di Julius Evola
PROVE DI REAZIONE SUL DESTINO
La soluzione della difficoltà è condizionata dalle vedute che si hanno in fatto di visione generale del mondo. La gran parte degli uomini occidentali moderni, per via della religione predominante si sono abituati a considerare nella nascita fisica il principio della loro vita. Per costoro il problema, naturalmente, è abbastanza grave, perché là dove la nascita e quindi la vita terrestre non sono considerate come effetto di un caso o di un incontro di circostanze esterne, essa e riferita alla volontà divina. Nell’un caso come nell’altro la volontà propria non vi entra per nulla, per cui, là dove non si sia abbastanza religiosi per accettare la propria vita per amor di Dio, in rassegnazione e in ubbidienza, si può sempre riaffermare l’atteggiamento di colui che rivendica la propria libertà di fronte a cosa, che egli non ha voluta. Ma la veduta della gran parte delle più antiche tradizioni indo-europee non coincide con quella ora accennata. Di massima veniva una preesistenza rispetto alla vita terrena e un rapporto di causa e d’effetto, talvolta perfino d’elezione, tra la forza preesistente alla nascita fisica e questa stessa vita. La quale, in tal caso, pur non potendo essere attribuita alla volontà più esteriore e già umana del singolo, va a rappresentare un ordine compenetrato di un determinato senso, qualcosa che — sia pur riposto — ha un suo significato per l’Io, come una serie di esperienze importanti non in se stesse, ma riguardo alle nostre reazioni.
In una parola, allora la Vita quaggiù non è più un caso, epperò non può considerarsi né come cosa da accettare o respingere ad arbitrio, né come una realtà che ci si impone, di fronte a cui si è solo passivi, col divario di una rassegnazione ottusa ovvero di una continua prova di resistenza. Sorge invece la sensazione che la vita terrestre è qualcosa, in cui noi, prima di essere uomini terrestri, ci siamo, per cosi dire «compromessi» ed in una certa misura impegnati, sia — se si vuole — come in un’avventura, sia come in una missione o in una elezione, assumendo in blocco anche aspetti problematici e tragici di essa. E’ difficile che quella superiorità o, anche, semplicemente quel distacco di fronte alla vita, che permetterebbe di gettarla, non si accompagni — come già accennammo — ad un significato del genere dell’esistenza: il quale però in ben pochi casi farebbe comprendere la decisione di «finirla». Ognuno sa che prima o poi questa fine verrà, sì che di fronte ad ogni contingenza l’attitudine più saggia sarebbe di scoprirne il significato nascosto, la parte che essa ha in tutto, che in fondo — secondo la veduta accennata —si incentra in noi ed è contenuto con un nostro volere trascendentale. E là dove fosse decisiva — sinceramente — solo una impazienza per l’eterno, per l’esistenza non più terrena, sì da far vera la frase mistica spagnola: in tam alta vida espero, que muero porquè no muero (spero in una così alta vita, da morire di non poter morire), si esasperi la vita come prova, Invece di passare ad un intervento diretto e violento: vi sono le vicende eroiche di una guerra, vi è l’alta montagna, vi è una vita pericolosa in esplorazioni o in missioni — vi sono mille possibilità per porre al «destino» una domanda più perentoria ed insistente ed aver dalle cose stesse la risposta della misura, in cui esiste ancora una ragione profonda, impersonale, del continuare qui una vita umana.
FEDELTÀ ALLA PROPRIA NATURA
Oggi quanto mai bisognerebbe persuadersi, che anche i problemi sociali, nell’essenza, rimandano sempre a problemi etici e di visione generale della vita. Chi pensa di risolvere i problemi sociali su di un piano puramente tecnico, rassomiglierebbe ad un medico che s’intendesse unicamente a combattere i sintomi epidermici di un male, invece di indagare e colpirne la radice profonda. La gran parte delle crisi, dei disordini, delle disequazioni che caratterizzano la società occidentale moderna se, in parte, dipendono da fattori materiali, almeno in egual misura dipendono anche dal silenzioso sostituirsi di una visione generale della vita ad un’altra, da una nuova attitudine rispetto a se stessi e al proprio destino, che è stata celebrata come una conquista, laddove essa rappresenta una deviazione e una degenerescenza. Per l’ordine di cose che qui intendiamo trattare, è di particolare rilievo l’opposizione esistente fra l’etica moderna «attivistica» e individualistica e la dottrina tradizionale ed aria relativa alla «natura propria». In tutte le civiltà tradizionali — in quelle che la vuota presunzione «storicistica» considera «superate» e che l’ideologia massonica giudica «oscurantistiche» —il principio di una fondamentale uguaglianza della natura umana fu sempre ignorato e fu considerato come una visibile aberrazione. Ogni essere ha, con la nascita, una “natura propria”, il che equivale a dire un suo volto, una sua qualità, una sua personalità, anche se più o meno differenziata. Secondo i più antichi insegnamenti arii ed anche classici, in ciò non veniva del resto veduto un «caso», ma vi si presentiva l’effetto di una specie di elezione o di determinazione anteriore allo stesso stato umano di esistenza. In ogni modo, la constatazione della «natura propria» non fu mai quella di un destino. Si nasce incontestabilmente con certe tendenze, con certe vocazioni ed inclinazioni, talvolta senz’altro palesi e precise, tal’altra latenti e tali da manifestarsi solo in particolari circostanze o prove. Di fronte a questo elemento differenziato innato, legato alla nascita se non pure — come negli insegnamenti già accennati — a qualcosa che vien da lontano, che precede la stessa nascita, ognuno ha un margine di libertà.
