Evola contro Guénon? La “sfida” del giovane Julius (II parte)

Seconda parte dell’articolo in cui un Evola appena ventisettenne, alla fine del 1925, recensiva “L’uomo ed il suo divenire secondo il Vedanta di René Guénon sulle pagine del quindicinale “L’idealismo realistico”.

In questa seconda parte gli strali di Evola verso Guénon appaiono molto più diretti, espliciti, caustici. Senza timori reverenziali di sorta, un Evola “sfrontato” non esita ad attaccare tanto il maestro di Blois quanto il sistema del Vedanta. Dopo la pungente premessa, in cui Evola scrive che l’esposizione della metafisica in forma filosofica è una necessità, che però non deve diventare un “alibi”, si arriva subito alle critiche specifiche sul sistema del Vedanta. Si comincia con una “pericolosa” osservazione circa l’anteriorità o meno del concetto di Dio rispetto alla “conoscenza” che di esso si venga ad avere, dal che emerge chiaramente l’approccio idealistico-immanentistico dell’Evola di quella fase, per giungere alle furiose critiche al concetto vedantino di manifestazione del Principio, in forza del quale il mondo, l’uomo ed il suo divenire sarebbero in sé inesistenti, privi di autonoma valenza. Invece, per Evola, “Il manifestarsi e, in conseguenza, il fini­to, l’individuale, ecc. (…) non sarebbero più la morte e la contradizione dell’infinito (quindi un non-essere), un nulla che oscura il pieno (…), ma invece il suo atto, la sua gloria, ciò in cui testimonia e afferma a sé stesso la sua libertà potente”: concezione che troverebbe la sua espressione completa nella dottrina del Ҫakti-tan­tra, fondata sul concetto di potenza (çakti), che Evola contrapponeva esplicitamente al Vedanta.

In questa recensione fortemente critica di Evola, e più in generale nella sua elaborazione di quel periodo, era dunque evidentissimo l’influsso di quell’ “orientamento idealistico-nietzschiano in connubio col tantrismo”, come da Evola stesso definito, che era alla base del suo concetto di individuo assoluto, di idealismo magico o reale, di Potenza, di autorealizzazione in chiave (più o meno consapevolmente) ancora immanentistica più che metafisica, e quindi ancora legata al rilievo dell’individuo e del suo divenire-progredire in chiave conoscitiva ed autorealizzativa, dal chiaro sapore idealistico, con un evidente rigetto di qualunque prospettiva di approdo realmente metafisico e quindi, in quanto tale, disindividualizzante.

Anche in questa seconda parte abbiamo suddiviso il testo in paragrafi, non presenti nell’articolo originale, per facilitarne la lettura.

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“L’uomo e il suo divenire secondo il Vedanta”

di Julius Evola

tratto da L’idealismo realistico”, novembre-dicembre 1925 (n. 21-24)

segue dalla prima parte

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4. Il Vedanta di Guénon: la metafisica esposta come una filosofia?

Passiamo dunque a vedere fino a che punto il Vedânta – che per il G. sarebbe quasi il sistema «metafisico» tipo – possa rappresentare qualcosa per un Occidentale che non sia un degenerato – cioè che non sia venuto meno a quanto in consapevolezza critica e spirito di affermazione la ci­viltà a cui appartiene gli ha realizzato, che non abbandoni le posizioni per tornare indietro, ma voglia invece portarle avanti.

Raffigurazione di Madhva (vissuto nel XIII o XIV secolo), fondatore del sistema vedāntico dvaita (“dualista”)

