De Giorgio, Dante e la Tradizione (prima parte)

Le celebrazioni ufficiali del Dante 700 che hanno caratterizzato il 2021, per il settecentesimo anniversario della scomparsa terrena del Sommo Poeta, sono terminate. Ma ovviamente noi, che a nostro modo avevamo iniziato a celebrare e ricordare Dante Alighieri e la sua opera in termini rigorosamente tradizionali, con articoli di Julius Evola e di René Guénon, riprendendo idealmente il filo di un primo approfondimento risalente al 2017, non ci fermiamo di certo per ragioni di mero calendario.

Guido De Giorgio (1890-1957)

Riassumiamo innanzitutto quanto pubblicato finora, anche a beneficio di chi non ci avesse seguito in questo percorso. Nel novembre 2017, in occasione della presentazione di Studi su Dante, un volume di saggi inediti di Guido De Giorgio sul Poeta fiorentino, a cura di Alessandro Scali, edito da Cinabro Edizioni, pubblicammo Inquadramenti danteschi, articolo di Evola apparso originariamente su Il Regime Fascista nel maggio 1939 (e poi poco tempo dopo su Bibliografia Fascista) per recensire il saggio Dante dello scrittore russo Dmitrij Sergeevic Merejkowsky; I tre mondi di René Guénon, tratto da L’esoterismo di Dante; Dante e la culminarità sacra della Tradizione Romanadi Guido De Giorgio, tratto da La tradizione romana.

Quindi, a partire da settembre del 2021, abbiamo ripreso idealmente il filo del discorso, con l’occasione del Dante 700, pubblicando altri due articoli di Evola, uno sul gergo cifrato della Divina Commedia e l’altro sul tema della possibile appartenenza di Dante all’Ordine Templare, e altri due approfondimenti di Guénon, uno (suddiviso in due parti) sul linguaggio segreto di Dante e dei Fedeli d’Amore, e l’altro sul linguaggio segreto di Dante nell’opera “De vulgari eloquentia”.

Ora, tornando in particolare a Guido De Giorgio, vi proponiamo il testo base di una conferenza intitolatasi Guido de Giorgio e il suo commento ai primi canti della Divina Commedia, tenuta presso la sezione di Mondovì della società Dante Alighieri nell’ottobre del 1987, in occasione del trentesimo anniversario della morte di Guido De Giorgio, dal suo allievo, discepolo e amico Filippo Ladon, scomparso nel 1996. Questo testo, circolato più o meno ufficialmente negli anni successivi, fu riproposto nel n. 11 della nuova serie della celebre rivista Arthos, nel 2003, e rappresenta un documento molto interessante e poco noto, che costituirà un’utile introduzione proprio per la sopra citata opera Studi su Dante di Cinabro Edizioni. Oggi ve ne proponiamo la prima parte, che è una sorta di premessa generale su De Giorgio, la Tradizione ed i suoi principali esponenti, tra cui ovviamente Julius Evola.

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“Guido de Giorgio e il suo commento ai primi canti della Divina Commedia”, a cura di Filippo Ladon, Mondovì, ottobre 1987 (prima parte) – tratto da Arthos, n. 11, 2003

Sono trascorsi ormai trent’anni da quando s’è chiusa la vita terrena di Guido De Giorgio, vita tormentata e tormentosa per sé e per tanti che gli furono vicini e cari. Per quel suo non adeguarsi al mondano, per quel suo spregio per la modernità, il progresso, il quotidiano, per quel suo modo di amare in attesa sempre che l’amato desse il meglio, il tutto di sé, pena il disprezzo verbale, temperato tuttavia sempre da un’ironia appena percettibile, sofferse e fece soffrire purificandosi e purificando.

Nato nel 1890 a San Lupo nel Sannio Beneventano, studiò a Napoli e, ancora giovanissimo, in Tunisia ebbe la ventura di entrare in contatto con i maestri dell’esoterismo islamico. Fu dopo il ritorno dalla Tunisia ed un lungo intervallo in Francia ed in Liguria – a Varazze – che prese a frequentare queste montagne ed esse lo spinsero a scegliere Mondovì come rifugio. Qui, tra via di Vasco, via Vico (che prese poi il nome di Havis De Giorgio dal figlio medaglia d’oro in A. O. I.), Fiamenga ed infine Sant’Anna di Montaldo trascorse una trentina d’anni.

