Ernst Jünger e lo spirito del fronte come realtà permanente (II parte)

Adriano Romualdi completa la sua analisi sulla figura di Ernst Jünger, allargando gradualmente la sua prospettiva al rapporto che lo stesso Jünger ed altri importanti esponenti della Konservative Revolution ebbero con il nazionalsocialismo, prima e dopo la sua ascesa al potere.

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Nell’immagine in evidenza, un reparto dei Freikorps di Franz Von Hepp mentre fa ingresso a Monaco di Baviera, dove avrebbe contribuito nel maggio 1919 alla sanguinosa repressione della Repubblica Bavarese dei Consigli, o Repubblica Sovietica Bavarese, instauratasi l’anno precedente. Von Hepp, durante la prima guerra mondiale, aveva guidato l’Infanterie-Leibregiment bavarese su vari fronti di battaglia, tra cui l’Isonzo.

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di Adriano Romualdi

segue dalla prima parte

(tratto da  Correnti politiche e ideologiche della destra tedesca dal 1918 al 1932)

La concezione di Jünger è influenzata sia dall’immagine d’un certo bolscevismo, sia da quella del nazionalsocialismo. Essa tende a porre sé stessa come un “realismo eroico”: il credo d’una personalità levigata a un’asperità aspra e asciutta dalle esigenze d’una grandiosa mobilitazione alla lotta. Essa potrà apparire poco tranquillizzante, e persino sprezzante e cinica ai custodi dell’umanesimo democratico ma quanto più cinico, quanto più prussiano, più spartano e più bolscevico, e tanto meglio. Si tratta di ridestare veri valori spirituali, fondati sul sacrificio e sul coraggio, sulla serietà e l’ampiezza dell’impegno, sì che «il disprezzo del nuovo tipo per gli pseudo-valori umanistici non sarà mai abbastanza grande» e «quanto meno cultura ci sarà, in tale strato, tanto meglio sarà». Jünger ha rispetto della cultura delle epoche organiche – epoca in cui ogni creazione artistica era l’atto di una fede e un servigio alla totalità – ma condanna gli epigoni della cultura borghese, la cultura come accademia, salotto, museo, la quale «è una specie di stupefacente».

Già nei suoi diari di guerra aveva scritto: «Godiamo nel mondo la fama di distruttori di cattedrali: ciò vuol dir molto in un’epoca in cui la coscienza della propria sterilità allinea un museo accanto all’altro».

Come lo Jünger si ponga il problema della presa del potere di questa nuova élite tipo dell’“operaio” non è chiaro del tutto. Egli ha in mente comunque una specie di partito unico su base d’élite, un ordine secondo il modello prospettato da anni dagli ideologhi bündisch. In taluni punti egli parla di quest’ordine come della “coscienza armata dello stato”. Esso è il detentore del potere politico che domina, in asperità e semplicità di vita, le forze della ricchezza e dell’economia:

«Come fa piacere vedere libere tribù del deserto che, vestite di cenci, per unica ricchezza hanno i loro cavalli e le loro armi preziose, così pure piacerebbe vedere il grandioso e prezioso armamentario della civilizzazione servito e diretto da un personale vivente in una povertà monacale e soldatesca. È questo uno spettacolo che dà una gioia virile e che si è rinnovato ovunque, in vista di grandi compiti, all’uomo sono state poste esigenze superiori. A tale riguardo fenomeni come l’Ordine dei Cavalieri Teutonici, l’esercito prussiano, la Compagnia di Gesù sono dei modelli, e si deve rilevare che a soldati, a sacerdoti, a scienziati e ad artisti è proprio un rapporto naturale con la povertà»[17].