Ed è qui che si presenta l’opposizione delle vie e delle etiche: di quella tradizionale e di quella «moderna». Il cardine dell’etica tradizionale è esser sé e restar fedeli a se stessi. Ciò che si «è», bisogna riconoscerlo e volerlo, anziché cercar di realizzarsi diversi a quel che si è. Ciò non significa per nulla passività e quietismo. Esser se stessi è sempre, in una certa misura, un compito, un «tener fermo». Implica una forza, una drittura, uno sviluppo. Ma questa forza, questa drittura, questo sviluppo, qui hanno una base, prolungano disposizioni innate, si legano ad un carattere, manifestano tratti di armonia. di coerenza con se stessi, di organicità. L’uomo si avvia, cioè, ad esser «tutto di un pezzo». Le sue energie sono volte a potenziare e ad affinare la sua natura e il suo carattere e a difenderlo contro ogni tendenza estranea, contro ogni influenza alteratrice. E’ così che l’antica saggezza formulò massime, come queste: «Se gli uomini si fanno una norma d’azione non conforme alla loro natura, essa non deve essere considerata come norma d’azione». E ancora: «Meglio il proprio dovere anche se imperfettamente compiuto, che il dovere di un altro bene eseguito. La morte nel compiere il proprio dovere è preferibile; il dovere di un altro ha grandi pericoli». Questa fedeltà al proprio modo d’essere assurse perfino ad un valore religioso: «L’uomo raggiunge la perfezione — è detto in un antico testo ario — adorando colui, dal quale tutti i viventi procedono e tutto questo universo è compenetrato, mediante il compimento del proprio modo d’essere». Ed anche: «Fa sempre ciò che deve esser fatto (in conformità alla propria natura), senza attaccamento, perché l’uomo che agisce in un disinteresse attivo consegue il Supremo».
E’ diventato purtroppo in uso, oggi, inorridire non appena si ricordi il regime delle caste. «Caste?!». Ma oggi non si parla più nemmeno di «classi» e a mala pena di «categorie»! Oggi si fanno saltare i «compartimenti stagni» e si «va verso il popolo»! Simili prevenzioni sono frutto d’ignoranza e al massimo si spiegano col fatto che, invece di considerare i principi di un sistema, ci si ferma a forme deviate, svuotate o degenerescenti di esso. Va notato anzitutto che la «casta» in senso tradizionale non ha assolutamente nulla a vedere con le «classi», queste essendo ripartizioni artificiali su base essenzialmente materialistica, mentre le caste si legavano alla teoria della natura propria e all’etica della fedeltà alla natura propria. Per questa ragione — in secondo luogo — esistette spesso un regime di caste di fatto, in via naturale, senza alcuna statuizione positiva, quindi senza nemmeno che venisse usata la parola «casta» o una parola simile: come in una certa misura fu il caso anche nel Medioevo. Nel riconoscere la propria natura, l’uomo tradizionale riconosceva anche il suo «luogo», la propria funzione e i giusti rapporti di superiorità e di inferiorità. Le caste, o gli equivalenti delle caste, in via di principio, prima di definire dei gruppi sociali, definivano delle funzioni, dei modi tipici di essere e di agire. Il fatto della corrispondenza delle tendenze innate ed accettate e della natura propria dei singoli a queste funzioni determinava la sua appartenenza alla casta corrispondente, di modo che nei doveri propri alla sua casta ognuno poteva riconoscere l’esplicazione normale della sua stessa natura. Per questo nel mondo tradizionale il regime delle caste apparve spesso come una calma istituzionale naturale, fondata su qualcosa che era evidente agli occhi di tutti, e non sull’esclusivismo, sulla sopraffazione o sull’arbitrio di pochi. In fondo, il principio romano ben noto suum cuique tribuere riporta esattamente alla stessa idea: ad ognuno il suo. Gli esseri, essendo disuguali, è assurdo che tutto sia accessibile a tutti, e ognuno, in via di principio, sia atto a qualunque funzione. Ciò implicherebbe una deformazione, uno snaturamento.
