Essere di Destra

di Julius Evola

(tratto dal “Roma”, 19 marzo 1973)

Destra e Sinistra sono designazioni che si riferiscono ad una società politica già in crisi. Nei regimi tradizionali esse erano inesistenti, almeno se prese nel loro significato attuale; in essi poteva esservi una opposizione, però non rivoluzionaria, ossia mettente in questione il sistema, bensì lealistica e in un certo modo, funzionale; così già in Inghilterra, dove si poté parlare di una His Majesty’s most loyal [1], ossia di una «lealissima opposizione di Sua Maestà». Le cose sono cambiate dopo l’affacciarsi dei movimenti sovvertitori di tempi più recenti, e si sa che in origine la Destra e la Sinistra si sono definite in base al luogo occupato rispettivamente nel parlamento dagli opposti partiti.

A seconda dei piani, la Destra assume significati distinti. Vi è una Destra economica a base capitalistica non priva di una sua legittimazione se essa non prevarica e se la sua antitesi è il socialismo e il marxismo.
Quanto ad una Destra politica, essa di rigore acquista il suo pieno significato se esiste una monarchia in uno Stato organico: come ne è stato il caso soprattutto nell’Europa centrale, in parte anche nell’Inghilterra conservatrice.
Ma si può anche prescindere da presupposti istituzionali e parlare di una Destra nei termini di un orientamento spirituale e di una visione del mondo. Allora esser di Destra significa, oltre ad esser contro la democrazia e contro ogni mitologia «sociale», difendere i valori della Tradizione come valori spirituali, aristocratici e guerrieri (in via derivata, anche con riferimento ad una severa tradizione militare, come, ad esempio, è avvenuto nel prussianesimo). Significa inoltre nutrire un certo disprezzo per l’intellettualismo e per il feticismo borghese dell’«uomo colto» (l’esponente di una antica famiglia piemontese ebbe paradossalmente a dire: «Divido il nostro mondo in due classi: la nobiltà e coloro che hanno una laurea» e Ernst Jünger, di rincalzo, valorizzò l’antidoto costituito da un «sano analfabetismo»).

Georges Bernanos

Georges Bernanos (1888-1948)

Esser di Destra significa anche essere conservatori, però non in un senso statico. Il presupposto ovvio è che vi sia qualcosa di sussistente degno di esser conservato, il che però mette di fronte ad un difficile problema ove ci si riferisca a ciò che ha costituito l’immediato passato dell’Italia dopo la sua unificazione: l’Italia ottocentesca non ci ha lasciato di certo mi retaggio di superiori valori da tutelare, atti a servire da base. Anche risalendo più indietro, nella storia italiana non s’incontrano che sporadiche posizioni di Destra; è mancata una forza unitaria formatrice quale è esistita in altre nazioni, da tempo rese salde da antiche tradizioni monarchiche di una oligarchia aristocratica.

Comunque, nell’affermare che una Destra non deve essere caratterizzata da un conservatorismo statico s’intende dire che debbono bensì esistere certi valori o certe idee di base come un saldo terreno, ma che ad esse debbono venir date diverse espressioni, adeguate allo sviluppo dei tempi, per non lasciarsi scavalcare, per riprendere, controllare e incorporare tutto ciò che via si manifesta col mutare delle situazioni. Questo è il solo senso nel quale un uomo di Destra può concepire il «progresso»; non è il semplice movimento in avanti, come troppo spesso si pensa soprattutto fra le sinistre; di una «fuga in avanti» ha potuto parlare acconciamente, in questo contesto, il Bernanos («Où fuyez-vous en avant, imbéciles?») (2). Il «progressismo» é una fisima estranea ad ogni posizione di Destra. Lo è anche, perché in una considerazione generale del corso della storia, con riferimento ai valori spirituali, non a quelli materiali, alle conquiste tecniche, eccetera, l’uomo di Destra è portato a riconoscere una discesa, non un progresso e una vera ascesa. Gli sviluppi dell’attuale società non possono che confermare questo convincimento.