Però, prima, si impone una avvertenza. Abbiamo accennato al carattere trascendente della realiz­zazione metafisica e alla difficoltà di poterne dare un senso in funzione alle categorie abituali. Ma questo punto – da noi esplicitamente concesso – non deve divenire rifugio per uno sfrenato, dogmatico quanto arbitra­rio, divagare soggettivo. Poiché precisamente così fanno alcuni begli spi­riti dilettanti in «occultismo»: non stanno zitti nel puro ineffabile, ma par­lano; tuttavia quando si chiede loro che determinino bene il senso delle espressioni e rendano conto delle difficoltà che suscitano, si traggono in­dietro vaporizzandosi di nuovo nel riferimento ad un puro intuire interio­re, il quale così resta un fatto bruto che non rende conto di sé; che si im­pone così poco quanto il gusto di uno a cui piace il formaggio di contro a quello di un altro, che preferisce le fragole. Quindi delle due, l’una: o si resta chiusi nell’ambito iniziatico, i cui sistemi autoverificativi e comuni­cativi non possono però, salvo casi eccezionali, entrare in linea di conto per un «profano»; ovvero si parla. Ma se si parla, si è tenuti a parlare correttamente, ossia: a render conto di ciò che si dice, a rispettare le esi­genze logiche che qui sono così inoffensive come quelle grammaticali, a far vedere che l’oggetto della realizzazione metafisica sia pure per acci­dente (nella sua «forma propria» cadendo nella pura interiorità dell’Io) dà reale soddisfazione a tutte quelle esigenze e quei problemi che nell’ambito puramente umano e discorsivo sono destinati a rimanere puramente tali. È troppo facile, infatti, risolvere i problemi non ponendoli, imitando quasi lo struzzo che annulla il pericolo nascondendo la testa sotto l’ala. Bisogna invece tener fermo, affrontare il nemico fissandolo bene in viso, e abbatterlo usando le sue stesse armi.

Diciamo ciò per prevenire chi accusi la nostra critica – se non addirittura la nostra opera in generale – di avere una portata puramente filosofica. Ciò, anzitutto, non è esatto, perché in noi quel che sta prima è una certa «realizzazione» e, soltanto dopo, come veste, un certo sistema logi­camente intelligibile. Ma quand’anche fosse, ogni espressione in quanto tale è tenuta alla prova del fuoco del logos; e se parte dal soprarazionale – tanto meglio, essa vincerà certamente questa prova poiché ciò che è su­periore implica e contiene in modo eminente ciò che è inferiore. E che il volume del G. sul Vedânta non sia che una esposizione filosofica, spe­riamo che l’autore ne sia consapevole. Egli parla sì di qualcosa che non è precisamente filosofico, tuttavia egli ne parla (e non è colpa sua, poiché non vi è altra scelta, a meno di ricorrere a simboli) filosoficamente, ossia si sforza di presentare qualcosa di intelligibile e di giustificato. Se dun­que, prendendo questo aspetto, mostreremo la relatività di una tale intelli­gibilità e giustificazione, egli non può trarsi indietro e cambiare giuoco col riferirsi alla superiore validità tradizionale e metafisica; alla quale del resto, sullo stesso livello, sapremmo riaffermare il nostro atteggiamento di cui le nostre critiche filosofiche non sono che serve obbedienti.

5. Il Vedanta e la nullità della manifestazione (mondo) rispetto al principio (Brahman)

Dunque: che cosa dice il Vedânta sul mondo, sull’uomo e sul suo divenire?

Anzitutto si ha il presupposto ottimistico, che esista un Dio, cioè che l’insieme contingente e fenomenico delle cose non sia ciò che sta prima, ma soltanto l’aspetto accidentale di un tutto che, attualmente, è già perfet­to e compreso in un superiore principio. Che questo sia un mero presup­posto, e che qui il Guénon faccia assai poca attenzione alla teoria della conoscenza propria agli Indiani, ognuno lo può vedere da sé non appena sappia che per l’Indiano qualcosa non è vero, che quando venga speri­mentato attualmente. Nel nostro caso: nessuna certezza di Dio, fuori da quella esperienza dell’Io che lo abbia per contenuto. Ora poiché una tale esperienza non è immediata e generale ma per giungere ad essa occorre un certo processo, non vi sono argomenti dimostrativi per affermare che Dio esista già (e quindi che il processo sia semplicemente riconoscitivo) anziché venir dopo, come un risultato di questo processo che ha fatto di­vino qualcosa che non era tale.

