Dante e la culminarità sacra della Tradizione Romana (II parte)

di Guido De Giorgio

tratto da “La Tradizione Romana”

segue dalla prima parte

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Tutti i simboli della tradizione antica rivivono nella luce realizzatrice della conquista, dell’indiamento (1), e l’impresa argonautica trova il suo compimento nella rivelazione del vero volto di Dio con cui si chiude l’ultima cantica e l’ultimo canto del «Poema Sacro ».

Giasone e il vello d’oro (Pietro Francavilla, 1548 – 1616)

Il vello d’oro, la veste di gloria, è indossata da Dante nella grande luce di Roma, apice supremo nella circolarità radiante dell’Ineffabile. Tutte le scienze tradizionali confluiscono nella Comedia attraverso una complessità dinamica di stati e una conoscenza perfetta delle transizioni nell’ambito dei tre mondi attraverso cui svolge il processo dell’illusione cosmico-umana, fino alla sua risoluzione nel principio supremo nelle tre fasi corrispondenti alla morte, resurrezione e transfigurazione dell’uomo in Dio. Il processo della morte è lento, graduale, ed esso abbraccia tutta l’esperienza terrestre nelle sue forme più interiori a cui corrispondono, nella sfera morale, i vizi, cioè l’animalità: di qui la gerarchia discendente del mondo infero ove l’interiorità realizzatrice assume su di sé tutto lo sviluppo umano riducendolo a unità totalizzatrice di vita integrata nell’essere che la luce ebbe e la luce perse, Lucifero. Egli rappresenta la concrezíone massima nello schema dell’unità diabolica, riflesso inverso dell’unità divina di cui ha pure l’analogia trinitaria nelle tre facce che sono volte antiteticamente mentre in Dio sono omocentriche e confluenti.

Nel suo corpo immenso si risolve la pluralità umana rapprendendosi, solidificandosi, impietrandosi: egli rappresenta la caduta, la precipitazione, il coagulo ultimo terrestre delle acque invalicabili, il gelo, la totalizzazione dell’ignoranza e della tenebra: la sua notte corrisponde, secondo l’analogia inversa, alla notte di Dio, all’indistinzione precreativa in cui si fondono tutte le determinazioni dell’essere, come in lui tutte le determinazioni del non essere cioè del male. L’analogia è perfetta anche in questo che Lucifero è il primo e l’ultimo come Iddio è l’alfa e l’omega, ma mentre nel primo caso si ha una dualità di movimento rappresentata dalla caduta, nel secondo invece abbiamo l’unità essenziale degli opposti considerati come i due punti confluenti del ciclo divino. Lucifero che fu il primo è ora l’ultimo: in lui il ciclo temporale si risolve nell’eternità del male, come in Dio si risolve nell’eternità del bene. Le due antitesi capitali rappresentano ciò che potremmo chiamare la massima polarità critica, cioè il punto terrificante della realizzazione attiva, quello appunto in cui Virgilio opera penosissimamente il capovolgimento che è una rettificazione onde l’interiorità discendente diventa interiorità ascendente e il luogo della dannazione, la base della salvazione.

Statua di Lucifero nella cattedrale di Saint-Paul di Liegi (Belgio)

Dalla precipitazione lapidea di cui Lucifero è simbolo s’inizia la rettificazione ascendente e la pietra che è concrezione e caduta diventa la base necessaria al volo verso la complessità elementare e la totalità transelementare. Il Purgatorio è il luogo della seconda nascita dalle Forme ai Ritmi in una purificazione gerarchica di cui i sette balzi sono l’indice: non è un passaggio delle Forme ai Ritmi ma una risoluzione delle Forme nei Ritmi, del corpo nell’ombra, della corporeità nella psichicità onde poi anche questa si sciolga nella spiritualità che è il Silenzio, il Paradiso. L’«arte» di Virgilio è la conoscenza perfetta delle due sfere, le Forme e i Ritmi attraverso cui si compie gerarchicamente lo svincolamento dall’errore e dall’ignoranza della fallacia umana e terrestre, poiché unica è la realtà, quella di Dio, ma di questa realtà si ha coscienza soltanto quando la si integra, la si realizza, la si diviene.

