Presentiamo oggi il terzo e penultimo scritto da noi selezionato in cui Julius Evola, dopo la svolta degli Anni Trenta, scrive su Guénon. Si trattò, nel caso specifico, della prefazione alla raccolta di scritti del maestro di Blois in materia di iniziazione, pubblicati originariamente sulla Rivista Études Traditionnelles, raccolti nel 1946 con l’intitolazione “Aperçus sur l’initiation” per le Éditions traditionnelles di Parigi, e pubblicato in Italia per la prima volta nel 1949 dai Fratelli Bocca Editori, con l’intitolazione “Considerazioni sulla via iniziatica“, con traduzione e prefazione a cura di Corrado Rocco, esoterista che era in contatto con Guénon.

La copertina della prima edizione italiana di “Considerazioni sulla Via iniziatica” (1949)
Apriamo a questo proposito una piccola parentesi, per illustrare quanto di nostra conoscenza relativamente alla nebulosa vicenda editoriale italiana di questa raccolta di scritti guénoniani sull’iniziazione, soprattutto con riferimento alla prefazione di Evola al volume.
Dopo la prima versione del 1949 a cura dei Fratelli Bocca Editori, si sono susseguite nei decenni svariate altre edizioni dell’antologia in oggetto, con intitolazioni talora divergenti. Potremmo citare, tra le tante, negli anni Ottanta, quelle de “Il Basilisco” (1982), de “I Dioscuri” (1987), dei “Fratelli Melita editori” (1987), di “Basaia” (1988), di Gherardo Casini Editore. Nel 1996, anche l’editore Luni pubblicò una propria edizione. Poi, abbiamo sicuramente una versione per le Edizioni “I libri del Graal” di Spoleto (di cui c’è anche una precedente edizione del 1982), pubblicata nel 2010, in cui veniva mantenuta la traduzione e l’introduzione di Corrado Rocco, era presente una premessa a cura di Sandro Consolato e, elemento importante, figuravano in appendice due saggi, a firma di Arturo Reghini e Julius Evola. Nel 2014, comparve una nuova edizione da parte di Luni Editore (che già aveva pubblicato l’opera nel 1996), intitolata “Considerazioni sull’iniziazione”, che comprendeva sempre i due saggi di Reghini ed Evola.
Per quanto riguarda questi scritti, sappiamo che l’introduzione curata da Evola altro non era se non una riduzione, una versione rimaneggiata del ben più lungo saggio “Un maestro dei tempi moderni: René Guénon“, pubblicato originariamente su “Vita Italiana” del 1935, e che in futuro proporremo. Quanto all’articolo di Reghini, doveva intitolarsi probabilmente “L’Ekagrata di René Guénon“, ma non ci è dato sapere quando esattamente fu scritto. Reghini, d’altronde, ha commentato e tradotto “Il Re del mondo”, “L’esoterismo di Dante”, “Oriente e Occidente” e il “Vedanta” di Guénon, tra 1924 e 1927, quindi è verosimile che lo scritto risalisse a quegli anni. Sappiamo altresì che Evola e Reghini ruppero i loro rapporti intorno al 1928, e che quindi non avrebbero mai collaborato scientemente, dopo quell’anno, per una comune prefazione all’opera di Guénon.
Di conseguenza, è lecito pensare che in una o più delle edizioni italiane successive a quella originaria del 1949, siano stati inseriti (contemporaneamente o meno) questi due saggi, prima della menzionata edizione de “I libri del Graal” del 2010. Quanto alla prefazione di Evola, probabilmente qualche editore gli aveva chiesto di scrivere un’introduzione alla propria edizione di “Considerazioni”, che il barone avrà quindi realizzato con il consueto sistema del rimaneggiamento, prendendo come base il citato articolo uscito su “Vita Italiana” nel 1935. Quanto a Reghini, che nel frattempo era scomparso (1946), il suo scritto sarà stato in qualche modo recuperato ed utilizzato dai vari editori, con le dovute autorizzazioni. Ma l’inserimento, coevo o meno in un primo momento in una delle edizioni posteriori a quella del 1949, e poi simultaneo in seguito, non fu sicuramente frutto, come dicevamo, di alcun accordo o collaborazione programmata fra Evola e Reghini.