Passiamo avanti. Di questo presupposto – Dio o Brahman – il mon­do sarebbe la manifestazione. Ora il concetto di manifestazione secondo il Vedânta è qualcosa di furiosamente ambiguo. È detto infatti che Brah­man nella manifestazione rimane ciò che è – immutabile, immobile – non solo, ma che la manifestazione stessa (e, quindi, tutto ciò che è particola­rità, individualità e divenire) è, rispetto a lui, qualcosa di «rigorosamente nullo». Essa ne è una «modificazione», che in nessun modo lo altera. In lui, in eterna, attuale presenza, sono tutte le possibilità: la manifestazione è soltanto un modo accidentale che investe alcune di esse. Come tali proposizioni possano essere rese intelligibili, difficilmente lo si saprebbe mostrare. Si badi: qui non vi è la scappatoia dell’ex nihilo cattolico, ove il nihil si fa un principio distinto e a suo modo positivo, da cui le creature sarebbero materiate onde sarebbero e, nel contempo (in quanto fatte di «nulla», di «privazione»), non sarebbero. Brahman non ha invece nulla fuori di sé: nemmeno il «nulla». Le cose sono sue modificazioni: come si può dunque dire che non sono?

Meister Eckhart (1260-1328)

In connessione: se Brahman è la sintesi assoluta di tutto, che posto vi è per un modo contingente di considerarla? Come è possibile che sor­ga un tale modo, una tale oscurazione in Brahman? Come non accorgersi che la frase ha senso solo nel presupposto dell’esistenza di un principio distinto da Brahman, capace appunto di comprenderlo in modo relativo ed accidentale – il che è contro la premessa? Dice il G. (pp. 30-31): «Metafisicamente la manifestazione non può essere considerata che nella sua dipendenza dal principio supremo e a titolo di semplice supporto per ele­varsi alla conoscenza trascendente». Ora domandiamo: chi è che si eleva ad una tale conoscenza? O è Brahman stesso, ed allora bisogna intende­re, con Eckhart, Scoto Eriugena, Hegel, Schelling e tanti altri, che il mondo è lo stesso processo autoconoscitivo dell’assoluto – ma allora es­so ha un valore e una realtà, anziché essere un fantasma di contro alla sintesi eterna preesistente, è l’atto stesso con cui questa sintesi si dà a sé stessa. Ovvero vi è un «altro» di contro a Brahman, il che significa far di Brahman un relativo, «uno fra due», contro l’ipotesi.

Ancora: «Immutabile nella sua natura propria, Brahman sviluppa solamente le possibilità indefinite che egli comporta in sé stesso, me­diante il passaggio dalla potenza all’atto … e ciò senza che la sua permanenza essenziale ne sia affetta, precisamente perché questo passaggio non è che relativo e questo sviluppo non è sviluppo che in quanto lo si consideri dal lato della manifestazione, fuori dal quale non può esservi quistione di una qualunque successione, ma soltanto di una perfetta si­multaneità» (p. 36). La difficoltà è la stessa: ciò andrebbe benissimo dato che si avesse modo di fare intendere come possa esistere un punto di vi­sta diverso da quello dell’assoluto e coesistente con esso. Ma se ciò non è possibile, la successione, lo sviluppo e il resto non sono da dirsi acci­dentali e illusori, ma assolutamente reali. L’unico rifugio sarebbe il crea­zionismo come projectio per jatum dei teologi cattolici, ossia la possibi­lità divina di staccare da sé centri distinti di coscienza, che possano dun­que vedere dall’esterno ciò che Egli internamente comprende in modo eterno. Ma anche prescindendo dall’inconsistenza logica di una tale ve­duta, sta di fatto che essa è interamente sconosciuta alla sapienza indiana.

Il G. moltiplica i punti di vista per spiegare le antinomie, e non si ac­corge che questa è una pseudosoluzione, anzi un circolo vizioso, salvo partire da un originario dualismo, cioè proprio dall’opposto di ciò a cui si vuole giungere. Trasposte a quelle dei punti di vista, le opposizioni non solo restano, ma risultano esasperate.