Le difficoltà che sorgono in coloro che hanno in vista le condizioni attuali, ben diverse da quelle del sistema, di cui si sta parlando, si legano al fatto di rappresentarsi i casi, nei quali il singolo manifesta vocazioni e doti diverse, di quelle del gruppo in cui per nascita e per tradizione si trova. Senonché in un mondo normale simili casi hanno sempre rappresentato una eccezione, e ciò per una ragione precisa: perché a quei tempi i valori di sangue, di razza e di famiglia venivano naturalmente riconosciuti e per tal via si realizzava in larga misura una continuità sia biologico-ereditaria, sia di vocazione, di qualificazioni e di tradizioni. Appunto questa è la controparte dell’etica dell’esser se stessi; il ridurre al minimo la possibilità, che la nascita sia davvero un caso e che il singolo si trovi come uno sradicato, in dissonanza con il suo ambiente, con la sua famiglia se non perfino con se stesso, col proprio corpo e la propria razza. Inoltre, devesi rilevare che il fattore materialistico e utilitaristico in dette civiltà e società era notevolmente ridotto da valori più alti, intimamente vissuti. Nulla appariva cosa più degna che seguire la propria naturale attività, che seguire la vocazione veramente conforme al proprio modo d’essere, per umile o modesta che fosse: tanto, che si poté concepire, che chi si mantiene nel proprio stato e compie in una tale impersonalità e purità i doveri ad esso inerenti, ha la stessa dignità dell’appartenente a qualsiasi casta «superiore»: un artigiano, pari a quella di un membro dell’aristocrazia guerriera o di un principe. Da qui procede anche quel senso di dignità, di qualità e di diligenza che si è palesato in tutte le organizzazioni e professioni tradizionali; da qui, quello stile, per cui anche un fabbro, un falegname o calzolaio non si presentavano come uomini abbrutiti dalla loro condizione ma quasi come dei «signori», come persone che liberamente avessero scelta ed esercitassero quella forma d’attività, con amore, dando ad essa sempre una impronta personale e qualitativa, mantenendosi staccati dalla pura preoccupazione del guadagno e del profitto.
Il mondo «moderno» tuttavia, di massima, ha seguìto proprio la via opposta, la via di una sistematica trascuranza della natura propria, la via dell’individualismo, dell’«attivismo» e dell’arrivismo. L’ideale qui non è più l’esser quel che si è, bensì il «costruirsi», l’applicarsi ad ogni specie di attività, a caso, ovvero per considerazioni affatto utilitarie. Non più attuare in seria aderenza, fedeltà e purità, il proprio essere, bensì l’usare ogni forza per divenire quel che non si è. L’individualismo, essendo a base di una tale veduta, cioè l’uomo atomizzato, senza nome, senza razza e senza tradizione, si è avanzata logicamente la pretesa dell’eguaglianza, si è rivendicato il diritto di poter essere, di massima, tutto ciò che un qualsiasi altro può anche essere, e non si è voluto riconoscere alcuna differenza più vera e giusta di quella realizzata da se stessi, artificialmente, nei termini dell’una o dell’altra forma di una civiltà ormai materializzata e secolarizzata. Come è noto, questa deviazione è giunta al limite nei Paesi anglosassoni e puritani. E con essa facendo fronte comune l’illuminismo massonico, la democrazia e il liberalismo, si è giunti ad un punto tale, che a molti ogni differenza innata e naturale appare come un bruto dato «naturalistico», che ogni veduta tradizionale viene giudicata oscurantistica e anacronistica e non si sente l’assurdità dell’idea, che tutto sia aperto a tutti, che si abbiano eguali diritti e eguali doveri, che viga una unica morale, la quale dovrebbe imporsi nella stessa misura e valere per tutti, con piena indifferenza per le singole nature e le differenti intime dignità. Da qui, anche, è ogni antirazzismo, la denegazione dei valori sia del sangue, sia della famiglia tradizionalmente concepito. Sicché a buon diritto qui potrebbe parlarsi, senza eufemismi, di una vera e propria «civiltà» di «fuori casta», di paria gloriantisi di questa loro qualità.