Lo spregiato – amato Julius Evola così ne parla: “era una specie di iniziato allo stato selvaggio e caotico, aveva vissuto con gli arabi, aveva conosciuto il Guenon e dal Guenon era stato tenuto in alta stima. Possedeva una cultura eccezionale … la sua insofferenza per il mondo moderno era tale che egli si era ritirato a vivere fra i monti … Fui in contatto con D.G. con cui mi incontrai anche due volte sulle Alpi, soprattutto nel breve periodo della vita della mia rivista “La Torre”.

Verso la fine degli anni trenta ed all’inizio degli anni quaranta De Giorgio collaborò al “Diorama Letterario” (*) del quotidiano “Regime Fascista” di Cremona ed attese alla stesura della sua opera fondamentale “La tradizione romana” uscita postuma nel 1973 presso l’editore Flamen di Milano. Durante gli anni della Seconda Guerra Mondiale e sino alla fine del 1957, anche se non trovò mai quiete nella contemplazione, s’accostò con singolare fervore al Cattolicesimo più profondamente ortodosso. Ricordo nel suo sacco da montagna un libretto con le opere del Manzoni “Osservazioni sulla morale cattolica” e “Sentir Messa”. Ricordo un suo scritto percorso da lampi di fede e speranza, da mistiche fulgurazioni di amore, “Ciò che mormora il vento del Gargano”, ed il suo allontanarsi da tutti – pur senza nulla rinunciare del pensiero tradizionale, pur fedele al principio dell’unità di tutte le religioni nella Trascendenza – per essere più aderente al pensiero ed alla liturgia della Chiesa Romana così come anche il Guenon gli aveva suggerito, Guenon che, avendo trovato rifugio nella tradizione islamica, lo invitava a restare nel solco in cui era nato, per quella “salvezza” che trascende vita e morte.

Guénon e Schuon

Per De Giorgio la ricerca intellettuale si conclude ed esprime compiutamente col momento della Preghiera che non appartiene, come sembra rimproverargli Evola “ad una specie di Cristianesimo vedantizzante”, ma si ispira all’unità nel Cristocentrismo di San Gregorio Palamas – ricordo che ottenne il volume della Philocalia uscito in Francia nel 1953 dopo lunghe ricerche. Se il cammino intellettuale di De Giorgio da quando scrive su “Le voile d’Isìs” di Chacornac o su “La Torre” di Evola con lo pseudonimo di “Zero” quasi a qualificarsi quale “animatore invisibile del foglio”, a quando tiene una nutrita corrispondenza con Guenon il quale lo tratta con profonda amicizia; che umile pellegrino cerca la confessione e la benedizione di Padre Pio; che raduna intorno a sé i giovani in una scuola in cui offre un sapere durevole, ci rivela una potente personalità individuale, molte cose del di lui spirito e del suo atteggiamento culturale restano oscure se non si inquadra la sua figura in quella vasta corrente di pensiero che, in particolare nel periodo fra le due guerre mondiali, esprime l’inquietudine europea di fronte all’imponente sviluppo tecnico e industriale.

Sono gli “spiriti liberi” europei, secondo la definizione dello storico Delio Cantimori, che prendono in esame i sintomi del declino spirituale dell’Occidente che sta divenendo ateo, scientista e materialista. Sono letterati come Valery, Mann, Musil o Drieu La Rochelle, saggisti come Spengler, Benda o Huizinga, filosofi come Ortega y Gasset, Berdiaef o Simone Weil, tradizionalisti come Guenon, Evola o Schuon.

Come si vede essi non hanno la stessa matrice culturale, sono mistici, irrazionalisti, democratici ardenti o aristocratici, per il Fronte popolare in Francia o contro, per Franco in Spagna o contro, alcuni finirono nei campi nazisti, altri di fronte al plotone d’esecuzione dei liberatori. Le fughe di questi personaggi sono nel passato; il Medioevo rappresenta per alcuni la logica antitesi del presente, le fughe di questi personaggi sono nei grandi spazi: per Hermann Hesse sarà l’India e i suoi misteri, per Malraux la Cina; per Paul Nizan, Guenon, Schuon l’Islam quasi ad esorcizzare od a prepararsi al futuro del profeta Joseph de Maistre: “… oggi più che mai dobbiamo occuparci di queste alte speculazioni, perché dobbiamo tenerci pronti per un avvenimento enorme nell’ordine divino, verso il quale stiamo avviandoci ad una velocità sempre più forte che deve impressionare tutti coloro che la osservano…”.