Quando il G. dice (p. 44) che non si può separare la manifestazione dal suo principio senza che essa si annulli – donde il profondo senso del­la dottrina vedânta e mâhayâna, che le cose sono ad un tempo reali (in ri­ferimento al loro principio) e illusorie (se prese in sé stesse) – egli dice giusto. Non una tale separazione noi gli rimproveriamo, ma quella del principio dalla manifestazione. Dal dire che se il mondo non può distin­guersi da Brahman, Brahman invece può distinguersi dal mondo (come sua causa libera), al dire che «l’intera manifestazione mondiale è rigoro­samente nulla rispetto alla sua infinità», vi è un bel salto, e cioè l’introdu­zione surrettizia di un concetto contestabilissimo dell’infinità stessa. Cioè: l’infinità intesa come indeterminazione, come ciò che in ogni deter­minato non può che soffrire la morte di sé. Tale per noi non è l’infinità vera, sibbene l’astratta sua ipostasi, quasi il carattere proprio dell’essere ignavo ed impotente. Infinità vera è potestas, ossia: energia di essere in­condizionatamente ciò che vuole. L’assoluto non può avere – come un sasso e una pianta – una sua natura (e tale sarebbe la stessa infinità se intesa come qualcosa di fatale, di immutabile, dunque di passivo rispetto a sé stesso). Egli è quello che vuole essere; e ciò che egli vuole essere è, senz’altro, l’assoluto, l’infinito. Il manifestarsi e, in conseguenza, il fini­to, l’individuale, ecc. allora non sarebbero più la morte e la contradizione dell’infinito (quindi un non-essere), un nulla che oscura il pieno (omnis determinatio negatio est), ma invece il suo atto, la sua gloria, ciò in cui testimonia e afferma a sé stesso la sua libertà potente.

6. La manifestazione come atto e gloria dell’assoluto nel concetto di Potenza (Ҫakti-tan­tra)

Il bello è che un tale punto di vista lo si ritrova in una scuola orienta­le (che, naturalmente, il G. chiamerà «eterodossa») – quella dei Ҫakti-tan­tra, i quali muovono al Vedânta una critica, la cui portata è indiscutibile. Solamente a patto di mettere al posto delle nebulose, intellettualistiche nozioni di spirito (âtmâ) e infinito (brahman) quella attivistica e concreta di potenza (çakti) – essi dicono – si ha modo di venire a capo, da un pun­to di vista non-dualistico, delle varie difficoltà inerenti al concetto di ma­nifestazione. L’assoluto è potenza di manifestazione, il mondo è il suo atto: quindi è reale, di una suprema realtà.

Se invece l’assoluto lo si comprende come una infinità attuale esi­stente ab aeterno, che posto vi è più per una manifestazione? Non si ac­corge il G. dell’assurdità del concetto che questa sia lo «sviluppo» di al­cune «possibilità» presenti al principio supremo? Infatti o si dà un senso al termine «sviluppo», o non glielo si dà. Se sì, si avrebbe una cosa che è, ad un tempo e nello stesso rapporto, in potenza e in atto, il che è, con­tradizione in termini. Tale la «possibilità» di cui parla, giacché questa in quanto riferita all’eventuale manifestazione dovrebbe essere in potenza, ma in quanto d’altra parte è possibilità del principio supremo, non è più possibilità ma attualità, cosa già «sviluppata», nulla essendovi in Brah­man che non sia attuale (1). Si può notare come il G., nel suo entusiasmo (stavamo per dire: fanatismo) per l’Oriente, vede la pagliuzza nell’occhio del vicino, ma non la trave nel suo proprio: infatti precisamente questa critica egli fa alla concezione del Leibniz (che, naturalmente, per lui è me­ra «filosofia profana») e non si accorge che essa va ad investire le radici stesse del Vedânta.