E’ proprio nei quadri di una tale pseudo-civiltà che sorgono le classi, le quali non hanno nulla a che fare con le caste, essendo prive di ogni base organica e davvero tradizionale, essendo aggruppamenti sociali artificiali, determinati da fattori estrinseci e quasi sempre materialistici. La classe sorge quasi sempre su base individualistica, vale a dire, è il «luogo» che raccoglie tutti coloro che, col darsi da fare, hanno raggiunto una stessa posizione sociale, con piena indipendenza di quel che essi per natura veramente sono. Questi raggruppamenti artificiali tendono poi a cristallizzarsi, generando allora le tensioni a tutti note. Infatti nella disgregazione propria a questo tipo di «civiltà» si realizza anche la degradazione delle «arti» in semplice «lavoro», si compie la trasformazione dell’antico artefice o artigiano nell’«operaio» proletarizzato, pel quale quel che fa vale unicamente come mezzo di guadagnare, che sa solo pensare a «salari» e «ore di lavoro» e a poco a poco va a destare in sé bisogni artificiali, ambizioni e risentimenti, dato che le «classi superiori», alla fine, non mostrano più ai suoi occhi nessun carattere giustificante la loro superiorità e il loro disporre di una maggior copia di beni materiali. Perciò la lotta di classe è una delle conseguenze estreme di una società che si è snaturata e ha considerato lo snaturamento, la trascuranza della natura propria e della tradizione, come una conquista e come un progresso.
Ed anche qui si può considerare un retroscena razziale. L’etica individualistica corrisponde indubbiamente ad uno stato di mescolanza delle genti e dei ceppi, nella stessa misura che l’etica dell’esser se stessi corrisponde invece ad uno stato di prevalente purità razziale. Dove i sangui si incrociano, le vocazioni si confondono, riesce sempre più difficile veder chiaro nei proprio essere, cresce sempre più la labilità interiore, segno della mancanza di vere radici. Gli incroci propiziano il sorgere e il potenziarsi della coscienza dell’uomo come «individuo», favoriscono anche tutto ciò che è attività «libera», «creativa», in senso anarchico, «abilità» furbesca, «intelligenza» in senso razionalistico o sterilmente critico: tutto ciò, a spese delle qualità di carattere, di un affievolimento del sentimento della dignità, dell’onore, della verità, della drittura, della lealtà. Si determina così una situazione anche spiritualmente obliqua e caotica, che però a molti nostri contemporanei sembra normale; per cui, ad essi i casi di individui pieni di contraddizioni, privi del significato del vivere, tali, che essi non sanno più quel che vogliono, fuor che le cose materiali, in contrasto con la propria tradizione, la propria nascita e la loro naturale destinazione, tali casi non appaiono più come anomalie o apparizioni teratologiche, bensì come l’ordine naturale delle cose, che confuterebbe e dimostrerebbe artificiale, assurdo ed oppressivo ogni limite di tradizione, di razza, di nascita. A questa opposizione fondamentale in tema di etica e di visione generale della vita dovrebbero badare, in maggior misura di quanto finora accada, coloro che oggi si occupano di problemi sociali e parlano di «giustizia sociale», se essi debbono veramente venire a capo dei mali contro cui in buona fede combattono.
Un principio di rettificazione non si può avere, che là dove l’assurda idea classista sia superata per mezzo di un ritorno dell’etica della fedeltà alla natura propria e quindi ad un sistema sociale ben differenziato ed articolato. Noi abbiamo spesso detto che il marxismo, in molti casi, non è sorto perchè esisteva una reale indigenza «proletaria», ma viceversa: è il marxismo che per snaturamento ha creato un ceto operaio «proletarizzato», pieno di risentimento e di ambizioni innaturali. Le forme più esterne del male da combattere si possono curare con la «giustizia sociale», nel senso di una certa più equa distribuzione dei beni materiali; ma della radice interna di esso non si verrà mai a capo, se non si agisce energicamente in sede di visione generale della vita; se non si ridesta l’amore per la qualità, la personalità, la natura propria; se non si restituisce il suo prestigio al principio, disconosciuto solo nei tempi «moderni», di una giusta differenza conforme alla realtà e se da un tale principio non si traggano, su tutti i campi, le giuste conseguenze, anche se con preciso riguardo al tipo di civiltà venuto a prevalere nel mondo moderno.
FINE
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