In quest’articolo uscito sul “Roma” nel novembre 1971, con l’intitolazione originaria di “Mefistofele e l’androgino”, Evola si soffermava brevemente sui due diversi modi di intendere il concetto di dio e di divinità, in sé e nelle sue relazioni col mondo manifestato.
Da una parte la via deduttiva, legata all’approccio di tipo fideistico al sacro, che porta alla concezione del Dio-persona, del dio antropomorfo, con la conseguente attribuzione allo stesso di caratteri necessariamente positivi e luminosi; una concezione che genera problemi laddove si debba giustificare l’esistenza del male, dell’elemento negativo, distruttivo, oscuro, conducendo inevitabilmente ad una concezione dualistica della dimensione spirituale e delle sue manifestazioni.
Dall’altra parte, la via induttiva, legata all’approccio più strettamente metafisico-esoterico al sacro, che conduce ad una concezione unitaria della divinità, in cui tutti gli opposti si fondono e vengono ricompresi: un’unità, una sintesi sovraordinata, trascendente, che va oltre gli schemi della mera razionalità umana.
L’intitolazione dell’articolo deriva da una celebre opera di Mircea Eliade, citata da Evola, in cui viene affrontato anche questo tema dell’unità trascendente in cui si riassorbono tutte le dualità e le opposizioni del sacro e del manifestato. Questo spunto ci consentirà, da una parte, di affrontare ancora il tema del “male” nelle religioni, nonché di tornare sul tema dell’androginia primordiale, affidandoci a contributi proprio di Mircea Eliade, nonché del “primo” Guénon.
***
Nell’immagine in evidenza, “La scala di Giacobbe” di William Blake
***
di Julius Evola
Tratto dal “Roma”, 27 novembre 1971
Per chi cerca di formarsi una idea della divinità e delle sue relazioni con la realtà del mondo, si presentano due vie, che si potrebbero chiamare deduttiva l’una, induttiva l’altra. Coloro che prendono la prima via – come fa abitualmente ogni credente – partono da un certo concetto a priori della divinità, conforme alla loro fede, e in base ad esso cercano di spiegarsi il mondo creato. Invece, seguendo la seconda via, quella induttiva, fattasi una idea realistica complessiva del mondo, ci si sforza di rappresentarsi quale divinità ne possa essere la creatrice e l’autrice.
Lungo la prima via nascono difficoltà di non poco rilievo quando si assume l’idea di un Dio personale con caratteri unicamente positivi, luminosi e, diciamo così, «morali». Infatti, nel mondo e nell’esistenza, è rilevabile anche il male, vi agiscono anche processi distruttivi e forze oscure, ed allora è da chiedersi come tutto ciò si concili con quella idea di Dio. Tale conciliazione è il problema che si è posto un ramo della teologia, che si chiama la «teodicea»: nel quadro del cristianesimo non si può dire che essa lo abbia mai risolto in modo soddisfacente.

Il Demiurgo
Già nei primi secoli del cristianesimo, le difficoltà furono messe in risalto in modo assai crudo da Marcione, nella forma di alternative. Da un lato, Marcione considerò il mondo secondo gli accennati aspetti anche oscuri e problematici; dall’altro, egli pose un Dio supposto saggio, buono e onnipotente. Dopo di che, Marcione ragionò cosi: se il mondo è quel che è (e non il «migliore dei mondi possibili», come avrebbe cercato di dimostrare la teodicea di Leibniz), Dio potrà anche essere buono, ma non onnipotente e saggio; oppure sarà onnipotente, ma non buono e saggio; oppure potrà essere saggio, ma né onnipotente né buono. Marcione credette di cavarsela ammettendo, in un certo modo, due divinità: l’una è il «Demiurgo», un dio creatore inferiore che è responsabile dell’essere, la creazione, quella che è; l’altra è un Dio Superiore, trascendente, veramente luminoso.
Per Marcione, il primo Dio sarebbe quello dell’Antico Testamento (che effettivamente non ha sempre tratti simpatici), il secondo, Dio dell’amore e della grazia, sarebbe quello rivelato dal Nuovo Testamento.
Per consolidare la sua tesi, Marcione, fra l’altro, si mise d’impegno per evidenziare quegli aspetti della realtà e dell’esistenza che, secondo lui, non parlano della suprema saggezza di un dio, e qui non manca anche uno spunto piccante quando dice che basta pensare alla «ridicola ginnastica» (sic) necessaria alla procreazione per convincersi che la creazione non è l’opera di un dio veramente saggio. (Forse, se le avesse conosciute, Marcione avrebbe fatto proprie le parole di quel famoso oratore greco che chiese alla divinità, a Zeus, se, avendo deciso che gli uomini dovessero riprodursi, non aveva saputo escogitare nulla di meglio della donna).