Fino a che ciò non sia compiuto è necessario traversare i gradi di sviluppo che, dal punto di vista umano, sono tre corrispondentemente all’Inferno, al Purgatorio e ai Paradiso. Dante nella Comedia propone ed espone tutta l’esperienza realizzatrice, l’iniziazione completa, integrale, attraverso la conoscenza positiva, vissuta di tutti i gradi che dall’umano conducono al divino. Nei due primi regni la tradizione antica basta a condurre a termine questo itinerario realmente percorso e Virgilio rappresenta la scienza e la conoscenza delle leggi che governano il mondo subterrestre e sublunare. Egli scompare dinanzi a Beatrice perché si scioglie in lei, si completa in lei, non perché le si opponga come dovrebbe verificarsi se Dante avesse considerato le due tradizioni irrimediabilmente differenti e antagonistiche come tutti credono, tanto quelli che esaltano la prima come quelli che le oppongono la seconda. Beatrice appare nel momento in cui la prima guida, Virgilio, ha compiuto la sua opera e abbraccia la manifestazione spessa e sottile, le Forme e i Ritmi.

L’esercizio della ragione umana nel suo completo e normale sviluppo immette naturalmente nella sfera ove s’inizia un processo d’indiamento nei gradi dell’informale, cioè nella zona del Silenzio rappresentata simbolicamente dai cieli. Qui la Scienza Sacra, Beatrice, svolge i cicli integrativi dell’onnità in un volo che è luce e fiamma saliente tra i Ritmi circolarmente snodantisi nella plenitudine dell’Essere Divino. Lo schema trinitario si ampia nell’assunzione gerarchica del novenario, ali fulgenti che sfaccettano l’infinità divina nell’amore gaudioso degli Angeli, Arcangeli, Principatì, Potestà, Virtù, Dominazioni, Troni, Cherubini, Serafini, ove s’incide la celestialità in rapporti di luce e di fulgore di fronte alla terrestrialità superata risolta e sciolta nel gurgite divino. Ancora rimane, nei primi sette cieli, la divisibilità della luce col vortice planetario in un realizzarsi progressivo di perfezioni nell’unità, sciorinamento di radiazioni nel corpo del diamante divino. Nella dimora del sole ove la fascia zodiacale assomma colla perfezione sua del ternario e del quaternario sciolti nella sintesi suprema della trinità (12 = 1 + 2 = 3) il mistero dell’Uomo Perfetto, emerge il Cristo Trionfante, la perfezione della filiarità divina in assunzione assoluta di radianza.

Paradiso, Canto XIV – Dante e Beatrice contemplano il quinto Cielo, quello di Marte, riservato agli Spiriti militanti (Gustave Doré)

Segue l’ultimo grado creativo nel nono cielo della perfezione trinitaria assumente in ciascuna delle Persone Divine il suggello delle altre come per proiettare nella circolarità creativa il mistero dell’Ineffabile, poi infine il livello assoluto, la culminarità perpetuantesi nello schema eterno dei mondi, l’Empireo. Qui Beatrice dilegua, non come Virgilio, per permettere un progresso, un raggiungimento, un fine, ma per sciogliere il mistero dell’Ultima Soglia ove la matrice virginea assolve la riduzione ciclica della luce nella fronte stessa di Dio. L’ultimo grado del Silenzio s’integra nell’alveo stesso della Notte Divina ove il polso dell’Ineffabile vibra nell’onnità realizzatrice di Dio, Zero Supremo, trascendenza della plenitudine stessa, tenebra dell’Ineffabile.

I meriti esteriori puramente letterari, che il volgo, il profanum vulgus, ammira in Dante non hanno nessuna importanza e renderebbero nullo il valore della Comedia agli occhi stessi di Dante e di coloro che possono e sanno comprendere lo scopo per cui il poema è stato composto.

Bisognerebbe vergognarsi di parlare ancora e solo di «arte» «poesia» «costruzione geniale» nel senso moderno della parola quando si accenna all’opera di Dante che è solo ed eminentemente sacra nello spirito e nella struttura, mentre le allusioni a personaggi storici sono chiaramente motivate da Cacciaguida alla fine del XVII del Paradiso. Ma queste allusioni nascondono ben altri drammi che quelli che vi scorgono i profani di cui si comprende, tradizionalmente parlando, il motivo centrale, l’orientazione generale, ma che non è né sarà forse mai possibile spiegare interamente per l’impossibilità in cui ci si trova di rintracciare gli elementi di una tradizione che, ai tempi di Dante, era interamente orale. Quanto poi alla forza e alla compiutezza espressiva cosi costante in Dante, essa è dovuta alla sostanza stessa degli argomenti trattati: si tratta di poesia d’ispirazione nel senso assolutamente sacro della parola e coloro che sanno cosa s’intende con tale espressione, conoscono la potenza improntante dell’onda realizzatrice che foggia la parola in una specie di plasma rivelatore ove si compie il miracolo speculare del riflesso perfetto. Il Ritmo stesso, l’omofonia s’adeguano allo stato che si vuole esprimere in modo da costituire altrettanti τοποι o figure fisse, orme normative in cui si compie la sintesi transfiguratrice dall’immagine all’idea per sostituire la trasmissione iniziatica orale.