“Aperçus sur l’initiation”, di fatto, sarebbe stata poi completata dal punto di vista contenutistico con la prima opera postuma di Guénon, “Initiation et réalisation spirituelle“ “Iniziazione e realizzazione spirituale”, uscita nel 1952, di cui lo stesso Guénon aveva parlato quale “seguito” ideale del precedente lavoro, in due lettere dell’agosto e del settembre 1950 a Jean Reyor (alias di Marcel Clavelle), futuro curatore di quest’opera e di quella sull’esoterismo cristiano, seconda raccolta pubblicata postuma (1954).
Entrando nel merito della prefazione di Evola, in essa il barone si soffermava di nuovo sull’importanza dell’opera complessiva di Guénon, sul concetto di metafisica e quindi di iniziazione. Da notare, probabilmente per la prima volta dopo lo scontro degli anni Venti, una riflessione sulla possibilità di concepire il dato metafisico in un’ottica diversa da quella guénoniana. Il discorso si riallaccia, in sostanza, alle diverse forme di manifestazione della Tradizione che poi vengono sussunte nell’Unità metafisica superiore, di cui appunto costituiscono meri angoli visuali (verrebbe da pensare ai darshana, con riferimento ai vari “filoni” della Tradizione induista). In poche parole, Evola chiariva quello che sarebbe rimasto probabilmente il principale punto di divergenza tra lui e Guénon, vale a dire il ruolo dell’Azione e della Contemplazione quali vie realizzative iniziatiche. Per Evola, notoriamente, si trattava di due vie “di uguale dignità”, di cui la prima è propria della Tradizione occidentale, una tradizione essenzialmente guerriera, fondata sulla “sapienza eroica degli kshatriya”, su un concetto “metafisico” della guerra; per Guénon, altrettanto notoriamente, la realizzazione metafisica si identificava invece unicamente con la via contemplativa, concepita come nettamente superiore all’azione, in ogni sua forma di estrinsecazione: la via dei brahmana (*).
Questa visione, nettamente “orientale”, appariva ad Evola comunque limitante ed imprecisa, e non in grado di fornire all’Occidente i corretti strumenti per una rinascita, che per Evola poteva fondarsi su una riattivazione in chiave superiore della vena eroico-guerriera, caratteristica appunto della Tradizione Occidentale. Tant’è che il barone non esitava a scrivere in questa prefazione: “Si può dunque dire che l’opera del Guénon è positiva nella sua parte negativa e negativa nella sua parte positiva”. Una sottile critica, stavolta certamente dai toni pacatissimi, rispettosa e non pungente, ma che potrebbe in qualche modo riecheggiare qualche contenuto della polemica degli Anni Venti, con gli adeguati adattamenti dovuti alla maggiore preparazione di Evola in materia: in effetti, anche ne “Il cammino del cinabro” Evola continuerà a parlare del “tradizionalismo” secondo la “corrente” facente capo a Guénon come di una formulazione “intellettualistica” e “orientaleggiante”, con tanto di riferimento alla definizione di “Cartesio dell’esoterismo” che fu affibiata a Guénon dallo storico Antoine Faivre. E, quindi, tornano alla mente certe invettive del giovane Evola contro la “metafisica della conoscenza” di Guénon, statica, immobilistica, meramente “oggettiva”, contrapposta ad un “dinamismo”, ad una sorta di “metafisica del divenire”, che non era più ovviamente quella dai toni dialettico-idealistici propria dell’Individuo Assoluto e della Volontà di Potenza, ma che ora veniva caratterizzata e definita dall’Azione eroico-guerriera; potremmo chiamarla la “metafisica degli kshatriya”.
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(*) Del fatto che per Guénon, in ragione della sua impostazione “brahminica”, l’azione in sé non potesse avere più di tanto riflessi spirituali rilevanti e, comunque non potesse costituire una Via iniziatica compiuta, possiamo trovare conferma, tra l’altro, in queste sue parole tratte da “Introduzione generale dallo studio delle dottrine indù” (cap. XIV): «È d’altronde evidente che l’azione non può avere conseguenze che nell’ambito dell’azione stessa, e che la sua efficacia si arresta esattamente dove cessa il suo influsso; l’azione dunque non può avere l’effetto di liberare dall’azione e di far ottenere la ‘liberazione’; di conseguenza un’azione, di qualunque genere essa sia, potrà tutt’al più portare a realizzazioni parziali, le quali corrispondono a taluni stati superiori, e sono però ancora determinate e condizionate. Shankaracharya dichiara espressamente che “non v’è altro mezzo per ottenere la ‘liberazione’ completa e finale se non la conoscenza; l’azione, la quale non si oppone all’ignoranza, non può eliminarla, mentre la conoscenza la dissipa come la luce dissipa le tenebre“».
