“Delirio nero”: la falsa ultima intervista di Evola (prima parte)

Introduzione a cura della Redazione di RigenerAzione Evola

Il 13 giugno 1974 appariva sulle colonne de Il Messaggero quella che fu presentata come l’ultima intervista di Julius Evola, che sarebbe stata da lui rilasciata al giornalista Costanzo Costantini, qualche giorno prima della sua scomparsa, avvenuta com’è noto l’11 giugno.

Costanzo_Costantini_2008

Il giornalista de “Il Messaggero” Costanzo Costantini, autore dell’intervista-farsa ad Evola, in un’immagine del 2008

L’intervista fu pubblicata sul celebre quotidiano romano con il significativo titolo “Delirio Nero”, che merita ben pochi commenti e che già da solo fa capire perfettamente quale fosse l’intenzione del giornalista (scomparso nel 2014)  e, come vedremo, del fotografo al suo seguito, Sandro Becchetti (scomparso l’anno prima, nel 2013).

A partire da oggi, in esclusiva assoluta, proponiamo il testo, diviso in due parti, di quel presunto scambio di battute che sarebbe intercorso nell’appartamento di Corso Vittorio Emanuele tra Evola e Costantini. Come sarà facile verificare, i contenuti dell’intervista ed i commenti del giornalista fanno emergere un copione ben preciso, adeguatamente studiato e preparato, finalizzato a rafforzare definitivamente nei più o meno ignari lettori quell’immagine, già più volte disegnata in precedenza, di uno Julius Evola nelle vesti di maestro ed ideologo perverso e maledetto di quella destra “nazifascista”, secondo il ben noto significato corrente dell’espressione, che perversa e maledetta si voleva dipingere.

Sessuomane, misogino della peggiore specie, spregiudicato, schizofrenico, instabile, teorico dell’azione violenta e nemico delle “sane” istituzioni democratiche, razzista, guerrafondaio, e così via: questo è il ritratto che doveva essere tramandato di Julius Evola.

Ovviamente, il colpo finale dell’ultima intervista “delirante” del “cattivo maestro”, si caricava di una forza particolare, poiché veniva assestato dopo la morte di Evola, con un potente effetto di “damnatio memoriae difficilmente scalfibile, soprattutto per l’impossibilità oggettiva di una smentita da parte del diretto interessato.

Negli anni, varie versioni sono circolate circa la veridicità di questa intervista, da sempre molto chiacchierata. A parte la versione sostenuta ovviamente dagli interessati, Costantini e Becchetti, meritano di esserne analizzate altre due.

Secondo la prima di esse, Evola avrebbe realmente rilasciato l’intervista con quei toni e quelle parole, più o meno esattamente riportate, “pour épater les bourgeois”, come si suol dire con frase idiomatica, cioè per il gusto di scandalizzare, con affermazioni volutamente esagerate e paradossali, la morale piccolo-borghese. Nello specifico si sarebbe trattato sostanzialmente di deridere e sconcertare il giornalista: il barone era d’altronde solito fare queste provocazioni nei confronti di chi si recava “in pellegrinaggio”, più o meno in buona fede, presso di lui.

giuseppe a. spadaro

Giuseppe A. Spadaro

Secondo l’altra versione, quella sostenuta, fra gli altri, da Gianfranco De Turris e da Giuseppe A. Spadaro, l’intervista sarebbe stata del tutto falsificata e pubblicata volutamente postuma da Costantini, dopo che Il Messaggero, nel giorno della morte di Evola, lo aveva già ricordato con l’articolo intitolato “E’ morto Evola, l’ideologo dell’ultra destra”.

Spadaro, in particolare, lanciò nel 1999 l’accusa circa la falsità dell’intervista in un articolo esclusivo in ricordo di Evola che fu pubblicato sulla Rivista Raido, edita dall’omonima comunità militante, nel numero speciale (n. 11 del 1999, andato esaurito) dedicato proprio ad Evola a 110 anni dalla nascita, che fu riproposto qualche anno dopo sul blog Azione Tradizionale e da noi ripubblicato nello scorso mese di luglio.

Nell’articolo, Spadaro ebbe parlò esplicitamente di “interviste mai rilasciate dal maestro o completamente distorte, da parte di imbecilli che nulla hanno letto delle sue opere, o solo qualche titolo, o qualche frase che, staccata dal contesto, servisse a scandalizzare gli ancor più imbecilli lettori di questa o quella gazzetta”. “È così”, proseguiva Spadaro, “che su Il Messaggero di giovedì 13 giugno un certo Costanzo Costantini s’inventò un’intervista concessa da Evola, a suo dire, qualche giorno prima della morte. La fotografia era di almeno tre mesi prima, perché negli ultimi tempi il maestro non prendeva quasi nulla ed era conseguentemente di una magrezza spettrale”.