La contradizione dunque cessa solamente dato che Brahman non sia più l’eterna luce intellettuale, sibbene pura potenzialità che nelle cose ma­nifestate ha non la sua negazione, ma la sua affermazione. E la necessità di una tale concezione trapela spesso nello stesso G. – là dove egli si rife­risce ad una «volontà creativa divina», ad un «supremo principio causan­te». Così egli si avvicina alla coerenza – ma, nel contempo, si allontana dal Vedânta quale è veramente. Infatti il Vedânta afferma esplicitamente che l’assoluto non è causa né attività, che causa ed attività non cadono in lui, sibbene nell’inconscia «mâyâ», onde quando se le attribuisse dicen­do: «Io causa, io agisco, io creo», egli cadrebbe vittima di illusione e di ignoranza. Causalità, creazione insieme a tutto ciò che è divenire é deter­minazione, per il Vedânta non cadono nell’assoluto che, per esso, è pura, indeterminata esistenza nuda di qualsiasi attributo (nirguna-Brahman), sibbene nell’assoluto oscurato da mâyâ (saguna-Brahman), la quale mâyâ resta un principiò inesplicabile e indefinibile, un «dato» di contro a cui si arresta. E fra saguna-Brahman e nirguna-Brahman vi è un abisso incolmabile (2): l’uno è, l’altro non è. Concetto questo, a cui infatti il G. dall’altro canto si tiene rigorosamente stretto, riaffermando così l’origi­naria concezione astratta dell’assoluto e dell’universale.

L’originalità e, ad un tempo, il difetto d’origine del Vedânta, sta pre­cisamente nella separazione del principio di una sintesi da ciò che è sinte­tizzato, separazione che fa dei due termini qualcosa di contradittorio l’uno rispetto all’altro. Mentre in un non-dualismo conseguente l’univer­sale è l’ «atto» che comprende il particolare come la «potenza» di cui è l’atto e attraverso cui si realizza, nel Vedânta l’universale non compren­de, ma esclude il particolare, giacché esso non può comprender questo che negandolo nell’indeterminata «identità», nel mero «etere di consape­volezza» (cid-âkâça), notte – per dirla con lo Hegel – in cui tutte le vacche sono  nere.

7. Il Vedanta dissolve ogni significato dell’uomo e del suo divenire?

Ora che presso ad una tale veduta ogni significato dell’uomo e del suo divenire vada dissolto, lo si può sin d’ora prevedere. L’individuo, in quanto tale, appartiene alla manifestazione e così è un nulla, una parvenza – questa è l’unica conseguenza rigorosa della premessa. Inutile contestare la legittimità di assumere a sé l’individuo e dire quindi che la distinzione fra lo e Brahman è una illusione propria all’Io (p. 210) – perché appunto qui sta il problema: questa illusione è reale, e bisognerebbe spiegare co­me nasca e sia possibile presso la mostrata impossibilità di duplicare i punti di vista. Inutile anche raddoppiare l’unità di coscienza in quella di un «me» (personalità, Io metafisico) e di un «Io» (individualità, Io empi­rico), giacché qui tornano le stesse contradizioni sopra rilevate procedenti dal presupposto dell’assoluta eterogeneità fra universale e particolare, fra metafisico e empirico. Fra questo «me» e questo «Io» non vi può essere una unione reale (come in una dottrina della potenza, ove il «me» sareb­be la potenza, di cui l’«Io» è l’atto ovvero, da un altro punto di vista, vi­ceversa), ma una estrinseca, incomprensibile composizione (confermata del resto dalla dottrina dei «corpi sottili» quale la espone il G.), analoga a quella fra «essenza» ed «esistenza» escogitata dalla Scolastica; ed altra conferma si ha dal G. quando dice che il passaggio dello stato manifesta­to a quello di Brahman (corrispondenti ai due principi dell’uomo) impli­ca un salto radicale (p. 200).