Molto significativa, sempre riguardo a questo tema, l’incapacità di Guénon di comprendere la cosiddetta “metafisica della montagna”: in una lettera a Guido De Giorgio del 29 settembre 1929, con riferimento ad un articolo di Domenico Rudatis apparso in Krur, scriveva: “ho visto in effetti quelle storie di ascensioni in montagna e mi sono chiesto che cosa c’entrassero lì dentro” (cfr. Renato del Ponte, “Evola e il magico “Gruppo di Ur”, SeaR Edizioni, Borzano, 1994, p. 170, e G. De Turris, nota 3 all’articolo di Evola “Il Gross-Glockner per la Via Pallavicini”, in “Meditazioni delle Vette”).
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Copertina dell’opera di Guénon a cura dell’Editore Luni del 2014
I vari libri del Guénon obbediscono ad un piano prestabilito, che essi vanno ordinatamente svolgendo, il compito iniziale è puramente negativo e se ne può chiarire il senso come segue. Chiuso nella tenaglia del materialismo, l’Occidente negli ultimi decenni è stato preso da un èmpito confuso verso qualcosa di «altro», non sapendo però giungere che a forme equivoche, superstiziose e inconsistenti le quali, contraffacendo la vera «spiritualità», hanno costituito, alla fine, un pericolo altrettanto reale quanto quello del materialismo contro cui erano partite. È così che il Guénon, per primo, ha creduto opportuno prendersela con i «neospiritualismi» più in voga, eseguendone una demolizione sistematica e, a nostro avviso, salutare.
Primo a cadere sotto i suoi colpi è stato lo spiritismo. Il suo libro L’Erreur Spirite, del 1923, merita veramente di esser letto, perché in nessun altro si trova una mise au point del genere. Bisogna, a questo proposito, comprendere l’attitudine del Guénon: egli non contesta la realtà dei fatti, ritenendosi anzi fondato ad ammettere molto più di quel che non possa qualsiasi spiritista. Quel che egli afferma, conformandosi all’opinione di chi, come gli Orientali, purtuttavia erano così addentro in fatto di fenomeni psichici – quel che egli afferma è che tali fatti (medianità, ecc.) non hanno nessun valore spirituale; che ogni interesse extrasperimentale per essi è malsano e incentivo di degenerescenza; che l’ipotesi spiritica oltre che arbitraria, è in sé stessa contraddittoria e che è soltanto aberrante la pseudoreligione che in certi ambienti ne deriva. Spiragli oltre il «normale» possono pur aprirsene, ma con ben altri metodi e con ben altra attitudine interiore, se si deve parlare di «spiritualità».
Il secondo colpo cade sulla teosofia anglo-indiana e le sue derivazioni più o meno «occultistiche», per le quali vien proposto il termine di «teosofismo» (Le Théosophisme. Histoire d’une pseudo-réligion, 1921). Il Guénon si dimostra terribilmente informato di tutti i retroscena privati del movimento. Simultaneamente, se pur non sistematicamente (e per questo il primo volume è migliore), egli si dà a mostrare quanto, nel teosofismo, si risolva in una morbosa divagazione di menti confuse, mista a singolari travisamenti di dottrine orientali per opera dei peggiori pregiudizi occidentali. Ed anche qui, come l’antispiritismo del Guénon, non vuol dire filisteismo materialista, ma proprio il contrario, così pure il suo antiteosofismo parte unicamente dal bisogno di difendere certe posizioni e dottrine spirituali e tradizionali a cui lo stesso teosofismo vorrebbe rifarsi, non giungendo invece che a delle contraffazioni più dannose.
