Dopo il preambolo introduttivo, Evola entra nel merito della sua analisi “eretica” dei due “tipi” di nazionalismo, quello che si incontra nel processo discendente, disgregatore, e quello che si può invece incontrare in direzione opposta, ascendendo, nel processo di rinascita, dopo che si sia giunti a “toccare il fondo”. In tale contesto, il nazionalismo diventa un passaggio intermedio verso superiori forme di organizzazione statuale ed extrastatuale, il cui apice sarà rappresentato dall’Impero, in cui, come scriveva Evola en passant, “le élites delle varie stirpi sapranno porsi sopra un piano di vera superiorità spirituale, le vie saranno virtualmente aperte verso una nuova cultura universale (…) Ciò non vuol dire «internazionalismo», e tanto meno umanitarismo livellatore, (…) si tratta (…) invece di unità di cultura, di incontri in realtà sopraindividuali, (…) di una unità profonda di cultura e di spirito presso alla pluralità, spesso anche lottante, di Stati o razze etnicamente distinte. Se è il caso di parlare di una futura coscienza europea, solo in questo senso se ne deve parlare. Ma ciò va già oltre il compito propostoci“. In realtà, come già accennato e come vedremo, Evola sarebbe dovuto ritornare proprio su questa tema, alla luce delle polemiche che queste sue considerazioni suscitarono all’epoca.
Si può osservare come quest’analisi circa un “nazionalismo positivo” come tappa di un processo ascendente, che proceda dalle ceneri di un disfacimento generazionale, sia di grande attualità. Infatti, proprio in questi anni l’Unione Europea costituisce il cavallo di Troia dei poteri mondialisti nel nostro continente, presentandosi come il perfetto modello rovesciato dell’Europa quale Imperium organico di tipo superiore, e quindi come lo strumento per dissolvere la grande Tradizione Europea in quell’internazionalismo anodino, omologante e livellatorio aborrito da Evola e dagli autori tradizionali. L’avvento della società ormai liquefatta e sfaldata, anonima e massificata, dopo il tramonto dei regimi di socialismo reale, si sta realizzando tramite la globalizzazione del modello capitalistico e dei suoi (sotto)sviluppi sul piano sociale e comunitario, e tale processo trova nel nostro continente quale efficiente sentinella proprio il mostro dell’Unione Europea. In tal senso, la riscoperta di patrie (Vaterland) e piccole patrie (Heimat) in una fase di voluta frammentazione di questa falsa unità rovesciata, poggiante sulla materia massificata e non sullo spirito, potrebbe inquadrarsi in prospettiva proprio in questo processo di rinascita ascendente di cui ci parlava Evola.
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di Julius Evola
Pubblicato inzialmente su “La Vita italiana” (marzo 1931) e successivamente inserito nella raccolta “Fascismo e Terzo Reich”.
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segue dalla prima parte
Ed ora, abbiamo tutti gli elementi per affrontare seriamente il problema: Quale è il senso del nazionalismo nel mondo moderno?
Un tipo di nazionalismo si presenta già da quanto si è detto con chiara fisionomia: è il grado immediatamente antecedente alle forme internazionali del collettivismo economico-proletario. In questo nazionalismo infatti importante non è il fatto del sorgere di una coscienza nazionale distinta di contro ad altre, ma il fatto che la «nazione» vi diviene una persona, un ente a sé, e l’incapacità a sorpassare quel diritto della terra e del sangue, che concerne solo l’aspetto naturale e infraintellettuale dell’uomo, l’impossibilità del singolo a valorizzarsi altrimenti che in termini di una data collettività e di una data tradizione (4), vengono elevati a valori etici. Il fatto di essere «nazionale», qui va a conferire ad ogni cosa una vera e propria aureola mistica che ne tutela l’inviolabilità e ne impone il rispetto.
