Concludiamo la pubblicazione di documenti relativi alla vicenda giudiziaria che coinvolse Julius Evola nell’ambito del processo ai F.A.R., proponendo un ampio stralcio dell’arringa finale pronunciata dall’avvocato Francesco Carnelutti* il 6 novembre 1951, che fu pubblicata sulla rivista “L’Eloquenza” (n. 11-12 del novembre-dicembre 1951) e successivamente ripresentata nel quaderno della Fondazione Evola “Autodifesa”. Ad introdurre il testo dell’arringa, un breve commento reso dallo stesso Carnelutti.
Ovviamente non tutte le argomentazioni svolte dal celebre avvocato nella sua arringa sono condivisibili, in particolare laddove egli cercò di sintetizzare il pensiero evoliano sulla base di una rapida lettura di Rivolta e Orientamenti, fatta in tarda età, per mere esigenze processuali, e senza la dovuta preparazione e formazione alle spalle. Accanto ad alcune buone intuizioni, molte altre conclusioni di Carnelutti lasciano a desiderare, come ad esempio l’insistenza nel presentare Evola quale “adoratore dell’individuo” contro lo Stato. Semplificazioni e superficialismi adatti forse per un’aula di Tribunale, ma che risultano vere e proprie deformazioni del pensiero evoliano, pur non intaccando il valore e l’importanza storica in sé dell’arringa.
*Francesco Carnelutti (1879-1965) è stato uno dei più eminenti avvocati e giuristi italiani. Prese parte ai lavori preparatori del Codice di procedura civile del 1942, apportando la sua dottrina specialmente alla parte relativa al processo di esecuzione, mentre alcune sue elaborazioni in materia di prova legale furono interamente ripresi nel libro VI del codice civile del 1942.
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di Francesco Carnelutti
IL PROCESSO
Giulio Evola (Julius amava chiamarsi) era un noto scrittore; ma io, la cui informazione nel campo letterario è purtroppo assai povera, non lo conoscevo. Fui pertanto sorpreso quando egli mi richiese di difenderlo da una accusa di apologia del fascismo, per la quale era stato imputato e catturato, insieme ad alcuni giovani cosiddetti neofascisti, dei quali si sosteneva che egli fosse il maestro. Anche questa era una di quelle difese che, secondo la gente timorata, non si doveva fare perché «chi piscia contro vento si bagna le brache». Confesso che non avevo una grande simpatia per l’imputato, per quanto abbia dovuto riconoscere in lui un uomo di robusto ingegno e molte sue idee mi siano piaciute, ma ne avevo ancora meno per la gente timorata, così che accettai l’incarico e, almeno per quanto riguarda l’esito del processo, non mi bagnai le brache; può darsi che tuttavia anche questa difesa non mi abbia giovato nella estinzione di quegli uomini di scienza (e sono purtroppo, i più), i quali, quando tira vento, prendono le loro precauzioni. Affinché l’arringa possa essere intesa non occorrono altri particolari intorno al processo.
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IN DIFESA DI GIULIO EVOLA

Francesco Carnelutti
Evola chi è?
La polizia lo definisce cosi: «maestro e padre spirituale di questa conventicola di esaltati era diventato Julius Evola, delle cui strane teorie filosofiche i giovani erano tornati imbevuti o meglio invasati dalle regioni del Nord dove eransi recati a militare nella Repubblica Sociale Italiana. Evola aveva goduto in passato di una modesta e ristretta fortuna come cultore di pretenziosi studi esoterici, cioè scienza dei pochi, e di discipline magiche di origini orientali». Ecco: a proposito delle discipline magiche vi dirò che il collega Cavallucci doveva portarmi, e se n’è dimenticato, una lettera, dall’India, con la quale si chiede di tradurre per quei paesi certe opere di lui; ora per chi abbia un’idea, anche approssimativa, della cultura orientale e, soprattutto, della cultura indiana, sa che cosa questo voglia dire per misurare la serietà dell’imputato anche nel campo degli studi orientali. Spero, signori giudici, di godere tanta fiducia presso di voi da essere creduto sulla parola; in ogni caso questo processo durerà ancora alcuni giorni e quella lettera potrò farvela vedere.
E poiché ho toccato questo tema, della «modesta e ristretta fortuna come cultore di studi esoterici», secondo quanto dice la polizia, debbo insistere nell’osservare che questa, come spesso succede, è male informata; ma non dovrebbe succedere, e tanto meno essere successo pel nostro caso, quando si trattava di mettere in prigione, niente altro che per le sue idee, un uomo, per di più invalido di guerra. Basta leggere il più noto dei libri dell’Evola, la Rivolta contro il mondo moderno, pubblicato quest’anno dall’editore Bocca, per accorgersi che se Evola ha pure coltivato gli studi esoterici, la sua cultura non si limita punto a questi; e quanto alla sua fama e fortuna basterebbero le traduzioni che hanno avuto i suoi libri (a cominciare da quello testé menzionato, di cui ho tra le mani una bellissima traduzione tedesca) e i giudizi, che di lui hanno dato insigni stranieri, perfino inglesi, per rettificare le informazioni esistenti nel processo, deplorevolmente povere e inesatte.