Partendo da quest’accusa lanciata da Spadaro, ed in particolare dal riferimento alla fotografia a corredo dell’intervista, nell’introduzione alla seconda parte della stessa avremo modo di proporvi le argomentazioni addotte da De Turris. Il quale, come vedremo, ha fornito la prova inconfutabile della falsa datazione della fotografia medesima, dal che è facile dedurre la falsità dell’intera intervista. Falsità che risulterà peraltro facilmente intuibile dai contenuti di gran parte delle pseudo-risposte di Evola: nei vari passi delle due parti dell’intervista che vi proponiamo, abbiamo inserito dei commenti, proprio al fine di evidenziarne i punti più critici, inverosimili, assurdi.

***

Prima parte dell’intervista

[Costantini apre con un cappello introduttivo]

Ero andato a trovarlo in un pomeriggio inoltrato, nella sua casa di corso Vittorio Emanuele, all’altezza di piazza Navona. Viveva lì da prima della guerra. Era un vecchio appartamento, al quarto o al quinto piano, piuttosto modesto. All’ingresso, in un angolo, un paio di grucce.

Evola5Vi ristagnava un’aria greve, maleodorante, un misto di chiuso, di cibi sfatti e di medicine. Con il pretesto di osservare il panorama, dischiusi la finestra che dava sul Corso. «Da lì», mi disse con voce fioca, «può osservare il Gianicolo, il Fontanone. Sulla sinistra, c`è il Palazzo della Cancelleria. Se un giorno commetterò un delitto, andrò a finire lì, così non mi potranno raggiungere».

Julius Evola giaceva in un lettino, supino, le mani fuori delle coperte. Aveva ancora un bel volto scultoreo sotto i capelli grigi, occhi vivi e penetranti di cui non riuscivo a cogliere il colore per effetto della lampada che lo sovrastava, ma la bocca disastrosamente deteriorata per i denti guasti e monchi, con un vuoto proprio nel mezzo. Parlava a fatica, lentamente, usando un linguaggio ora elegante e raffinato ora idiomatico e alquanto triviale, inframmezzato di parole e frasi tedesche; e via via che rievocava tale o talaltro episodio della sua vita, sorrideva o rideva, compiacendosi dello spirito ironico o caustico di cui dava ancora prova o accendendosi di entusiasmo al ricordo delle sue innumerevoli avventure galanti.

La cameretta in cui viveva era il suo specchio, l’immagine riflessa della sua biografia e della sua personalità. Tutto era inchiodato in ma specie di staticità fuori del tempo, come lui al suo giaciglio. Su un tavolo presso la finestra che dava sul Corso una Olivetti studio 45 e mucchi di carte e libri, fra i quali si notavano un testo di Donoso Cortes e un altro di Carl Schmitt; su un tavolinetto presso il letto un volume in tedesco, intitolato «Der lrrweg der Mitbestimmung»[1]; su uno scaffale e lungo le pareti un vecchio lume, un vecchio orologio, una vecchia radio, un vecchio specchio nero con cornice dorata, una sua vecchia foto da artigliere di montagna e otto suoi dipinti del periodo Dada.

Anche i dipinti rispecchiavano, per taluni aspetti, la sua biografia e la sua personalità. Donne nude, seminude, discinte, sezionate, donne-oggetto, tipo pin-up anni Venti: gambe lunghe, bislunghe, lunghissime, inguainate in calze nere, come piacevano a Gabriele D’Annunzio, belle cosce, bei seni, bella vita, bei sessi, selvosamente neri o fulvi, chiome fluenti, fluentissime, superfluenti, al vento, nere o biondissime, bocche sensuali ed avide, spalancate come sessi in calore, ma visi stupidi, ottusi, spiritati, mostruosamente stupidi e ottusi, maschere grottesche più che visi, occhi da pazze o spenti e senza luce, quasi ciechi, resi ancora più stupidi e ottusi dai capelli stopposi, posticci, artificiali, da bambole dei grandi negozi popolari o dei bordelli di periferia.

Julius Evola- Nudo di donna afroditica

“Nudo di donna afroditica” (1968-70), uno dei dipinti di Evola in grado di “sconvolgere” la finta morale di Costantini

Alcune di queste figure degradate recavano sul sesso il segno del mercurio attivo, il che alchemicamente, secondo la simbologia ermetica, rappresenta la sostanza universale.