Questo elemento etnico infraintellettuale nonché non riconoscere autorità a principi superiori, riduce al proprio servigio tali principi: la «nazione» esige il primo tributo – solo in un secondo tempo, e subordinatamente, v’è posto per la realtà, la verità e lo spirito. Ma in certe forme nazionalistiche, si va anche più oltre: si accusa di astrattismo ogni criterio disinteressato e oggettivo, si pretende che anche per la realtà, la verità e la cultura non si può prescindere dalla tradizione nazionale e dall’interesse politico: onde si parla della nostra tradizione scientifica, filosofica e persino religiosa (4), e contro tutto ciò che non è «nostro» e che non «valorizza la nazione» si pone già una pregiudiziale di disvalore o, almeno, di disinteresse sospettoso.
E come non si tollera che attività superiori si manifestino liberamente, sì da creare una realtà superiore a quella etnicamente condizionata, cosi nei quadri di un tale nazionalismo non vi è rispetto per la personalità superiore che in quanto essa sia «esponente» della nazione. Nato presso alle rivoluzioni che hanno travolto i resti del regime aristocratico-feudale, questo nazionalismo esprime dunque un puro «spirito di folla» – è una varietà dell’intolleranza democratica per ogni capo che non sia un mero organo della «volontà popolare», in tutto e per tutto dipendente dalla sanzione di questa. Cosi noi vediamo facilmente che fra nazionalismo e anonimato alla sovietica o all’americana, in fondo vi è solo una differenza di grado: nel primo il singolo è ridissolto nei ceppi etnico-nazionali d’origine, nel secondo vien sorpassata la stessa differenziazione propria a questi ceppi etnici, e si produce una più vasta collettivizzazione e disintegrazione nell’elemento massa.
A portar dall’un grado all’altro, basta che la mistica della razza dia luogo ad una struttura di tipo puramente economico-meccanico. In tale struttura, per sua natura impersonale, gli ultimi residui di differenza qualitativa vengono infatti estirpati, e con la razionalizzazione e la meccanizzazione della vita sociale restano virtualmente aperte le vie per l’avvento dell’uomo-massa senza patria. Ora, dato che il piano della civiltà d’oggi è appunto quello della potenza economico-meccanica e ad esso, più o meno direttamente, vien ricondotto ogni criterio dei valore e della grandezza, per trapassi del genere forse non sarà questione che di tempo.
Ma si può chiedere: può il nazionalismo assumere anche un altro significato? A tale quesito, pensiamo che si possa rispondere affermativamente. Si e detto che il nazionalismo appare come una forma di passaggio ai lati del dominio politico venuto in mano alla terza casta, ma prima del dominio dell’ultima casta. Ora, questa stessa sua natura lo rende suscettibile di un doppio significato, perché, se si può incontrare questa forma di passaggio nella direzione di caduta, si può altresì incontrarla nella direzione di un risollevamento, di una eventuale reintegrazione. Supponendo che si sia toccato il fondo, chi trovasse ancora la forza per risollevarsene, incontrerebbe di nuovo il nazionalismo – ma un altro nazionalismo! Come per le grandezze dette «vettoriali» in fisica, questo fenomeno non si definisce dunque che sulla base di un fattore di direzione.

Paul Bottischer (1827-1891), che mutò il nome in Paul de Lagarde, uno dei principali fondatori e teorici del movimento völkisch germanico
Per il primo nazionalismo, la direzione e verso la collettivizzazione, realizzata nel grado di «nazione» – per il secondo, essa dalla collettivizzazione va invece verso la ricostruzione di una nuova gerarchia aristocratica.