Del resto, io non sono qui per magnificare l’opera di Evola, del quale molte idee non sarei neppure in grado di valutare, per difetto di specifica competenza, e quelle che posso valutare in parte non condivido, ma non posso non insorgere contro la leggerezza, a dir poco, con la quale finora, in questo processo, s’è trattato un uomo, nel quale dobbiamo riconoscere un forte e nobile pensatore. Potrei dire anche filosofo, se questa parola oggi non avesse un significato ristretto, convenzionale ed anche orgoglioso; ma dopo tutto, val più chiamarlo pensatore, come colui che ha dedicato la sua vita, disinteressatamente, all`esercizio del pensiero. Comunque a me importa, non tanto lodare o biasimare le sue idee quanto confrontarle con quelle proprie del fascismo per vedere se egli sia stato o no un fautore, anzi un esaltatore di queste ultime. Ora io affermo che se la polizia avesse letto e capito ciò che Evola ha scritto non solo nell’opuscolo Orientamenti ma nel volume Rivolta contro il mondo moderno, si sarebbe accorta che egli, anziché nel senso del fascismo, è orientato nettamente contro di esso.
Un’esaltazione, certo, si trova nelle sue pagine, e spesso le ispira fino a raggiungere la bellezza; ma è l’esaltazione dell’individuo, non dello Stato e tanto meno dello Stato-partito e tanto meno del dittatore. Può darsi, dopo di ciò, che egli, iscritto, per qualche tempo, come tanti altri, al fascismo, abbia creduto di essere fascista; ma si è avverato per lui, come per tanti altri, il solito errore, dovuto alla difficoltà di conoscere sé stesso.
Equivoci di questo genere sono frequenti perfino nel campo della fede, dove non mancano uomini che credono di credere mentre in realtà non credono, e, viceversa, atei di nome e non di fatto. Ora, per il giudizio, che qui si deve pronunciare intorno a lui, importa non ciò che egli ha creduto di sé, ma ciò che in realtà egli é stato. Se tutti fossero stati come Evola, non avremmo avuto né lo Stato-partito, né la dittatura. Evola, anziché lo Stato, dicevo, esalta l’individuo. Il quale individuo non è tutto con l’uomo, cioè con l’uomo qualunque, con l’uomo «in autentico», direbbe Heidegger; ma colui che ha saputo sviluppare in sé le qualità superiori, onde si distingue il Mann dal Mensch, secondo i tedeschi, o il vir dall’homo, secondo i romani. Ciò che Evola esalta, secondo le stesse parole, è la virilità; e non la virilità fisica, sebbene la virilità spirituale.
Posso concedere al pubblico ministero che, pertanto, egli sia un fautore dell’aristocrazia, ma è l’aristocrazia nel senso puro, intesa come governo dei migliori, nel qual senso, intendiamoci, l’aristocrazia non può non essere il mezzo, col quale si deve realizzare la democrazia. «Tramontata la cavalleria», si legge a pag. 134 del libro da me citato, «anche la nobiltà finì col perdere ogni elemento spirituale del genere come punto di riferimento per la sua più alta fedeltà divenendo parte di semplici enti politici – come è appunto il caso delle aristocrazie degli Stati: nazionali succeduti alla civiltà economica del Medioevo. I principii dell’onore e della fedeltà sussistono anche quando il nobile non è più che un ufficiale del re; ma vana sterile, priva di luce è la fedeltà, quando non si riferisce più, sia pure mediatamente, a qualcosa di là dall’umano. Onde le qualità conservatesi per via dell’eredità nelle aristocrazie europee, da nulla più rinnovate nello spirito delle loro origini, dovevano subire una fatale degenerescenza: al tramonto della spiritualità regale non poté non seguire quello della stessa nobiltà, presso all’avvento di forze proprie ad un livello ancora più basso». Dica la verità, pubblico ministero, a un’aristocrazia di questo genere non è favorevole anche lei?
