Seconda parte del testo della conferenza Guido de Giorgio e il suo commento ai primi canti della Divina Commedia, tenuta presso la sezione di Mondovì della società Dante Alighieri nell’ottobre del 1987, in occasione del trentesimo anniversario della morte di Guido De Giorgio, dal suo allievo, discepolo e amico Filippo Ladon, scomparso nel 1996. Come detto, anche se le celebrazioni del Dante 700 che hanno caratterizzato il 2021 sono formalmente terminate, noi proseguiamo il nostro approfondimento in termini tradizionali su Dante e dintorni.
Con l’occasione, ricordiamo ai nostri lettori che parte delle argomentazioni sviluppate in questa conferenza, unitamente a tanto altro materiale inedito, si ritrovano nel volume Studi su Dante, raccolta di saggi di Guido De Giorgio dedicati principalmente (ma non solo) alla Divina Commedia, a cura di Alessandro Scali (studioso di Dante e cultore delle dottrine tradizionali), edita da Cinabro Edizioni. Nell’opera, più precisamente, è raccolto e sistemato un corpus di manoscritti inediti di De Giorgio, che Giovanni Ladon, figlio di Filippo, l’allievo di De Giorgio che tenne la conferenza in oggetto, consegnò nelle mani dell’Editore molti anni fa. Da allora, dopo alterne vicende che sono ricostruite nella premessa al volume, il materiale, cui si sono aggiunti altri scritti dell’autore recuperati successivamente, è stato infine raccolto, ordinato e commentato da Scali, e pubblicato in prima stampa da Cinabro Edizioni nel 2017. Un testo di eccezionale valore in cui, oltre ad approfondimenti sui primi sei canti dell’Inferno e su altre tematiche inerenti la Comedia dantesca, trova spazio anche un saggio sul poeta stilnovista Cino da Pistoia.
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“Guido de Giorgio e il suo commento ai primi canti della Divina Commedia”, a cura di Filippo Ladon, Mondovì, ottobre 1987 (seconda parte) – tratto da Arthos, n. 11, 2003
segue dalla prima parte
Dopo queste premesse si può forse più facilmente comprendere che l’incontro di De Giorgio con il poema di Dante ha dato frutti con carattere di schietta originalità.
Né si deve pensare che l’esegesi abbia la pretesa o l’intento di sciogliere i cosiddetti “passi misteriosi” del poema (come il famoso “pape satan” del VII canto) che anzi la novità germoglia proprio in quei luoghi dei quali apparentemente ogni senso è già stato indagato e svelato.
In apertura del Primo Canto la “selva selvaggia e aspra e forte” “selva erronea … di questa vita” come ripete Dante nel Convivio (IV, 24,12) , labirinto del peccato è per De Giorgio “ ὕλη” che, oltre il significato generale di selva e di materia ha anche quello più speciale di “faex” di “sedimentum” quindi “precipitato, residuo” quindi vera e propria vegetazione residuale, una florescenza d’ombra soggetta ad una legge di sviluppo parassitario.
E’ la “νῆσος δενδρήεσσα (1,v.51) di Omero, circondata dalle acque, l’ omφαλος θαλασσησ, Ogigia; e proprio in Omero abbiamo accomunate le due caratteristiche iliche: la pluralità – alberi selva – illusoria e l’elemento umido che l’avvolge.
Altrove De Giorgio ritorna sulla caratteristica di “sedimentum” dei luoghi infernali. La concrezione – egli chiarisce – si fa più terribile a misura che si discende, che si penetra nelle viscere della terra, che si sprofonda nell’elemento più spesso, quello che si ammassa sui dannati, quasi a significare che l’elemento somatico può fecondare solo la materia, il regno della morte; per mostrare che l’uomo si nutre di morte.
Il peccato vero e proprio è nella negazione di Dio, nel non riconoscere il fuoco dell’Amore-Spirito, dopo aver negato la Potenza-Padre e la Sapienza-Figlio. Al limite estremo è Cocito, il fiume rappreso di gelo, che segna il silenzio terribile della morte totale. A questa “precipitazione”, impedimento spirituale personificato dalle tre fiere, De Giorgio ritorna parlando del Veltro che “è certamente l’essere privilegiato, nutrito di sapienza, d’amore e di virtù che domerà la lupa” e la “scoverà da ogni ripostiglio del cuore” la caccerà per ogni villa” e la riporrà nel mondo dell’eternità buia, subterrestre. Il Veltro sdegnerà la gloria del mondo, sarà un povero, un fakir, un sufi (tra feltro e feltro) nel senso assoluto, non si nutrirà di alcun cibo terreno, terreno temporale e darà “salute” all’umile Italia terra della tradizione latina.
Nel secondo canto De Giorgio propone il tema della “gihad” la guerra, la grande guerra santa che l’Islam oppone alla “piccola guerra santa” puramente esteriore; quella guerra è “sì del cammino e sì della pietade” implica cioè sforzo, travaglio sulla via della liberazione ed esercizio continuo di pietas, dedizione espiatoria con assentimento assoluto della coscienza. E’ la pietas che assicura la purificazione dell’animo che ascende per i gradi dell’eternità ed è la condizione principale senza la quale sarebbe impossibile intraprendere il “grande combattimento” contro la “propria sventura di non essere santi”.