Ad esprimere i presupposti di questo secondo nazionalismo, valgono egregiamente le parole di Paul de Lagarde, il noto esponente del nazionalismo tedesco (5): l’essere «umano» è un meno rispetto all’essere «nazionale», e l’essere «nazionale» e un meno rispetto all`essere «persona» – in altri termini: rispetto alla qualità «umanità» l’elemento di differenza «nazione» aggiunge un incremento di valore X, e l’elemento della personalità singola aggiunge a questo X un ulteriore incremento di valore Y. E dunque l’idea di una gerarchia che dall’astratto va verso il concreto, e l’astratto è il collettivo, il generale; il concreto é invece la differenza, l’individuale. Rispetto alla massa amorfa «umanità», il risorgere delle coscienze nazionali differenziate può dunque costituire un primo progresso: ma la coscienza nazionale, il tronco etnico deve rappresentare a sua volta una materia informe rispetto alle individualità che compiendosi, divenendo sé stesse, attuandosi in forme di vita superiori a quelle semplicemente condizionate o dal sangue, o dalle esigenze collettive, la portano dallo stato di caos a quella di cosmos, dalla potenza all’atto. E allora i rapporti si capovolgono: la nazione non è più il fine dell’individuo, ma invece l’individuo, come personalità aristocratica e spirituale, è il fine della nazione, per quanto questa resti quasi la sua madre, quasi nella condizione materiale che la terra può rappresentare rispetto ad un albero, che pur se ne svincola con le sue parti superiori e si innalza verso le libere altezze.
Così, il punto fondamentale della differenza è dato. A chiarirlo definitivamente, basta riandare al senso qualitativo dell’antica gerarchia delle caste. Non è possibile un nazionalismo che sia preludio di risurrezione, non avviamento allo, ma superamento dello stato meccanico-collettivistico, quando non si ponga l’esigenza-base di restaurare un ordine di valori irreducibili a tutto ciò che è pratico, «sociale» ed economico, per conferire a tali valori un primato e una autorità diretta su tutto il resto. Senza di ciò, non esiste gerarchia e senza gerarchia il ritorno ad un tipo superiore, spiritualizzato di Stato non è possibile. Infatti gerarchia non significa semplicemente subordinazione, ma vuol dire subordinazione di ciò che ha natura inferiore a ciò che ha natura superiore, e inferiore e tutto ciò che può misurarsi in termini pratici, interessati, mondani; superiore è ciò che esprime una forma pura e disinteressata di attività. Ogni altro criterio è illusorio o pervertitore.
«Illusorio» è il caso, ogni qualvolta si pensa ad una gerarchia nei quadri della mera economia, sulla base dunque di differenze di danaro, di rango politico, impiegatizio, di classe in senso marxistico, e cosi via. Solamente col sorgere di interessi superiori al piano economico preso in blocco, può nascere il principio di una vera gerarchia: bisogna partire dall’idea che noi non viviamo per sviluppare un’economia, ma che l’economia è mezzo a fine: ma questo fine è la elevazione interna, il dispiegamento della personalità in senso integrale e «sovramondano». La gerarchia è poi addirittura «perversione», quando esprime l’asservimento di ciò che non è pratico a ciò che è pratico, lo spirito che si fa organo del corpo, e, purtroppo, col «pragmatismo» imperante su tutti i piani, perfino su quello della scienza, col machiavellismo spicciolo e l’arrivismo generale, ciò si verifica oggi nella gran maggioranza dei casi. Nulla di più antigerarchico e anzi di più anarchico che non simili tipi fittizi di gerarchie.
Nei quadri di un nazionalismo restauratore, si tratta dunque di questo: anzitutto dare forma d’ordine a tutto ciò che nel tutto sociale corrisponde alla parte corporeo-vitale o animale di un organismo umano e che fu dominio delle due classi inferiori: lavoro, economia, organizzazione politica in senso stretto, fino ad una «pace economica» che, «scaricando», permetterà ad energie di tipo superiore di liberarsi e di agire su un piano più alto. Allora si comincerà a dar mano alla ricostruzione della seconda casta, che è quella dell’aristocrazia guerriera, con il primo degli aristòcrati, il Monarca.