Vi è un’altra bella pagina, in cui la figura dell’individuo, nella sua misteriosa unità-diversità, si staglia così nettamente che, per mettere a fuoco il pensiero di Evola, è necessaria tenerla presente. «In una società, la quale non conosce più ne l’Asceta, ne il Guerriero; in una società in cui le mani degli ultimi aristocratici, più che per spade o per scettri, sembrano fatte per racchette da tennis o per shaker da cocktails, in una società nella quale quando non sia la scialba larva dell’intellettuale o del professore, il fantoccio narcisistico dell’artista o la macchinetta affaccendata e sudicetta del banchiere o del politicante – il tipo dell’uomo virile è rappresentato dal boxeur o dal divo del cinema: in una tale società era naturale che anche la donna si levasse e chiedesse pure per sé una personalità e una libertà proprio nel senso anarchico e individualistico degli tempi ultimi. E là dove l’etica tradizionale chiedeva all’uomo e alla donna di essere sempre più sé stessi, di esprimere con tratti sempre più audaci ciò che fa dell’uomo un uomo, dell`altra una donna – ecco che la civiltà nuova volge verso il livellamento, verso l’informe, verso uno stadio che invero non sta al di là, ma al di qua dell’individuazione e della differenza dei sessi. E si è scambiata per conquista una abdicazione.
Dopo secoli di schiavitù la donna ha voluto dunque esser libera, esser per sé stessa. Ma il cosiddetto femminismo non ha saputo concepire per la donna una personalità, se non ad imitazione di quella maschile, si che le sue rivendicazioni mascherano una sfiducia fondamentale della donna nuova verso se stessa, l’impotenza di questa ad essere ed a valere come ciò che essa è come donna e non come uomo. Per una fatale incomprensione, la donna moderna ha sentito un’affatto immaginaria inferiorità dell’esser solo donna e quasi un’offesa nell’esser trattata solo come donna. Tale è stata l’origine di una vocazione sbagliata: essa, appunto per questo, ha voluto prendersi una rivincita, rivendicare la sua dignità mostrare il suo valore, passando a misurarsi con l’uomo. Senonché non si è trattato per nulla dell’uomo vero, bensì dell’uomo-costruzione, dell’uomo-fantoccio di una civiltà standardizzata, razionalizzata, non implicante quasi più nulla di davvero differenziato e qualificativo.
In una tale civiltà, evidentemente, non può esser questione di un qualunque legittimo privilegio, e le donne incapaci di riconoscere la loro naturale vocazione e di difenderla, non fosse altro che sul piano più basso (perché nessuna donna sessualmente felice sente mai il bisogno di imitare e di invidiare l’uomo) potettero facilmente dimostrare di possedere virtualmente anch’esse le facoltà e le abilità – materiali e intellettuali – che si trovano nell’altro sesso e che, in genere, si richiedono e si valutano in una società di tipo moderno. L’uomo, del resto, ha lasciato fare da vero irresponsabile anzi ha aiutato, ha spinto lui stesso la donna nelle strade, negli uffici, nelle scuole, nelle fabbriche, in tutti i trivii contaminatori della società e della cultura moderna. Così l’ultima spinta livellatrice è stata data».
Ho scelto questa fra tante perché mi pare non solo nel libro di Evola una delle pagine più alte, ma delle più significative della sua rivolta contro il mondo moderno, ch’è rivolta contro la tendenza a sopprimere la diversità («sirena del mondo») e con essa l’individuo, il quale non è soltanto un uomo, ma l’io, il sé stesso, l’unico e ineguagliabile, il cui sviluppo è e deve essere nel senso di svolgere sempre più le ragioni della sua individualità, che ha nella differenza tra l’uomo e la donna la sua manifestazione essenziale.
L’ordinamento, anzi la preoccupazione fondamentale di Evola è veramente l’individuo e perciò l’ambiente favorevole al suo sviluppo. Quanto tale preoccupazione rende acuta la sua indagine non risulta forse in nessun altro luogo più chiaro che dove egli definisce e contrappone i due sistemi politici, russo e nord-americano, per dedurne la minaccia contro l’Europa e il principio individualistico che essa custodisce; sulla fine del volume Rivolta contro il mondo moderno e altresì nell’opuscolo Orientamenti il pensiero di Evola svolge una efficacia e raggiunge una altezza, che mi ha vivamente interessato: Russia e Nord America divergono certo nei mezzi, ma la prima con la spregiudicata coazione politica, la seconda con la altrettanto spregiudicata espansione economica marciano verso un medesimo risultato, che è, purtroppo, la soppressione della diversità, onde ogni uomo è un individuo ineguagliabile, ineffabile nella sua concretezza, e con tale soppressione la degradazione dell’umanità. La descrizione delle due mandibole di una tremenda tenaglia, nelle quali rischia di essere stritolata l’Europa, basterebbe da sola a dare la misura della tempra e della serietà dello scrittore.