In verità questa pienezza dei tempi è giunta, il destino della sapienza umana è consumato, questo pensano gli ultimi rappresentanti della “Tradizione” fra i quali è De Giorgio profondo conoscitore di quella occidentale. La Tradizione per lui, non ammette definizioni che potrebbero snaturarne il significato e consiste “… nella trasmissione innata ed immanente di principi di ordine universale … una filiazione spirituale fra maestro e discepolo”.

L’unità dei principi e delle origini spiega come sussistano legami profondi fra le Tradizioni succedutesi nel tempo e nello spazio, poiché tutte si richiamano a quella primordiale e, nella trascendenza convergono nell’Unità, così come è per le religioni.
Grazie ai simboli, ponti fra i sensi e lo spirito, è consentito rendere palpabili, tangibili i concetti intellegibili, attraverso la varietà delle interpretazioni, che ciascuno può dare a seconda del suo grado di iniziazione, della sua capacità intellettuale, si giunge a un “enteder non entendiedo / toda sciencia tracendiendo” (San Giovanni Della Croce).

Poiché l’iniziazione è indispensabile, viene concessa attraverso quello che in India è chiamato “guru”, fra gli ortodossi “geron”, nell’Islam “sceicco” quasi un padre spirituale per questa seconda nascita. Qualcuno forse si chiederà se esiste un metodo per questa forma di conoscenza. Metodo (il termine filosofico è noto per Cartesio) è concetto troppo moderno perché possa essere accolto. Si può tutt’al più rilevare che là dove il mistico “accetta”, l’iniziato “prende”, aggiungendo che v’è una via per il contemplativo mentre ve ne sono infinite, quanti sono gli stati dell’essere, per chi si pone sulla strada dell’iniziazioneIl punto di partenza del cammino iniziatico, sotto la guida del padre-maestro viene, in quasi tutte le tradizioni, indicato come “la discesa agli inferi” che, esaurendo certe infime possibilità dell’essere, rappresenta un ruolo di purificazione che non avrebbe più ragione d’essere nelle fasi successive.

Se poniamo mente a queste premesse, tenendo conto che per lui ebbero un senso di effettiva concretezza, possiamo comprendere che De Giorgio guarda a Dante non per un’esperienza letteraria, non per meri valori poetici, senza riguardo alla ricerca estetica, ma per trovare conferma che l’Alighieri esprime, attraverso la costruzione dell’Opera, le similitudini ed in particolare i simboli, le sacre verità, i valori della tradizione trascendente senza tempo. Non ci sono più seicento anni fra il Poeta ed il suo interprete poiché la perennità della Tradizione rende il linguaggio eterno ed attuale, la conoscenza immediata e totale.

Altri nell’ottocento e nei primi anni del novecento hanno sperimentato un singolare incontro con Dante, ma nessuno di essi offre la stessa sensazione di partecipazione, di adesione, di amore per il poeta-teologo come De Giorgio.

Gabriele Rossetti, che guarda al Medioevo con mentalità illuminista, esagera l’eterodossia di Dante e l’opposizione di Lui al Papato anticipando in parte le interpretazioni dell’Aroux e più tardi del Peladan i quali spiegano la Divina Commedia secondo i riti ed i simboli massonici. Il Perez, nella “Beatrice svelata” pubblicata a Palermo nel 1865, ha visioni sorprendenti sulla conoscenza intellettuale, sulla diffusione della cultura araba ai tempi di Dante, sul senso ed il peso della vita contemplativa, ma attribuisce troppa importanza alle allusioni politiche antiguelfe in cui ritiene si siano cullati l’Alighieri e Cino da Pistoia e Guido Cavalcanti.