Faust e Mefistofele – particolare del Monumento a Goethe (Villa Umberto I, Roma)
Ma vi è anche un diverso modo di ridimensionare il concetto della divinità partendo dalla realtà del mondo. In uno dei saggi compresi nel volume, recentemente pubblicato in traduzione italiana dalle Edizioni Mediterranee e intitolato Mefistofele e l’androgino, lo storico delle religioni Mircea Eliade indica il ricorrere, in diverse civiltà, di una concezione, diciamo così, bifronte della divinità, tale da corrispondere ad una «coincidentia oppositorum»: un Dio che comprende in sé gli opposti, ciò che è luminoso e ciò che è tenebroso, il creativo e il distruttivo il bene e il male, dunque, se si vuole, tanto il Dio nel senso stretto tradizionale quando l’anti-Dio, il diavolo, Mefistofele o come altrimenti si vuole designare l’«altra metà».
È questa, una concezione diversa dalla veduta propria all’antica religione dualistica persiana (iranica, il mazdeismo), la quale si arresta all’opposizione di due principî originari (il Dio di luce contro Arimane) supposti coesistenti ma in una continua tensione e lotta. Con la concezione anzidetta si va, invece, oltre questa opposizione cosmica, ci si immagina una unità che la riprende e che la trascende. Una tale concezione, di certo sconcertante per ì più, ha avuto frequentemente relazioni col mondo dei Misteri e dell’iniziazione, ma qui essa valse come l’ultimo mistero esoterico, da non rivelare al profano. Essa si riflette, fra l’altro, anche nelle vedute del poeta e mistico inglese William Blake, il quale parlò di «nozze fra il paradiso e l’inferno».
È evidente che, partendo una tale idea della divinità o del Supremo Principio, il problema di spiegare il mondo e l’esistenza in tutte le sue antitesi viene meno, né vi è bisogno di supporre, con Marcione, una divinità subordinata, sola responsabile per la creazione e che, per così dire, non conosceva bene il suo mestiere. Ma forse la veduta più equilibrata ce la presenta la cosiddetta Trimurti dell’induismo.
Seguendo tale nota veduta, andrebbero considerati tre aspetti del Supremo Principio, personificati da altrettanti Iddii: l’aspetto creativo (Brahma), l’aspetto di conservazione dell’esistenza e dell’ordine (Vishnu), l’aspetto distruttivo («nero», Ҫiva). Con questa triade, è possibile tentare una interpretazione globale dell’universo e della vita nulla escludendo.
In tale contesto, si può forse rintracciare il modo in cui, nell’area della religione cristiana, nacque l’Idea di Satana. Al cristianesimo è stato proprio l’attribuire alla divinità solamente qualità positive, luminose, «morali». Data questa polarizzazione, tutto ciò che ha un carattere diverso e che, secondo l’anzidetta concezione metafisica e trascendente della divinità, era ripreso in una superiore, impenetrabile unità, doveva assumere i tratti di un principio a sé soltanto negativo – non dell’«altra metà» – nella persona, appunto, del diavolo, di Satana, Lucifero e simili. Con una accentuzione moraleggiante, si tornò dunque all’antica veduta dualistica.
Naturalmente, il concetto del «diavolo» comprende anche qualcosa di altro. Per un lato, il diavolo è il maligno e il tentatore. Per cercare di spiegarne la possibilità di esistenza nell’economia cosmica del divino, nel suo piano, vi è chi ha cercato di trasformarlo in uno strumento dello stesso divino. Così Goethe parlò di una forza che in sé vuole il male, ma che alla fine, a suo dispetto, propizia il bene. Ciò però non impedisce che, a parte l’«happy end» (il lieto fine), il volere il male caratterizzi il Satana o Lucifero cristiano, secondo i tratti del «contestatore», dell’oppositore, del ribelle per eccellenza, per professione o vocazione: tanto che quasi se ne potrebbe fare il patrono illustre di tante esagitate tendenze, sia pure velleitarie e assai profane, oggi in voga.
Proprio questo aspetto viene in rilievo nel delizioso romanzo La révolte des Anges di Anatole France. Gli angeli caduti e sgominati con Lucifero alla testa scendono in terra e si vanno riorganizzando per tentare le rivincite, facendo ricorso a rum; ciò che offrono loro sia la scienza, sia la magia. Tutto è così ben disposto che non sembrano esservi dubbi sul buon esito della impresa. Senonché Lucifero alla vigilia del grande giorno fa un sogno; sogna la vittoria, sogna che l’antico Dio è detronizzato, che lui ne prende il posto. Ma nel sentirsi l’onnipotente Dio di Luce, senza rivali, Lucifero viene preso da un tale senso di noia che, svegliatosi, dà subito il contrordine e manda tutto a monte. Egli preferisce restare l’eterno ribelle.
'Le due concezioni della divinità' has no comments
Vuoi essere il primo a commentare questo articolo?