Di tutti i dottrinari della “rivoluzione conservatrice”, lo Jünger – per la sua mescolanza di socialismo e nazionalismo “soldateschi” – è quello che più si avvicina al nazionalsocialismo, assai più dei teorici corporativismi alla Spann, o dei conservatori prussiani alla Spengler. Non sorprende che i nazisti abbian cercato di guadagnarselo per sé, offrendogli un mandato parlamentare, e che Goebbels lo abbia lungamente corteggiato per farne un “intellettuale fiancheggiatore”. E tuttavia Jünger si tenne da parte:

«I “nazionali” all’inizio credevano che i libri di guerra di Jünger avessero fatto di lui uno dei loro. Ma egli in fondo si disinteressava di loro. I comunisti hanno voluto vedere ne L’operaio il cantico dell’Unione Sovietica. Jünger invece si tenne da parte. I nazionalsocialisti speravano di guadagnare a sé il teorico della mobilitazione totale nel loro areopago letterario. Egli ringraziò con un inchino ironico e rifiutò. Dopo il 1945 i propugnatori di un’Europa democratica se la presero con l’autore dello scritto più acuto sulla fine dello stato nazionale e sulla necessità di una soluzione europea perché egli si rifiutò di figurare nell’intestazione della loro carta da lettere. Jünger si è dovuto difendere anche troppo spesso da alleati non desiderati, in particolare da quelli “che ci appoggiano anche nei nostri lati più deboli purché siamo d’accordo con loro nella polemica”»[18].

Ernst Von Salomon

A prescindere da particolari considerazioni sull’individualismo d’uno Jünger, il suo atteggiamento di diniego è comunque quello di tutto un certo settore dell’intellighenzja di destra tedesca, che si rifiuta di avvallare con la sua firma il crescente conformismo partitico del nazionalsocialismo. Il gennaio del 1933, in cui il nazionalsocialismo raggiunge il potere, rappresenta al tempo stesso il momento di massima popolarità del movimento, ma anche quello in cui esso comincia ad alienarsi le simpatie d’un certo settore qualificato che aveva contribuito alla sua ascesa. Mentre una parte dei dottrinari della “rivoluzione conservatrice” passa al nazionalsocialismo – e qui sian nominati, oltre i razzisti Clauss e Günther, anche i filosofi conservatori come un Bäumler o un Krieck – tutta un’altra parte si tiene al di fuori, in atteggiamento di critica più o meno dissimulata. È la cosiddetta “emigrazione interna”, di cui si è fatto un gran parlare nella Germania del dopoguerra – non solo per l’alibi offerto dalla formula, ma perché corrispose effettivamente a un sentimento diffuso. Da questo punto di vista, tre libri di memorie come Jahre der Okkupation di Jünger, Doppelleben di Gottfried Benn e Der Fragebogen di Ernst von Salomon sono esemplari, in quanto ci permettono di cogliere in tutte le sfumature l’iniziale simpatia per l’hitlerismo che si muta col tempo in perplessità e poi in ostilità consapevole. È tutto un lento movimento che si può far cominciare già alla vigilia della Machtergreifung [19] – o al più tardi col 30 giugno 1934 – e che si continua fino al 20 luglio del ’44.

Von Salomon, che ne I proscritti ci ha fornito un reportage senza uguali del periodo compreso tra la rivolta del 1919 e l’assassinio di Rathenau, e in Die Stadt un quadro della Berlino degli ultimi anni della Repubblica di Weimar, rappresenta in Io resto prussiano (titolo italiano di Der Fragebogen) una delle fonti principali per conoscere dappresso quegli ambienti in cui maturò l’opposizione contro la repubblica che doveva sfociare nel nazismo. È una realtà complessa, un intrico di uomini e di posizioni, dalla quale emergono personaggi oggi dimenticati, come il capitano Ehrardt – l’uomo che aveva marciato su Berlino con la sua brigata realizzando il Putsch di Kapp – che fu una delle maggiori speranze del nazionalismo, e che collaborò inizialmente con Hitler a Monaco. Anzi, molte pagine di Mein Kampf furono scritte successivamente in velata polemica col capitano Ehrardt.