Le posizioni di una Destra sono necessariamente antisocietarie, antiplebee e aristocratiche; così la loro controparte positiva sarà da valersi nell’affermazione dell’ideale di uno Stato ben strutturato, organico, gerarchico, retto da un principio di autorità. A quest’ultimo riguardo si affacciano però delle difficoltà in ordine a ciò da cui tale principio può trarre il suo fondamento e il suo crisma. È ovvio che esso non può venire dal basso, dal demos, nel quale, con buona pace pei mazziniani di ieri e di oggi, non si esprime per nulla la vox Dei, se mai proprio il contrario. E debbonsi anche escludere le soluzioni dittatoriali e «bonapartistiche», le quali possono valere solo transitoriamente, in situazioni di emergenza e in termini contingenti e congiunturali.

Juan Donoso Cortes-tradizione-destra

Juan Donoso Cortés

Di nuovo, ci si vede costretti a riferirsi invece ad una continuità dinastica, sempreché, considerando un regime monarchico, si abbia in vista almeno ciò che è stato chiamato il «costituzionalismo autoritario», ossia un potere non puramente rappresentativo ma anche attivo e regolatore, sul piano di quel «decisionismo» di cui già parlarono un De Maistre e un Donoso Cortés, con riferimento a decisioni costituenti l’estrema istanza, con tutta la responsabilità che vi si lega e che va assunta di persona, quando ci si trova di fronte alla necessità di un intervento diretto perché l’ordinamento esistente è entrato in crisi o nuove forze urgono sulla scena politica.

Ripetiamo però che il respingere in questi termini un «conservatorismo statico» non riguarda il piano dei princìpi. Per l’uomo di Destra dei princìpi costituiscono sempre la salda base, la terra ferma di fronte al mutamento e alla contingenza, e qui la «controrivoluzione» deve valere una precisa parola d’ordine. Se si vuole, ci si può riferire, invece, alla formula, solo in apparenza paradossale, di una «rivoluzione conservatrice». Essa concerne tutte le iniziative che si impongono per la rimozione di situazioni negative fattuali, necessaria per una restaurazione, per una ripresa adeguata di ciò che ha un valore intrinseco e che non può essere oggetto di discussione. In effetti, in condizioni di crisi e di sovvertimento, può dirsi che nulla abbia un carattere così rivoluzionario quanto la ripresa di tali valori. Un antico detto è usu vetera novant [3], ed esso mette in evidenza lo stesso contesto: il rinnovamento che può realizzare la ripresa dell’«antico», cioè del retaggio immutabile tradizionale.
Con ciò, crediamo che le posizioni dell’uomo della Destra restano chiarite a sufficienza.

Note

[1] Probabilmente per un errore di stampa, nell’articolo originale manca la parola finale della citazione, e cioè “opposition”. La frase integrale, “His Majesty’s most loyal opposition”, fu peraltro riportata da Evola anche nell’articolo La Destra e la Tradizione, apparso su La Destra, n. 5, Roma, maggio 1972, cui si rinvia all’interno del nostro sito (N.d.R.).

[2] Evola cita lo scrittore francese Georges Bernanos (1888-1948), anche se la citazione è leggermente errata nella forma, pur se il contenuto sostanzialmente non cambia: in luogo dell’espressione riportata da Evola, che letteralmente si dovrebbe tradurre come “Dove fuggite in avanti, idioti?”, l’originale di Bernanos recita: “Que fuyez-vous donc ainsi, imbéciles?”, vale a dire: “Da cosa fuggite, dunque, idioti?”. La frase è tratta da un passo frequentemente citato dell’opera di Bernanos “La France contre les robots” (1944, Éditions Gallimard, 1995, p. 1025-6), che è un atto d’accusa contro i ritmi ossessivi, la frenesia e la stupidità delle moderne società “civilizzate”. Di esso riportiamo la traduzione in italiano: “Andare veloci? Ma andare dove? Come vi importa poco di questo, idioti! Nel momento stesso in cui leggerete queste due parole, già non mi seguirete più. Già il vostro sguardo vacilla, assume l’espressione vaga e ostinata del bambino viziato che ha fretta di tornare alla sua fantasticheria solitaria … ‘Il caffè al latte a Parigi, l’aperitivo a Chandernagor e la cena a San Francisco’, rendetevi conto ! … Oh! Nella prossima inevitabile guerra, i carri armati lancia-fiamme potranno sputare il loro getto a due mila metri in luogo di cinquanta, il viso dei vostri figli potrà bollire all’istante e i loro occhi potranno saltar fuori dalle orbite, cani che siete! Ritornata la pace, ricomincerete a felicitarvi del progresso meccanico. ‘Parigi-Marsiglia in un quarto d’ora, è formidabile!’. Giacché i vostri figli e le vostre figlie potranno crepare: il grande problema da risolvere sarà sempre quello di trasportare le vostre carcasse alla velocità dei fulmini. Da cosa fuggite, dunque, idioti? Ahimè, è da voi che fuggite, da voi stessi – ciascuno di voi fugge da sé stesso, come se sperasse di correre abbastanza veloce da poter infine uscire dalla propria custodia di pelle … non si capirà mai nulla della civilizzazione moderna se non si ammetterà in primo luogo che essa è una cospirazione universale contro ogni genere di vita interiore. Ahimè! la libertà, nonostante tutto, è in voi, idioti!” (N.d.R.).

