primo arriva alla conclusione che «ogni parola esprime la verità perché esprime tutto il mondo in una centralità libera e originale». L’onnicentrismo non fa che spostare il relativismo storicistico gentiliano su un piano di contemporaneità. Dalla negazione assoluta all’affermazione totale il pensiero spiritiano non fa però che sviluppare quella filosofia dell’identità che sopprime, in effetti, l’individuo nella oggettività dello Spirito universale, in cui l’errore stesso è posto dall’individuo per superarlo. Ecco che la sostituzione spiritiana dei giudizi di fatto ai giudizi di valore e dello sforzo di comprendere alla volontà di giudicare porta a ricondurre esistenzialmente l’individuo all’universale («vale come pensiero universale che Tizio pensa»!), la persona al tutto sociale e naturale, in una specie di oggettivazione che ha l’impersonalità del procedimento scientifico.

Così il relativismo idealistico, abolendo l’esistenza stessa del male o della negatività e invalidando nello stesso tempo ogni reale differenza tra bene e male, tra verità ed errore, arriva con Ugo Spirito all’impossibilità di esprimere un giudizio di valore, all’impossibilità addirittura di definire che cosa sia valore, e ad assumere nei confronti dell’uomo e della sua realtà «lo stesso atteggiamento che lo scienziato assume di fronte al mondo della natura». La logica deterministica dell’immanentismo non poteva avere altro sviluppo; ed è proprio nell’oggettività e nella spersonalizzazione del procedimento scientifico che il pensiero spiritiano ritrova quell’assoluto e quella metafisica che aveva perduto con la caduta dell’attualismo e di ciò in cui, storicamente, col suo Maestro, l’attualismo si era identificato. Il lungo travaglio apparentemente si placa nel nuovo dogma: «il regime politico di una società informata alla scienza non può essere che quello comunista»!

primo-siena-gentileE infine (non sia per volere infierire contro una filosofia che non ha più niente da dire e che, in dispregio alla sua pretesa di attualità, è del tutto tagliata fuori dalle moderne correnti del pensiero) bisogna, per concludere, accennare all’incapacità dell’attualismo a spiegare i fenomeni extranormali, sbrigativamente negati come superstizione e pensiero acritico, e a contrastare validamente le moderne aberrazioni dell’evoluzionismo e della psicanalisi che, anche quando non costituiscono una ragionata convinzione, e pur essendo state superate dalla più recente scienza, vengono quasi inconsapevolmente assorbite dall’ambiente e dall’opinione corrente, senza che si trovi nel pensiero cosiddetto laico o profano alcuna difesa. Se l’opinione che l’uomo ha di sé stesso e del mondo non manca di informare il suo comportamento, non può essere senza conseguenze (e soprattutto non può non influire sulla fermezza esistenziale di chi abbracci le nostre istanze politiche) credere che l’uomo abbia origini animali, alla stregua della più evoluta specie animale differenziatasi per selezione naturale, o che sia normalmente succube di istinti primordiali e del demone della sessualità.

Alla luce di quanto detto precedentemente, appare chiaro ad ogni spirito appena appena conseguente che l’idealismo storicistico, non solo si trova senza difesa nei confronti dell’evoluzionismo (il che sarebbe il meno!) ma, mentre ne costituisce la premessa nella storia della filosofia, non fa implicitamente che avallare il mito di un bestione originario che prende gradualmente coscienza di sé evolvendosi nel senso si un progresso necessario e sempre perfetto in ogni suo momento.

Del resto, ancora una volta è preferibile ricorrere alla testimonianza diretta, spigolando dall’ultimo libro del Gentile gli accenni utili:

«E quella soltanto è la via per cui l’animale, ossia l’uomo quale sarebbe nella immediatezza del suo essere, entra nell’umanità e non è più uno ma socio», dice Gentile per spiegare l’origine della prima società in interiore homine. «E prima di questa società che è la civiltà e tutta la storia dell’uomo, che cosa c’è? C’è la natura? E in essa l’uomo primitivo e selvaggio che sarà poi l’elemento produttivo della società? La fantasia naturalizzante torna sempre a questo mito, di una natura preumana (e di un uomo, in essa, non ancora uomo); e chi pur sa che soltanto l’uomo è storia, fantastica di una storia naturale e preistorica. La verità è che prima di questa società trascendentale non è concepibile uomo che non sia astratto oggetto immediato. (…) Se ci si vuol provare con l’immaginazione a preporre alla sintesi un universo naturale, questo universo non è immaginabile altrimenti che come un virtuale essere amorfo, il quale deve entrare in crisi e riscuotersi e svegliarsi come senso di sé. Il gran dormiente, finché non si svegli, non solo s’ignora, ma non esiste. Per esistere deve svegliarsi; (…) in realtà il tutto viene ad essere appunto in quell’istante in cui si sveglia ed è quello che soltanto si può essere: senso di sé, autocoscienza creatrice».