La Triade del Tantrismo: Il Dio Bhairava (il Tremendo, il distruttore della non-conoscenza) si unisce alla Dea Kālī, la Nera (espressione dell’energia divina immanente) sul corpo di Śiva immobile sulle fiamme (meta finale di Beatitudine suprema e Coscienza assoluta): il loro amplesso è espressione simbolica del ricongiungimento dell’umano e del divino

L’inconsistenza di una tale veduta (che, fra l’altro, nei riguardi della «salvazione» o «liberazione» dovrebbe coerentemente sboccare nel mi­stero cristiano della «grazia») al Vedânta l’hanno mostrata con mano ap­punto i Tantra. I Tantra fanno ai vedântini questo ragionamento: voi dite che davvero reale è solamente l’immobile Brahman senza attributi e il re­sto – l’insieme degli esseri condizionati – illusione e falsità. Ora risponde­te: chi siete voi, che affermate ciò, Brahman o un essere condizionato? Ma se voi siete un essere condizionato (e altro lealmente non potete dire di essere), siete illusione e falsità e quindi, a maggior ragione, illusorio e falso sarà tutto ciò che voi dite e così la stessa vostra affermazione, che soltanto Brahman è, e il resto è illusione.

Del resto lo stesso concetto di «essere condizionato», con cui il G. definisce l’uomo e le altre «manifestazioni» a lui simili, conduce ancora una volta al noto dilemma. Infatti o si ammette un principio distinto, su­scettibile di subire delle condizioni, contro una potenza condizionante – ma ciò è radicalmente contrario a tutto lo spirito del Vedânta, Ovvero si nega la distinzione, ed allora il condizionato e il condizionante divengono una sola e medesima cosa: è Brahman stesso che nei vari esseri si vuole così e così determinato, senza condizioni. Onde nulla vi è di relativo e di dipendente, tutto è invece assoluto, tutto è libertà. E qui, ancora una volta, nessun posto per l’espediente dei «punti di vista». Non ha senso di parlare di un punto di vista della creatura, che vive come condizioni e di­pendenza ciò che per Brahman non è tale: il punto di vista non può che essere unico: quello di Brahman. È Brahman stesso che nei vari esseri gioisce e dolora e che nello yoghin volge a dare a sé stesso la propria «li­berazione». Tale il punto di vista dei Tantra (e, con esso, di tutto l’imma­nentismo occidentale), il quale però non può essere quello del Vedânta appunto perché per il Vedânta l’assoluto come causa immanente è illu­sione e fra lui e il relativo e il «manifestato» vi è discontinuità, salto radi­cale.

Perciò: il mondo è un nulla. L’uomo, un nulla. Il divenire dell’uomo quello di un nulla che si risolve in nulla. Quale è infatti il senso di un tale sviluppo secondo il Vedânta? Un riassorbimento dello stato di esistenza concreta in quello di esistenza «sottile» e poi di un tale stato in quello non-manifestato, dove le condizioni (leggi: le determinazioni) individuali sono infine del tutto cancellate. Non si tratta dunque – come lo dice lo stesso G. (p. 175) – di una «evoluzione» dell’individuo, giacché il fine essendo «il riassorbimento dell’individuale nello stato non-manifestato, dal punto di vista dell’individuo sarebbe piuttosto da dirsi una involuzio­ne». Noi andiamo anzi più avanti: concependo la manifestazione come l’«atto» dell’assoluto, diremmo (si ricordi sempre: è impossibile dupli­care i punti di vista) che un tale divenire in verità è il venir meno dello stesso assoluto al suo atto, il suo pentirsi – regressione, degenerazione, non progressione.

Che le idee del G. e del Vedânta su questo punto siano chiare, del re­sto è dubitabile. Infatti, presso al «riassorbimento», si parla altresì di una identificazione dell’Io con Brahman in cui pertanto esso non si perde in alcun modo (p. 233) e di una «risoluzione» che più che annichilatrice è trans-formativa, apportatrice di una espansione di là da ogni limite, rea­lizzatrice della pienezza delle possibilità (pp. 196-7). Ambiguità, questa, in cui si rispecchia il dissidio di un dato di esperienza interna, spirituale in sé valido che pertanto non ha trovato, per esprimersi, un corpo logico adeguato, che è deformato da una concezione limitata e statica, quale è quella propria all’astratto universalismo del Vedânta.