I moderni quindi che da secoli leggono studiano e commentano Dante si rassegnino a non capirne nulla se si ostinano a non considerarlo come un vate, un poeta sacro la cui opera è l’espressione più alta, unica forse della Tradizione Romana, sintesi eternamente nuova delle due forme tradizionali che in Roma, nel suo nome occulto, trovarono la loro compiutezza e la loro perfezione. Qui è la sua grandezza e la sua vera originalità: che se poi l’espressione raggiunge una perfezione plastica e vibratoria non mai uguagliata, ciò è dovuto al carattere sacro della Poesia che coglie nella labilità dei fantasmi la luce eterna della rivelazione e la condensa in sintesi radianti.

In Dante Oriente e Occidente si equilibrano in un centro unico che, sostanzialmente, è la Tradizione Primordiale, cioè l’universalità tradizionale culminarmente unica e sovranamente realizzatrice. Mai come durante il Medio Evo furono così stretti i rapporti tra Oriente e Occidente: mai come in quei grandi secoli gli elementi tradizionali si completarono e si rivelarono per trasmissione orale, diretta da maestro a discepolo e da discepolo a discepolo.

Dante appare proprio alla fine di quest’epoca ma in un periodo in cui domenicanesimo e francescanesimo, benché già degeneri e ostili, avevano tracciato le due vie massime di realizzazione del divino, cherubinica e serafinica, omocentriche anche se divergenti per natura e processo: queste due vie egli le unifica sostanzialmente, le fascifica senza confonderle. E bisogna qui osservare che quando adoperiamo il termine fascificare non intendiamo nulla che si possa avvicinare sia pure lontanamente al sincretismo, alla mistione: fascificare nel puro senso tradizionale significa dare a ogni via, a ogni elemento, una direzione unica, un centro, un’asse, senza confonderli: questa è la novità della fissità tradizionale.

Uno è il legame che avvince le dodici verghe del Fascio Littorio e una è la potenza fulgurante espressa dall’ascia bipenne: l’emblema è tradizionalmente massimo perché rappresenta la confluenza nel senso verticale, quello cioè dell’elevazione e della conquista. In Dante la fascificazione è suprema, Oriente e Occidente, Roma antica e nuova, temporale e spirituale, terra e cielo, mondo e sopramondo, uomo e Iddio, tutto s’accentua, si compagina, si unifica in un vertice supremo che è Roma. Questo è il Fascismo Sacro, il vero trionfo della giustizia c della verità nell’uomo e nel mondo: che vi siano dissidi, lotte, cadute, ciò non ha nessuna importanza purché avvengano nel seno di una società tradizionale ove tutto si compone nell’equilibrio supremo assicurato dai Clavigeri e dai Fascigeri, dal Regnum e dall’Imperium per sempre unificati in Roma.

Questa è la pace perpetua, la pace universale cui accenna costantemente Dante nel De Monarchia e nella Comedia: il raggiungimento dell’equilibrio tradizionale che solo può contenere e annullare in sede superiore di armonia le lotte e i dissidi inevitabili nel mondo, ove, regnando la dualità non è possibile evitare il contrasto senza il quale sarebbe soppresso l’elemento unificatore supremo, Roma. Ma invece, restituito questo elemento alla sua vera funzione e ristabilite le basi della Tradizione Romana nella loro integrità vivente, una nuova grandezza sorgerebbe sulla rovina presente del mondo occidentale, una nuova purezza di vita e di pensiero e il Tempio protetto dalle spade s’innalzerebbe nella luce di Roma per la gloria di Dio nei cieli e la pace degli uomini sulla terra.

Nota

(1) Per “indiamento”, in ambito filosofico-religioso, si intende un’unione di tipo estatico o iniziatico con Dio: un graduale processo di divinizzazione dell’uomo, di ascensione fino all’identificazione del Sè col Divino (N.d.R.)



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"In una civiltà tradizionale è quasi inconcepibile che un uomo pretenda di rivendicare la proprietà di una idea e, in ogni caso, in essa chi così facesse, con ciò stesso si priverebbe di ogni credito e di ogni autorità, poiché condannerebbe l’idea a non esser più che una specie di fantasia senza alcuna reale portata. Se una idea è vera, essa appartiene in egual modo a tutti coloro che sono capaci di comprenderla; se è falsa, non c’è da gloriarsi di averla inventata. Una idea vera non può essere «nuova», poiché la verità non è un prodotto dello spirito umano, essa esiste indipendentemente da noi, e noi abbiamo solo da conoscerla. Fuor da tale conoscenza, non può esservi che l’errore" (R. Guénon)

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