Ma l’opera negativa del Guénon non si arresta a tanto. Dopo le velleità «neospiritualiste» ecco che l’intera cultura dell’Occidente diviene l’oggetto dei suoi attacchi (Orient et Occident, 1924; La crise du monde moderne, 1927; ed anche: Introduction générale à l’étude des doctrines hindoues, 1921). Più semplicemente, si tratta di ciò a cui l’Occidente ha dato luogo partendo, ad un dipresso, dall’Umanesimo e dalla Riforma. Guénon non esita a riconoscere la perversione più completa di ogni ordine ragionevole di cose.
Per chi voglia seguire il Guénon, qui il terreno comincia a farsi difficile, perché difficile, per i più, è il rendersi conto del punto di riferimento assunto dall’autore. Il Guénon sostiene che la causa della crisi del «mondo moderno» risiede principalmente in un perduto contatto con la «realtà metafisica» e nel conseguente estinguersi di tradizioni che avessero il deposito di un corrispondente corpus di principi di valori e di insegnamenti.
Per la comprensione del termine «realtà metafisica» come l’usa Guénon, è d’uopo retrocedere a dottrine «premoderne» e «superate», nell’opinione della moderna filosofia: alla scolastica, per esempio, o a Plotino o alle grandi scuole speculative orientali. Di là da tutto ciò che è spaziale e temporale che è soggetto a cangiamento, che è intriso di particolarità, di individualità e di sensibilità, esisterebbe un mondo di essenze intellettuali, ma non come ipotesi o come astrazione della mente, sibbene come la più reale delle realtà. L’uomo potrebbe «realizzarlo», cioè averne un’esperienza diretta così certa, come quella datagli dai sensi fisici, quando riesca ad elevarsi ad uno stato «soprarazionale» di «intellettualità pura», cioè ad un atto trascendente dell’intelletto scisso da ogni elemento propriamente umano, psicologistico, affettivo-soggettivo e così pure «mistico» e individualistico; ed è in relazione a ciò, e non nel riferimento ad una speculazione filosofica, che viene usato il termine: «metafisico».
Cose, come ognuno vede, tutt’altro che nuove. Ma il Guénon a priori si dichiara avversario irriducibile di tutto ciò che è «nuovo» e «moderno»; e nell’idea che l’esser «originale» e «personale», anzi che l’esser vera, decida dell’importanza di una dottrina, egli accusa una delle più singolari deviazioni della mentalità contemporanea.
Dal contatto con la «realtà metafisica» l’uomo, come si è detto, ricaverebbe un insieme di principi, che renderebbero possibile una visuale non-umana per considerare e ordinare le cose umane: avrebbe dei punti fermi, da cui per adattazione ai vari piani potrebbero esser dedotti principi per conoscenze particolari e varie, ma sempre ordinate «gerarchicamente» intorno ad un asse unico sovrannaturale. Questo, per il Guénon, sarebbe stato il carattere delle «scienze tradizionali» conosciute negli antichi cicli di cultura, in opposto alle scienze moderne, induttivo-esterioristiche, particolaristiche, prive di un punto unitario di riferimento, incapaci di conoscere oltre che di «sapere», puramente «profane».
D’altra parte, trasportata sul piano dell’azione, la «conoscenza» relativamente alla «realtà metafisica» darebbe dei punti di vista superiori, dei principi per dirigere gli interessi terreni, per inquadrare le attività mondane, per prolungare, insomma, la «vita» in qualcosa che è più che «vita».
E a questa seconda applicazione non va dato un valore puramente ideale o contrappuntistico: ciò che non comincia né finisce nell’elemento «uomo», proietta dei precisi rapporti di distinzione e di «dignità» nelle forme di vita; e così nasce la possibilità di quella «gerarchia», che antiche organizzazioni sociali conobbero: nell’India, nell’Estremo Oriente, anche nei centri paleomediterranei sino a quel medioevo cattolico-feudale al quale il Guénon, rivendica uno speciale significato di valore. Invece che un gioco di forze esterne, sarebbe dunque stata l’azione universale e, diciamo così, «catalittica» della «conoscenza metafisica» a instaurare simili strutture d’ordine sin nella vita concreta e politica.