Altro tema del secondo canto è quello delle tre donne benedette che si curano di Dante nella “corte del cielo” e sono qui simboli dell’Amore divino. La donna gentile che “duro giudicio là sù frange” richiama uno dei nomi divini di Allah nell’esoterismo islamico: Djemâl opposto a Djelâl, o per meglio dire aspetto differente dello stesso Principio nel senso generale di “Bellezza”-“Dolcezza” opposto a “Rigore”; questi due aspetti, qui, avrebbero un prima rispondenza in quanto “duro Giudicio” richiama Djelâl mentre donna gentile “che lo frange richiama Djemâl. Per la tradizione cristiana è Maria “la donna gentil”, l’influenza spirituale discendente, la grazia divina. Lucia e colei che dà la luce, la grazia illuminante.
Rachele è la teoria degli Angeli ascendente nella Scala di Jacob, è la sorella di Lia che “mai non si smaga – dal suo miraglio” la vita contemplativa: l’una e l’altra corrispondono al jiva e all’atma i due uccelli del simbolismo upanishadico, di cui l’uno, l’atma tace e non agisce, l’altro il jiva, l’azione, mangia i frutti dell’albero. Sono questi i simboli della virtù conoscitiva, che sorgono all’inizio dell’ascesa, all’appello disperato:
“Non odi tu la pieta del suo pianto
Non vedi tu la morte che’l combatte
Su la fiumana ove ‘l mar non ha vanto?”
e tracciano, per tramite di Virgilio e Dante la via di salvazione attraverso la Commedia.

Dante e Virgilio sul fiume Cocito (illustrazione di Doré)
Nel terzo canto, varcata la soglia, le parole di “colore oscuro” mostrano a Dante l’inflessibilità del divenire umano secondo la legge dello Spirito Santo che retribuisce nella misura della verità la quale sola è bene… si palesa così il modo della Giustizia divina che è assolutamente al di là di ogni morale umana, poiché il bene è l’adeguazione dell’uomo a Dio nella molteplicità e varietà delle realizzazioni.
Dopo gli ignavi, l’Acheronte ed il tema dei fiumi infernali considerati come passaggio a ordini differenti e progressivi in serie discendente verso il punto della più profonda “concrezione” che è rappresentata da Cocito.
E’ in un raptus che Dante traversa l’Acheronte e l’altra riva è il Nirvana, lo stato dell’essere che si sta affrancando dalla morte, e lo confermano i versi del quarto canto:
“e l’occhio riposato intorno mossi
dritto levato…”
Qui, due temi: il primo riguarda la discesa di Cristo nel mondo infero per liberare l’uomo dall’Inferno così come, con la sua morte, lo liberò dalla morte… il Cristo eterno ed eterno liberatore e chi è in Lui è l’eterno liberato, poiché la liberazione avviene non localiter et temporaliter – secondo la dizione della Scolastica, ma per essentiam.
E’ questo il senso profondo della discesa di Cristo nel mondo infero: l’asse verticale della Croce è la discesa del Padre–Cielo nel Figlio–Terra, l’Inferno essendo un prolungamento della terra, attraverso la mediazione dello Spirito Santo che estende orizzontalmente ogni possibilità divina. Cristo libera dal Limbo coloro che hanno vissuto in Lui pur essendo vissuti prima della manifestazione cristiana palese. Gli altri nel Limbo sono coloro che hanno raggiunto la purezza della realizzazione e costituiscono “la bella scuola” che non è soltanto un gruppo di poeti. Infatti:
“…Così andammo infino alla lumera
Parlando di cose che il tacere è bello
Si com’era il parlar colà dov’era.”
Dal IV canto comincia la discesa “ove non è che luca”, nella exitialis nox, nell’ ατερπεα χωρον, la terra senza gioia lontano dalla terra di Beatitudine, dalla dimora dei vivi.
Nell’esegesi del V canto De Giorgio annota la Simpatia fra Dante e Francesca, simpatia che ritroveremo per altri personaggi dell’Inferno, poiché quello è il luogo delle complesse aberrazioni, delle inutili vittorie, delle fallaci conquiste, è la necropoli dei vivi-morti, di coloro che nella contemplazione e nell’azione hanno abusato di forze non perfettamente conosciute e domate che li hanno travolti.

Paolo e Francesca di Frank Dicksee
Dramma d’amore quello di Francesca? E’ pensabile che Dante cada in deliquio per il racconto di un episodio che induce pietà più che orrore. Se invece l’amore a cui allude Francesca, martellato nelle note terzine “Amor che a cor gentil” .. “Amor che a nullo amato” .. “Amor condusse noi ad una morte” è esperienza mistica, ricerca errata del divino, fatale, allora si intende come Dante, che deve avere tentato più d’una via per giungere a Dio, provi un’impressione profonda al racconto di un pericolo che egli stesso inavvertitamente può aver corso. Di qui quel suo cadere improvviso che corona tutta l’ansia con cui ha ascoltato le fasi di quel mistico dramma.