In genere, ciò che mortifica gli esponenti della “rivoluzione conservatrice”, sono il conformismo di massa imposto dal nuovo regime (spiacevole anche per molti convinti nazisti, come un Hans F.K. Günther: si veda il recente libro Mein Eindruck von Adolf Hitler, München 1968), il rigore con cui esso procede contro elementi dell’opposizione nazionale che esitano ad allinearsi, e la persecuzione contro gli Ebrei.

Non che la “rivoluzione conservatrice” non fosse, più o meno, colorata d’antisemitismo, ma le forme assunte dalla persecuzione degli Ebrei nel Terzo Reich, che non s’arresta neppure di fronte ai pochi ebrei “nazionali” – come, ad esempio, un Hans Joachim Schoeps, animatore d’una Jüdische Vortrupp (Avanguardia ebrea), accesamente nazionalista e antirepubblicana – creano un generale disagio. Ad esempio, i fratelli Jünger si dimettono dalla lega degli ex-appartenenti al 73° reggimento di fanteria quando questa decreta l’espulsione dei membri ebrei. Per parte sua Spengler aveva scritto in Anni decisivi, apparso nel 1934, «chi parla troppo di razza, dimostra di non averne nessuna».

In particolare, la purga del 1° luglio 1934 costituisce un forte shock per i dissidenti della destra nazionale: se da una parte, con Röhm e la sua banda, vengono eliminati alcuni degli elementi più spiacevoli del nazionalsocialismo, Hitler lascia però un “biglietto da visita insanguinato” nella casella di ciascuno dei gruppi dissenzienti. L’uccisione di Strasser è un avviso ai nazionalrivoluzionari e agli eretici di sinistra, quella di Walter Schotte un avvertimento ai conservatori cattolici, quella di Edgar Jüng una minaccia anch’essa destinata a gruppi conservatori di Monaco. Non per nulla gli scritti politici di Oswald Spengler erano usciti non molto prima con una fascetta col giudizio elogiativo di Jüng.

Con la “notte dei lunghi coltelli”, colpendo a destra e a sinistra, il nazismo recise il cordone ombelicale che lo teneva legato a quel complesso mondo dei circoli, dei cenacoli, delle sette che aveva costituito, negli Anni Venti, il vivaio della “rivoluzione conservatrice”. E tuttavia una specie di dialogo continuò fino alla fine tra il regime e gli uomini dell’opposizione nazionale: essi appartenevano, per l’ambiente, le relazioni, le amicizie, al fronte che aveva abbattuto la Repubblica di Weimar: per quanto scontenti potessero essere del nuovo stato di cose, non avrebbero comunque potuto prendere la via dell’esilio. Accusati all’estero come “precursori”, costretti in Germania al silenzio, scelsero la via della cosiddetta “emigrazione interna”. Non cambian di fronte, ma tra di sé accusano Hitler di dissipare e di tradire le speranze, gli entusiasmi, le energie del nazionalismo tedesco.

È la reazione di von Salomon che ascolta alla radio il discorso di Hitler che annuncia l’eccidio delle SA e si ribella contro una ragion di stato che gli pare crudele e ipocrita. È il melanconico bilancio di Ernst Jünger che dopo la guerra ripensa alla schiera dei suoi lettori sacrificati su tutti i fronti. È la disillusione d’un Gottfried Benn, espostosi come sostenitore del nuovo regime nei primi mesi del ’33, ma presto messo a tacere dalle gerarchie culturali del partito come “artista degenerato”. Benn sceglie quella che egli definisce “la forma aristocratica dell’emigrazione”, e cioè il servizio nella Wehrmacht, dove dal 1935 al 1945 espletò le funzioni di medico militare. Anche per Jünger, ritiratosi in un’estetica torre d’avorio e, durante la guerra, nell’aristocratico consesso del comando di von Stülpnagel a Parigi, la Wehrmacht è il rifugio che consente di mantener le distanze da quelle spiacevoli realtà che sono il partito e la Gestapo.