È aristocrazia immediata in cui può realizzarsi l’ideale della formazione superiore della personalità. Non si guardi ai ceppi corrotti e degeneri, contro cui si esercita una facile critica demagogica: si guardi al tipo originario del Signore, quale essere in cui la padronanza di sé, la finezza, il disinteresse, la cultura, l’onore, la fedeltà e soprattutto le qualità dei capi sono divenute una conquista consolidata sopra la salda base di un sangue. L’aristocrazia è il necessario prolungamento del nazionalismo positivo, perché se questo delinea i confini di un sangue, di un tronco etnico, quella entro tali confini opera una selezione e una differenziazione ulteriore, portando ad un più alto grado il processo dal generale e dal collettivo verso l’individuale, che è il senso di ogni vero progresso.
Giunti alla ricostruzione di una tradizione aristocratica, il primo barlume di spirito nel corpo dello Stato sarà infuso, e il nazionalismo, assolto il proprio compito, potrà dar luogo a forme superiori, corrispondenti ai tipi di Stati che furono retti dalla seconda casta. Ciò sarà caratterizzato da una assoluta personalizzazione di tutti i rapporti; dal passaggio dal meccanico all’organico, dalla costrizione alla libertà. Per esempio, in altri tempi, non esistevano soldati, ma guerrieri, e non ci si batteva per la «nazione» o per il «diritto», ma per il proprio Re; non si «obbediva» alla «legge sociale», ma si era «fedele» al proprio Signore. Chi si sottometteva, sapeva a chi si sottometteva, e lo faceva quasi con fierezza. La responsabilità era direttamente assunta da Capi, da Monarchi, e non scaricata su entità senza volto, su tabù ideologici. L’autorità era poggiata sulla grandezza della personalità e sulla capacità di darsi a ciò che non si lascia né comprare, né vendere, né misurare in termini di «utile»; che non più è del «vivere», ma già del «più che vivere».
A sua volta, questa sarà la base per un tipo di Stato di forma ancor più alta, però troppo lontano perche qui sia il caso anche solo di accennarne. Tuttavia si può rilevare che come più uomini possono rimaner liberi e distinti come corpi, ma esser uni in un’unica idea, cosi quando le élites delle varie stirpi sapranno porsi sopra un piano di vera superiorità spirituale, le vie saranno virtualmente aperte verso una nuova cultura universale. Ciò non vuol dire «internazionalismo», e tanto meno umanitarismo livellatore, creature, entrambi, di una mentalità materialistica: giacché la realtà e la distinzione politica degli Stati sta allo stesso livello di quella dei corpi, e non è di unità di corpi che si tratta, sì invece di unità di cultura, di incontri in realtà sopraindividuali. Sia il Medioevo cattolico, sia l’Impero romano, sia l’India ci mostrano esempi di questa universalità: ci mostrano la possibilità di una unità profonda di cultura e di spirito presso alla pluralità, spesso anche lottante, di Stati o razze etnicamente distinte. Se è il caso di parlare di una futura coscienza europea, solo in questo senso se ne deve parlare.
Ma ciò va già oltre il compito propostoci, di delineare i due opposti significati del nazionalismo. Tali significati, pensiamo risultino ora ben chiari. Quanto all’esaminare in che misura obbedisca all’uno o all’altro la varietà dei nazionalismi oggi presenti e lottanti nei vari Stati, questo è un problema di carattere empirico, che cade interamente fuori dalla nostra considerazione.
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Note
(4) Quando – come ora – parliamo di tradizione in senso negativo, vogliamo riferirci a quel suo concetto, che non implica alcun elemento veramente intellettuale, quindi superetnico, e che – per dirla col Chesterton – rappresenta una estensione nel tempo di ciò che rispetto allo spazio è il diritto accordato alle maggioranze: il diritto dei morti sui vivi, poggiato sul fatto di esser morti di una stessa razza.
(5) P. de Lagarde, Deutsche Schriften, vol. I, p. 164.
L’immagine in evidenza è un’opera del disegnatore e vignettista olandese Louis Raemaekers (1869-1956).
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