Ancor più nei confronti della psicanalisi freudiana l’idealismo è disarmato per la mancanza di una adeguata conoscenza della natura dell’io reale e della personalità, che non si riduce a due componenti soltanto come dal Cristianesimo in poi si è creduto[1], ma è molto più complessa e imprevedibile di quanto ogni razionalismo presuma. Così non può valere che come una vuota esercitazione accademica quell’artificiosa costruzione che è l’alter ego gentiliano, impossibile ad identificare con qualcosa di reale ed esistente e neppure tale da assimilare all’es contrapposto all’ich della teoria freudiana.

Nei confronti di questa autentiche aberrazioni in cui si è degradata la concezione che l’uomo contemporaneo ha di sé stesso, va rivendicata la fondamentale dignità della persona umana al di là di ogni concezione biologistica, e la necessità di una continua presenza a sé, di una centralità e di una sovranità da tenere deste contro l’invadenza della sfera notturna e sotterranea del proprio essere. A questo fine, vale la pena ripeterlo, l’attualismo non è solo inadeguato, ma procede in altra direzione: nella direzione dei un farsi dello spirito, da un meno ad un più di autocoscienza, pretendendo di vedere nell’attuale stato dell’umanità il meglio espresso da tutta la storia dell’uomo. Nel fermentare più putrido e vermicolante del kali-yuga!

 

 Note: 

[1] N.d.R. – In realtà nel Cristianesimo medievale, intriso di elementi sapienziali tradizionali, la persistenza di una diversificazione tra ragione/anima e spirito era ancora presente, per poi perdersi definitivamente col passare dei secoli, conformemente al processo di necessaria “semplificazione” (alla luce della funzione soteriologica del Cristianesimo, come forma spirituale salvifica per l’uomo decaduto di fine ciclo) e, parallelamente, di decadenza che la dottrina cristiana avrebbe progressivamente subito. Citiamo al riguardo quanto esposto da Paolo Vicentini nell’articolo Intelletto e ragione negli antichi e in Kant, rinvenibile su http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=20021:

“La difficoltà nel comprendere l’origine e la dimensione sovraindividuale, e non puramente discorsiva, della saggezza antica è spesso generata dall’evoluzione semantica subita in Occidente dal termine “ragione”. Se nell’antichità greca e romana la parola “ragione” (logos, ratio) racchiudeva in sé sia l’aspetto individuale, mediato, discorsivo e calcolante (dianoia), della conoscenza umana che quello sovraindividuale o divino, immediato, intuitivo e unitivo (nous), potendo così esser usata in senso traslato per indicare la Ragione propria di Dio; se Agostino aveva ancora cura di distinguere la ratio superior (o mens) dalla ratio inferior (o cogitativa) (cft. De Trinitate, XII, 3), e se lungo tutto il Medioevo si ebbe ben chiara la differenza fra intellectus (nous) e ratio (dianoia) (cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 79, a. 8), benché talvolta il termine “ragione” fosse utilizzato per indicare l’insieme dell’anima razionale e non solo la sua parte individuale, a partire dal XVIII secolo questa differenziazione sarà definitivamente perduta: l’anima razionale verrà ridotta al suo aspetto calcolante, ossia alla ratio inferior agostiniana. Ragione diventerà sinonimo della facoltà individuale e discorsiva che consente all’uomo di dedurre una proposizione da un’altra, o di procedere dalle premesse alle conseguenze, e verrà considerata come il sommo organo della sua conoscenza. In tal modo potrà costituirsi come la Dea laica venerata dagli illuministi ed al mondo cristiano non resterà che contrapporre ad essa il “cuore”, inteso non più come intelletto, come parte più elevata della mente (apex mentis) o mente intuitiva, organo della contemplazione per eccellenza, ma come sentimento, affettività, impulso, emozione, passione. Nasce così, accanto al razionalismo laico, il sentimentalismo religioso, che i razionalisti avranno buon gioco a squalificare come irrazionale”.

FINE

Circa le posizioni attuali di G. A. Spadaro su Gentile rimandiamo a questo link nonché alle sue pubblicazioni successive. (ndr)


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"In una civiltà tradizionale è quasi inconcepibile che un uomo pretenda di rivendicare la proprietà di una idea e, in ogni caso, in essa chi così facesse, con ciò stesso si priverebbe di ogni credito e di ogni autorità, poiché condannerebbe l’idea a non esser più che una specie di fantasia senza alcuna reale portata. Se una idea è vera, essa appartiene in egual modo a tutti coloro che sono capaci di comprenderla; se è falsa, non c’è da gloriarsi di averla inventata. Una idea vera non può essere «nuova», poiché la verità non è un prodotto dello spirito umano, essa esiste indipendentemente da noi, e noi abbiamo solo da conoscerla. Fuor da tale conoscenza, non può esservi che l’errore" (R. Guénon)

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