Al Pascoli, alle sue monumentali opere sulla Divina Commedia, create in un particolare ambiente culturale, si può rimproverare di avere troppo ragionato per far coincidere le allegorie e le strutture dantesche con gli schemi immaginati. E’ il rimprovero opposto a quello che all’opera pascoliana mosse il Croce “ di non industriarsi di persuadere ragionando”, ma come rileva De Giorgio, la ragione è mediazione nella conoscenza non fonte di conoscenza trascendente.

Luigi Valli (1878 –1931)

Per quel che riguarda il Valli ed il Ricolfi, ispirati dal Rossetti e dallo stesso Pascoli, si può dire che, nonostante le felici intuizioni, si perdono nella ricerca di un’interpretazione sistematica che non lasci luoghi oscuri, mentre, dal punto di vista della dottrina tradizionale, il simbolismo iniziatico non si può ridurre a formule più o meno strettamente sistematiche, poiché il suo ruolo è di servire da supporto a concezioni le cui possibilità sono veramente senza limiti.

Con De Giorgio, il Sacro del poema dantesco si illumina, allegorie e simboli si pongono in una nuova dimensione.
Attraverso il Boccaccio del commento e del “Trattatello in laude di Dante” De Giorgio chiarisce come, secondo la tradizione, Dante sia poeta e teologo, cammini sulle orme dello Spirito Santo, sia ispirato perciò dallo Spirito di Dio e come dice appunto Boccaccio (Tr.123) segue la teologia che “niun’altra cosa è che una poesia di Dio”.

Qualche confronto potrà servire a chiarire il diverso atteggiamento nei confronti del Poema.
Ecco la morte mistica in Pascoli: (Da “Sotto il velame”)
Ora noi vediamo che Dante con aperte parole dice di morire anche avanti la concupiscenza e anche avanti la malizia; di morire di quella morte che è un rivivere, e che quindi non sapremmo dire se sia vita o morte. Non sapremmo dir noi, né sa dir esso, il poeta”.
Ed in De Giorgio:
… è più morte della morte perché cosciente, integrale, voluta. La morte corporale si subisce a passivamente, fatalmente; quella mistica si prepara, si vuole, si cerca attivamente, volontariamente poiché tutto muore nel mistico anima e corpo. Intendiamo qui l’anima, l’anima non lo spirito, l’anima individuale non quella profonda di Dio che è in noi e che la maggior parte degli uomini ignora… La morte mistica è il trionfo di Dio sull’uomo, è la Croce volontariamente assunta … l’uomo nella morte mistica calca il teschio di Adamo, si aderge sull’alto della Croce ridonando a Dio tutto se stesso”.

Virgilio in Pascoli è simbolo mutevole: prima Ragione, poi Studio ed Amore o ancora l’Umanità con l’Impero, ma avanti la Redenzione; per De Giorgio è il maestro dei piccoli misteri, conosce le insidie dell’Oltretomba, non è poeta nel senso normale della parola, ma “un famoso saggio” un centro spirituale di irradiazione. Se accompagna Dante nella prima parte del “viaggio” è che fin là si limitava l’insegnamento tradizionale di cui Virgilio è la personificazione, insegnamento che comprende una fase assai estesa, ma pur sempre limitata che Dante completa associandola a quella cristiana attuando così una “cattolicizzazione” tradizionale.

(*) Ovviamente si trattava del “Diorama Filosofico”, diretto da Evola, e per errore indicato come “Diorama Letterario” da Ladon (N.d.R.)

(segue nella seconda parte)



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"In una civiltà tradizionale è quasi inconcepibile che un uomo pretenda di rivendicare la proprietà di una idea e, in ogni caso, in essa chi così facesse, con ciò stesso si priverebbe di ogni credito e di ogni autorità, poiché condannerebbe l’idea a non esser più che una specie di fantasia senza alcuna reale portata. Se una idea è vera, essa appartiene in egual modo a tutti coloro che sono capaci di comprenderla; se è falsa, non c’è da gloriarsi di averla inventata. Una idea vera non può essere «nuova», poiché la verità non è un prodotto dello spirito umano, essa esiste indipendentemente da noi, e noi abbiamo solo da conoscerla. Fuor da tale conoscenza, non può esservi che l’errore" (R. Guénon)

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