[N.d.R.in questo cappello introduttivo, dopo un’iniziale narrazione discretamente attendibile, si giunge ad una morbosa descrizione dei soggetti femminili quali emergerebbero dai quadri di Evola, palesemente eccessiva, insistita e caricata nei toni, nelle aggettivazioni, nelle ripetizioni, nei superlativi e nelle conclusioni, che denotano la totale (e voluta) incapacità di interpretare queste opere nonché di capire la complessa e raffinata analisi evoliana quale emerge da “Metafisica del sesso” (ammesso che Costantini conoscesse l’esistenza di questo libro).  Il tutto, con la premessa: “Anche i dipinti rispecchiavano, per taluni aspetti, la sua biografia e la sua personalità”: il fine evidente era quello di disegnare, fin dall’inizio della presunta intervista, l’immagine di Evola come quella di una sorta di misogino pervertito, teorico della donna come mero oggetto di piacere, di cui esaltare solo l’aspetto sessuale. In fondo, nient’altro che la riproposizione della stereotipata immagine del cd. “fascista” sessista e maschilista].

[Inizia l’intervista con un frase di esordio di Evola]

«Non mi chiami professore. Io non sono né professore né dottore».

Come debbo chiamarla?

 «Mi chiami “mercante di donne e ladro di coralli”».

Simbologicamente?

«No, in senso letterale».

[N.d.R. – è piuttosto difficile pensare che Evola potesse autodefinirsi in questo modo, sia pure per prendersi gioco dell’intervistatore, per di più con la specifica che si tratterebbe di una definizione da intendersi “in senso letterale”. Di nuovo, Evola ne esce come una sorta di “magnaccia” dedito alla compravendita del corpo delle donne, oltre che … dei coralli (?)]

Lei non ha un’alta concezione della donna?

«Le donne sono pupattole, genere di consumo. Il segno del Tantrismo Yoga sul sesso sta a significare il momento dell’apertura, dell’esperienza del mondo. Io ho congiunto due segni: quello del Tantrismo Yoga e quello del controllo Bhoga. La connessione di questi due segni costituisce una ascesi che ti permette di farne, come suol dirsi, di tutti i colori. Modestamente, questa formula l’ho inventata io. Io ho fatto ogni tipo di esperienze. D’estate in alta montagna, a scalare le cime, d’inverno nelle capitali del mondo, da Vienna a Parigi, in incognito».

[N.d.R. – Si insiste ancora sul tema delle donne, che Evola definirebbe qui, senza mezzi termini, oltre che “pupattole”, addirittura “genere di consumo”. Neppure l’Evola più giovane, influenzato dal Weininiger di “Sesso e carattere”, sarebbe arrivato a tanto: ormai la maschera è calata, l’insistenza sull’argomento è tale che risulta fin troppo facile cogliere la totale falsità di questo primo breve scambio di battute. Osservava Spadaro nel suo citato articolo: “in questa intervista si fa dire a Evola di avere inventato una nuova formula tantrica (??!) che ‘permette di farne di tutti i colori’ (con le donne, s’intende)! ‘Modestamente questa formula l’ho inventata io’ … avrebbe detto il maestro. Chi conosce Evola non può trovare ciò che ridicolo. Mai Evola si sarebbe vantato di avere inventato niente. Per lui come per tutti i veri maestri la regola dell’impersonalità era legge”. Peraltro, come può facilmente notare chiunque abbia letto Evola e lo conosca bene, lo stesso modo di esprimersi in questa risposta, anche sintatticamente parlando, gli è del tutto estraneo].

segue nella seconda parte

***

Note

[1]La strada sbagliata della cogestione”, di Walter Petwaidic-Fredericia (N.d.R.).



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"In una civiltà tradizionale è quasi inconcepibile che un uomo pretenda di rivendicare la proprietà di una idea e, in ogni caso, in essa chi così facesse, con ciò stesso si priverebbe di ogni credito e di ogni autorità, poiché condannerebbe l’idea a non esser più che una specie di fantasia senza alcuna reale portata. Se una idea è vera, essa appartiene in egual modo a tutti coloro che sono capaci di comprenderla; se è falsa, non c’è da gloriarsi di averla inventata. Una idea vera non può essere «nuova», poiché la verità non è un prodotto dello spirito umano, essa esiste indipendentemente da noi, e noi abbiamo solo da conoscerla. Fuor da tale conoscenza, non può esservi che l’errore" (R. Guénon)

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