Di questo canto va ancora richiamato quanto De Giorgio, in fogli sparsi notò sul verso 136 “la bocca mi baciò tutto tremante” e sul fatto che Dante parli della “bocca” nel cap. XIX della Vita Nova : “La bocca la quale è fine d’amore” “gli occhi li quali son principio d’amore” e “ ‘l saluto di questa donna, lo quale era delle operazioni della bocca sua”, e poi nel canto XXXI del Purgatorio ai versi 136 e segg.
“Per grazia fa’ noi grazia che disvele
A lui la bocca tua, si che discerna
La seconda bellezza che tu cele!”
Nella Vita Nova la bocca dà saluto, salute, salvezza, suggella l’unione mistica; nel Purgatorio è simbolo della seconda bellezza, quella più occulta, più profonda come lo stesso suggello della realizzazione contemplativa, la sostanza della stessa beatitudine per cui dalla contemplazione che è ancora dualità, si trascorre ad un “inesse” che è unità e compiutezza.
Negli stessi fogli una nota riguarda “Galeotto – nocchiero – veicolo”. Lancelot colui che ama Ginevra, la donna di Re Artù, fondatore della Tavola rotonda – i Fedeli d’Amore fisi in modo equidistante come i punti di una circonferenza, al Centro. Galeotto, Fedele d’Amore guida Ginevra a Lancelot e gli consente di realizzare la Regina che è la dama di Grazia e di Salute. Lo stesso verso “Galeotto fu il libro e chi lo scrisse” non sembra avere quel tono imprecatorio che comunemente gli si attribuisce, poiché l’Amore – se pur profano – ha potuto congiungere i due spiriti ed essi non possono certo maledire quanto è stato loro palesato, forse uno spiraglio di Paradiso, come anche i versi sembrano sottintendere:
“… Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
ne la miseria…”
In un lungo frammento dedicato ai Fedeli d’Amore, nel commento ai versi 106 e segg. del canto VI, De Giorgio illustra gli aspetti ed in parte le ragioni dell’esoterismo. La teologia procede “rationaliter” e questa e la sua limitazione, la fede procede “absurde” quindi ciecamente e questa è la sua precarietà. Non è quindi strano che nelle religioni (ebraica), cristiana e nell’Islam sorgano scuole esoteriche il cui compito interno e preciso è di collegare la tradizione religiosa a quella integrale risolvendo teologia e fede in intuizione metarazionale e realizzazione ascetica, il cui scopo è di mantenere intatta l’ortodossia tradizionale.
Dante appartiene appunto ad una di queste scuole; il suo cattolicesimo integrale gli impone di andare oltre il punto di vista religioso per restare fedele alla Grande Tradizione. La sua adesione ai Fedeli d’Amore chiarisce il senso della Vita Nova – hic incipit vita nova – da quando cioè il bisogno, naturale nell’uomo, di verità lo spinge a seguire un insegnamento dottrinale segreto per integrare fede e dogma. Successivamente il lui si rafforza l’ortodossia ed abbiamo il passaggio dalla Vita nova alla Commedia, dal simbolismo esoterico alla tradizione pura.
Perciò nella Commedia ogni spiegazione dottrinale è interrotta là dove la teologia diventa muta, cioè dove il punto di vista religioso è oltrepassato, là dove la comunicazione scritta diventa impossibile.
Non tutto ciò che è stato detto può essere trasmesso per iscritto, la voce mette in opera, nelle parole vibrazioni ed inflessioni che integrano il messaggio e che sono assolutamente inesistenti nell’espressione scritta che cristallizza e tronca la comunicazione.
La voce produce una vera comunione in forza della magia interna della parola e dell’udito che tradizionalmente è come il vaso in cui si contengono e vibrano le sillabe sante, i mantra – Aum Amn Allah Hou – che con la guida del maestro diventano respiro, fuggono alla schiavitù dell’alfabeto poiché, come dice Eckhart “l’anima esigente non trova la sua pace in qualcosa che porti un nome”.
E’ stato detto dello stile del fondatore della mistica cristiana, lo pseudo Dionigi, che il suo linguaggio è pieno di echi che esortano alla comunione col divino, che vogliono avviare alla contemplazione. Lo pseudo Dionigi, nella sua spregiudicatezza antiletteraria una la parola come un seme che, affondato nel terreno, sparisce per lasciare che esca alla luce il frutto di cui egli era misteriosamente il portatore.
Così, in questa sua dedizione al testo di Dante, senza chiedere dove sia poesia, senza preoccupazioni di ordine estetico o letterario, nella consapevolezza che la ricerca della bellezza coincide con quella della sapienza del Santo Spirito, sta il segreto del rapporto fra De Giorgio e la Divina Commedia.
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