L’autore, anzi adoratore dell’individuo, Evola, non può non avere in pregio la libertà, in cui l’individuo si risolve. E` questione soltanto di non fare di questo sacro nome lo scempio, che se ne fa per lo più dai blateratori ignoranti o degli sfruttatori cialtroni. La libertà, la quale consiste assai più nel dominare sé stesso che nel sottrarsi al dominio altrui, non contrasta ma si integra con l’autorità. Perfino il senso comune delle parole scopre questa integrazione, poiché l’idea della libertà si esprime nell’essere soggetto anziché oggetto; ma soggetto che significa se non uno che sta sotto (sub-iacet) e perciò non tanto uno che termini senza l’equilibrio di un sistema politico (1). E proprio il difetto di questo equilibrio ha trascinato il fascismo alla rovina.
Ora si ascolti ciò che Evola ha scritto ai giovani, nell’opuscolo Orientamenti, su questo punto fondamentale: «Se l’ideale di una unità virile e organica fa già parte essenziale del mondo che andò travolto – e per esso, da noi, fu anche rievocato il simbolo romano – pure debbonsi riconoscere i casi in cui tale esigenza deviò e quasi abortì lungo la direzione sbagliata del totalitarismo. Questo, di nuovo, é un punto che va visto con chiarezza, affinché la differenziazione dei fronti sia precisa e anche non siano fornite armi a coloro che vogliono confondere a ragion veduta. Gerarchia non è gerarchismo (un male, questo, che, purtroppo, oggi cerca di ripullulare in tono minore), e la concezione organica non ha nulla a che fare con la sclerosi statolatrica e con una centralizzazione livellatrice. Quanto ai singoli, superamento vero, sia di individualismo che il collettivismo, si ha solo quando uomini sono di fronte a uomini; nella diversità naturale del loro essere e delle loro dignità, avendo massimo risalto l’antico detto, che “la suprema nobiltà di essi é non di essere dei padroni di servi, ma dei signori che amano la libertà anche in coloro che obbediscono”. E quanto all’unità che deve impedire, in genere, ogni forma di associazione e di assolutizzazione del particolare, essa dev’essere essenzialmente spirituale, dev’essere quella di un’influenza centrale orientatrice, di un impulso che a seconda dei domini assume le forme più differenziate di espressione».
Sembra perfino che l’Evola presentisse la confusione che a suo danno sarebbe tentata, quando anziché esaltare quel totalitarismo, ch’é stato il carattere essenziale del fascismo, ha recisamente messo in guardia i giovani contro di esso. Certo, egli ha avuto contatti con i giovani. Certo, questi si sono rivolti a lui ed egli non li ha respinti. Certo, consapevole del divino valore della gioventù, egli ha ritenuto suo dovere di aprire a loro il suo animo e il suo cuore. Certo, egli ha predicato a loro lo spirito legionario; ma è proprio questo, a proposito del quale la incredibile leggerezza della polizia ha pescato il granchio più fenomenale di tutto il processo.
Cosa sia lo spirito legionario, l’Evola stesso ci dice: «Nulla ha imparato dalle lezioni del recente passato chi si illude, oggi, circa le possibilità di una lotta puramente politica e circa il potere dell’una o dell’altra formula o sistema, cui non faccia da precisa controparte una nuova qualità umana. Ecco un principio che oggi quanto mai dovrebbe aver evidenza assoluta: se uno Stato possedesse un sistema politico o sociale che, in teoria, valesse come il più perfetto, ma la sostanza umana fosse tarata, ebbene, quello Stato scenderebbe prima o poi al livello delle società più basse, mentre un popolo, una razza capace di produrre uomini veri, uomini dal giusto sentire e dal sicuro istinto raggiungerebbe un alto livello di civiltà e si terrebbe in piede di fronte alle prove più calamitose anche se il suo sistema politico fosse manchevole e imperfetto. Si prenda dunque decisa posizione contro quel falso realismo politico, che pensa solo in termini di programmi, di problemi organizzatori partitistici, di ricette sociali ed economiche. Tutto questo appartiene al contingente, non all’essenziale. La misura di ciò che può ancora essere salvato dipende invece dall’esistenza, o meno, di uomini che ci siano dinanzi non per predicare formule, ma per essere esempi».
E’ chiaro? Per aver detto queste cose alla gioventù italiana Evola dalla polizia e stato definito come un pazzoide, trattato come un delinquente, arrestato, perquisito, denunciato e tenuto per sei mesi in galera!
Note
(1) La frase, evidentemente mancante di alcuni passaggi e quindi sintatticamente incompleta, è così testualmente riportata nel quaderno “Autodifesa” edito dalla Fondazione Evola. Il senso ultimo è comunque comprensibile: l’avvocato Carnelutti sviluppava sostanzialmente il discorso relativo alla libertà, che deve integrarsi con l’autorità e non cozzare contro essa: in tal senso un sistema politico saldo deve reggersi su questo sottile equilibrio, pena esiti nefasti (N.d.R.).
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