[3] Traducendo dal latino, si può intendere l’espressione in tal modo: “Con l’uso, ciò che è vecchio si rinnova”. In realtà, Evola cita, alterandolo, il testo di un’iscrizione latina dalle origini alquanto misteriose, che due giganti del calibro di René Guénon e Guido De Giorgio ebbero modo di notare e commentare insieme a Blois, città natale di Guénon, incisa sull’architrave di un antico portone inglobato in un edificio di costruzione più recente. L’iscrizione originale, ancora ben visibile, recita: VSV VETERA NOVA, ed evidentemente il significato dell’espressione muta, non avendo più l’unilateralità attribuitagli da Evola, ma una bilateralità ed una circolarità molto più significativa, per cui non solo l’antico può essere rivivificato dal nuovo, ma anche il nuovo può avere insito in sé il contenuto atemporale e metastorico proprio dell’antico: la chiave di volta sta nella corretta interpretazione del sostantivo VSVS, di quell’”uso”, che deve essere funzionale a tale reciproca osmosi. Si veda al riguardo questo interessante contributo  apparso sul blog di Azione Tradizionale.

Altrettanto interessante è mettere in luce che “Vsu Vetera Nova” era proprio il titolo originario di un articolo scritto da De Giorgio – con il noto pseudonimo di “Havismat” – per la rivista “Ur”, che Evola – nelle vesti di direttore – pubblicò con la diversa intitolazione “La Tradizione e la Realizzazione”, apportando al testo, com’era solito fare, le modifiche che riteneva opportune. Nell’articolo, De Giorgio richiamava il concetto di usus (άσκησιϛ), quale “compimento”, accanto alla “tradizione” quale scientia, ars, (θεωρία): due aspetti che, scissi nelle singole tradizioni e nella dimensione umana, confluiscono unitariamente nella Tradizione Unica in un solo punto, tramite l’Integrazione e l’Ascesi integrale. Tra i ritocchi apportati da Evola all’articolo di De Giorgio, figurava sicuramente proprio la modifica dell’espressione latina in “Usu vetera novant”, riportata nella chiusura dell’articolo stesso, che è recuperabile sul secondo volume della raccolta degli scritti di Ur e Krur “Introduzione alla magia”: “Con la Realizzazione tutto ciò che fu diventa ciò che è e ciò che sarà. La natura del Sé eterna presenza – dice Ҫankaracârya, e, nel suo significato profondo, Usu vetera Novant, cioè: con la Realizzazione ciò che fu divenendo ciò che è, esso passa dal dominio apparente della temporalità in quello reale dell’eternità” (N.d.R.).



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"In una civiltà tradizionale è quasi inconcepibile che un uomo pretenda di rivendicare la proprietà di una idea e, in ogni caso, in essa chi così facesse, con ciò stesso si priverebbe di ogni credito e di ogni autorità, poiché condannerebbe l’idea a non esser più che una specie di fantasia senza alcuna reale portata. Se una idea è vera, essa appartiene in egual modo a tutti coloro che sono capaci di comprenderla; se è falsa, non c’è da gloriarsi di averla inventata. Una idea vera non può essere «nuova», poiché la verità non è un prodotto dello spirito umano, essa esiste indipendentemente da noi, e noi abbiamo solo da conoscerla. Fuor da tale conoscenza, non può esservi che l’errore" (R. Guénon)

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