Per la sua natura non-umana, una tale «conoscenza» avrebbe un carattere universale, di una universalità concreta basata sopra un’esperienza trascendente, ripetiamolo, e non astratta o comunque razionale. E come secondo antiche teorie, la potenza del fuoco esisterebbe sempre e ubiqua, per quanto non si manifesti visibilmente che quando siano presenti dati determinismi e ora sotto questa o quella forma contingente, così pure la conoscenza metafisica avrebbe per sue manifestazioni il corpus degli insegnamenti di varie tradizioni e religioni, varie secondo il tempo e il luogo, ma pure riconducibili all’«invariante» di una Tradizione unica o «primordiale», espressione, questa, da prendersi però non in senso temporale e storico, ma in senso metafisico e spirituale.
Dall’Umanesimo in poi, il Guénon vede costituirsi una cultura «involutiva» in quanto basata unicamente sull’«umano». Sono le facoltà razionali che prendono il posto dell’«intellettualità pura»: l’astrazione filosofica si sostituisce alla conoscenza metafisica, l’immanenza alla trascendenza, l’individuale all’universale, il movimento alla stabilità, l’antitradizione alla tradizione. Simultaneamente il polo materiale e pratico della vita si ipertrofizza, si ispessisce, prende la mano su tutto il resto. Nuove manifestazioni dell’«umano», il moralismo, il sentimentalismo, l’esaltazione dell’«io», dell’incomposto agitarsi (attivismo), della tensione senza luce («volontarismo») balenano dappertutto nel mondo moderno, fra una completa mancanza di «principi», fra un caos sociale e ideologico, fra una contaminazione mistica della «vita» e del «divenire» che batte il ritmo ad una specie di corsa verso l’abisso, sotto il cielo arimànico di una grandiosità puramente meccanica e materialistica.
E dall’Europa il male si estende altrove come una nuovissima barbarie: l’antitradizione insinua dappertutto il suo standard of living, «modernizzando» quelle civiltà che, come l’Islam, l’India e la Cina, sia pure in lontani riflessi ancora conservano valori dell’altro ordine. Onde – giustamente, a parer nostro – il Guénon dice contro Massis che, se mai, non di un «pericolo orientale» per l’Occidente, bensì di un «pericolo occidentale» per l’Oriente si deve parlare. E gli scatti di reazione, si è visto già dove conducono, in Occidente: sono le deviazioni neospiritualistiche e spiritistiche che esse stesse, riflettono la tirannia delle facoltà infraintellettuali e l’incomprensione per una realtà che si può esser talvolta mostrata, per spiragli luciferinamente socchiusi. E quand’anche non si tratti di teosofismi, spiritismi e simili, la stessa riviviscenza cristiana in sette e in «ritorni» è la più lontana di tutto dal senso di quel severo contenuto di conoscenza ascetica e simbolica, che attraverso il cristianesimo, potrebbe condurre ad un rinnovato contatto con la «realtà metafisica» e con la «Tradizione», al titolo di una liberazione e di una reintegrazione dell’io.
Il panorama dell’«età moderna» si presenta dunque al Guénon in modo non troppo luminoso. Né egli ammette transazioni: dice no allo spirito occidentale preso in blocco e dubita che si sia ancora in tempo per arrestare la corsa che forse già precipita verso un epilogo di catastrofe. Ad ogni modo, a ciò si richiederebbe anzitutto formare delle élites, nelle quali si ridesti il senso della realtà metafisica. Ma fra queste élites (che, fra l’altro, potrebbero già esistere, più o meno fra le quinte) e le grandi masse della società moderna, come si può pensare che si stabilisca una comunicazione? E allora, anche fatto questo passo, la «Tradizione», in senso grande, non resterebbe nuovamente un problema?
Il tentativo di partire da una delle tradizioni ancora esistenti e da là procedere per «integrazione», forse avrebbe migliori possibilità. A questo riguardo, lo sguardo del Guénon si è portato sul cattolicesimo. Egli, come si è detto, ritiene che, più di ogni altra, la tradizione cattolica abbia avuto in Occidente il deposito della «Tradizione primordiale»: deposito anzitutto ricevuto in una forma religiosa e poi, al giorno d’oggi, passato allo «stato latente» come corpo di simboli e di dottrine, nella cui comprensione non entra ormai niente più di metafisico. Occorrerebbe invece che nel cattolicesimo si formasse una élite capace di tanto; e alla reintegrazione, secondo il Guénon, potrebbe servire la conoscenza di dottrine orientali che, come quella vedantina di cui il Guénon ha dato una buona esposizione: L’homme et son devenir selon le Vedanta, 1925, conserverebbero tuttora l’insegnamento «ortodosso» in una forma più pura e più metafisica. Allora il cattolicesimo potrebbe rianimarsi e costituirsi come un principio positivo contro la crisi del mondo moderno.