E tuttavia, sarebbe troppo semplice ridurre l’atteggiamento di questi personaggi alla netta “opposizione”. Se è “opposizione”, lo è d’un genere particolare e privilegiato. Von Salomon redige una pubblicazione semiufficiale che rievoca le lotte dei Corpi Franchi. E il romanzo di Jünger, Sulle scogliere di marmo [20], non è in nessun modo un romanzo antinazista: contro il Forestaro, simbolo di quelle forze del caos e dell’anarchia che vogliono livellare le antiche stratificazioni affermatesi nel paesaggio della civiltà, il personaggio di Braquemart – il nichilista discepolo di Nietzsche, che riscopre le primordiali civiltà schiaviste – è pur sempre l’alleato del principe Sunmyra, rappresentante dell’aristocrazia, e dei due protagonisti, che altro non sono che l’autore e il fratello Friedrich Georg. Jünger stesso ha raccontato come per le Scogliere di marmo il Reichsleiter Bouhler abbia chiesto la sua testa, e come Hitler in persona, che apprezzava i suoi libri di guerra, si sia intromesso.

In realtà, i fronti della rivoluzione nazionale eran stati in origine confusi l’un l’altro, e dalle stesse file vennero i sostenitori e gli oppositori del regime, i persecutori e i perseguitati, le vittime e i carnefici. E come ha rievocato Ernst Jünger molti anni dopo, nei suoi diari:

«I circoli nazionalistici mi appaiono oggi come i fuochi degli accampamenti che annunciano la partenza generale. Questo sarebbe stato il loro posto naturale: le mansarde berlinesi e le cantine di Amburgo non facevano che fornire lo stile dell’epoca. La mattina, il gruppo si disperdeva, per conservarsi, come si legge nelle saghe nordiche. I più fortunati cadevano sui campi di battaglia. Altri dovevano fuggire al di là dei confini nazionali, venivano cacciati, ammazzati a colpi di bastone, impiccati, torturati oppure, accerchiati, si suicidavano. Altri ancora diventavano comandanti, capi di polizia, luogotenenti, ribelli, ergastolani, per poi essere spogliati di tutti questi attributi, come fossero un mazzo di carte che a partita finita viene raccolto e messo da parte. Come avviene che alcune di queste serate mi sono rimaste così impresse nella memoria? Probabilmente perché in esse tutto ciò, tutto quel che doveva avvenire, era già contenuto, sia pure in modo divinatorio, in una maniera spirituale, sublime, che accomunava tutti, mentre non vi era ancora traccia alcuna della futura grossolanità a senso unico, della irrevocabilità che sopraggiunge con l’azione. Così, il ricordo portava una specie di armistizio tra coloro che si incontravano in campi nemici. Qualche volta, nei periodi di crisi, avevo la sensazione che questo spirito fosse ancora vivo, tanto da agire dietro le quinte, per esempio nel far archiviare un procedimento, nel far sparire dei documenti, oppure nel far trovare pronto per la fuga un aereo».

Note

[17] Cit. da J. Evola, L’Operaio nel pensiero di Ernst Jünger, cit., p. 75.

[18] K. O. Paetel, Ernst Jünger in Selbstzugnissen und Bilddokumenten, Hamburg 1962, pp. 56-57.

[19] In tedesco, “la presa del potere”. Con questo termine in particolare passò alla storia la nomina di Adolf Hitler a Cancelliere del Reich da parte di Von Hindenburg il 30 gennaio 1933 (N.d.R.).

[20] [E. Jünger, Auf den Marmorklippen, Hamburg 1939. Traduzione italiana di Alessandro Pellegrini Sulle scogliere di marmo, Mondadori, Milano 1942. Ultima ed. italiana Guanda, Parma 1998.]



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