Quanto siano chimeriche speranze del genere, qui non staremo a rilevarlo: e il Guénon lascia quasi comprendere una certa sua delusione dopo certe «esperienze» personali in proposito. Ma, in ogni caso, resterebbe questo problema: sino a che punto lo stesso cattolicesimo, anche così reintegrato, si può pensare che possa riorganizzare nell’unità di una Tradizione universale il mondo moderno? Come «base», non bisogna illudersi: il cattolicesimo ormai è estraneo al centro del mondo moderno: ed anche là dove ancora domina, il suo dominio è tutto in superficie e non impedisce che la direzione principale della vita e degli interessi miri a tutt’altra cosa, sia laica e antitradizionale.
Diciamo di più: la stessa comprensione della realtà metafisica, come il Guénon la presenta, è tale da essere essa stessa in contrasto con lo spirito dell’Occidente non pure post-umanistico, ma altresì classico, nordico-germanico, ellenico; onde il Guénon deve forzatamente vedere una via senza uscita e ridursi ad un verdetto di condanna privo di effetti.
Tuttavia ci si può chiedere: il modo con cui il Guénon concepisce il metafisico è forse l’unico possibile e legittimo?
Qui siamo al punto fondamentale ove la cinta di difesa del Guénon lascia una zona scoperta. Si è che il termine di «intellettualità pura» usato dal Guénon per l’organo della «conoscenza metafisica» cela un equivoco, anzi un paralogismo, perché effettivamente esso vuol dire «realizzazione» e ogni «realizzazione» comprende due aspetti, due possibilità che sono: azione e contemplazione. Il Guénon surrettiziamente identifica il punto di vista metafisico con quello in cui la contemplazione domina sull’azione, laddove è di uguale dignità l’altro, in cui l’azione invece domina sulla contemplazione e viene a fornire essa stessa una via e una testimonianza della trascendenza, così come nelle tradizioni di sapienza eroica degli kshatriya (guerrieri) conosciute dallo stesso Oriente, se pure in frequente contrasto con quelle più predominanti dei brahmana, alle quali si rifà l’attitudine del Guénon.

Per Evola, solo riattivando la radice eroico-guerriera della Tradizione occidentale si potrebbe prospettarne una rinascita
Ma dal punto di vista brahmano, l’antitesi con l’Occidente si fa aspra ed irriducibile, perché lo spirito dell’Occidente ha appunto una tradizione essenzialmente guerriera, epperò rivela possibilità di latenti vie di reintegrazione solamente quando gli si vada incontro partendo dai principi e dalla comprensione del metafisico che sono propri ad una sapienza guerriera: e quei valori occidentali, come quelli dell’affermazione individuale, della pluralità, della libera iniziativa e dell’immanenza, più che negazione, apparirebbero come elementi allo stato materiale da elevare ad un piano spirituale, secondo l’anima di una tradizione veramente occidentale, cioè guerriera.
Si può dunque dire che l’opera del Guénon è positiva nella sua parte negativa e negativa nella sua parte positiva, perché qui la sua leva manca del punto d’appoggio necessario per poter agire su quella realtà, su cui vorrebbe agire. È invece comprendendo la radice guerriero-eroica che tuttora sta dietro alle forme oscure del mondo moderno e mostrando per quale via si possa liberarla da tale piano e condurla a riaffermarsi in un ordine superiore – quelle antiche tradizioni, in cui l’Eroe, il Signore e il Re apparivano simultaneamente come portatori di valori e di influenze non-umane potrebbero, a questo proposito, insegnarci più di una cosa – che si può giungere in Occidente a qualcosa, più che ad una sterile negazione, che ne disconosce la fisionomia.
A Guénon resta comunque il merito di aver affermata la necessità del ritorno ad un punto di vista «non-umano» nel senso più integrale, chiaro e virilmente ascetico e soprarazionale del termine: giacché questo è il principio, ciò che, anzitutto, importa e senza di cui il problema dello spirito moderno sarebbe condannato a rimanere tale.
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