8. Conseguenze dell’irrilevanza del divenire umano per il Vedanta: contemplazione passiva, morale utilitaristica, disfattismo morale. “Liberazione” garantita a tutti: svilimento della volontà umana?

In ogni caso, resta la difficoltà principale: qualunque ne sia la direzione, ha o no il divenire dell’uomo un valore, un valore cosmico? In­somma: perché debbo io divenire, trasformarmi? Di nuovo, non c’è che la scappatoia dei punti di vista. Rispetto all’infinito presupposto come esistente actualiter e tota simul ab aeterno, come identico rigorosamente a sé in qualsiasi stato o forma, tutto ciò che è divenire di «esseri condi­zionati» non può avere alcun reale significato, esso non può realizzare a Brahman nulla in più nello stesso modo che il suo non avvenire non po­trebbe realizzargli nulla in meno. Brahman, è e non può che essere, indi­cerente: tanto lo stato di un bruto (paça) che quello di un eroe (vîra) o di un dio (deva), per lui debbono essere perfettamente la stessa cosa, quindi il progresso da uno di questi stati ad un altro, dal suo punto di vista non può avere alcun senso e giustificazione. Anzi, di rigore, non si può parla­re di progresso e regresso, ma soltanto di passaggio; ma nemmeno: giacché lo stesso divenire è una illusione, riferentesi ad un punto di vista diverso da quello di Brahman.

Ognuno vede quali conseguenze pratiche derivino da ciò. Due casi: o una contemplazione passiva e stupefatta del succedersi incomprensibile degli stati; ovvero una morale utilitaria. Utilitaria perché il motivo ani­matore dell’eventuale svilupparsi e trasformarsi dell’uomo non potrebbe connettersi ad un valore cosmico, al senso cioè che il mondo, il Dio stes­so chiede a me qualcosa che non è se io non la faccio, ma potrebbe giu­stificarsi soltanto in funzione di un utile personale, della maggiore conve­nienza che all’individuo possono offrire particolari stati di esistenza.

Ma non basta. Dal punto di vista di un vedântismo coerente procede un disfattismo morale tale, che non è capace di giustificare nemmeno una etica utilitaria. Ciò, perché il passaggio attraverso una gerarchia di stati sino al non-manifestato Brahman, che un essere particolare può rea­lizzare mediante il lungo, aspro, austero processo di autosuperamento proprio allo yoga, non è che una specie di accelerazione di qualcosa che accadrà in via naturale a tutti gli esseri – è la «liberazione attuale» al luogo della «liberazione differita», onde tutto si riduce ad una quistione di … pa­zienza. Infatti la veduta del Vedânta è che il mondo, procedente da stati non-manifestati, in essi torni a sommergersi alla fine di un certo periodo, e ciò ricorrentemente. Alla fine di un tale periodo tutti gli esseri, bon gré mal gré, saranno dunque liberati, «restituiti». Donde una nuova negazio­ne: non solo manca ogni reale, soprapersonale giustificazione allo svilup­po, ma la stessa libertà è, in ordine ad esso, negata: gli esseri in ultima istanza sono fatalmente destinati alla «perfezione» (crediamo sia permes­so dare questo attributo, questa «relatività» al non-manifestato rispetto al manifestato, dal momento che non si è così non-dualisti da non distinguere quello da questo); veduta, questa, che contrasta con molte altre del­la stessa sapienza indiana – specie del buddhismo – in cui invece è vivis­simo un senso tragico dell’esistenza, il convincimento che se l’uomo non si fa il salvatore di sé stesso, nulla mai potrà salvarlo, che soltanto la sua volontà può trarlo via dal destino della generazione e della corruzione (samsâra) in cui altrimenti permarrebbe per l’eternità.

9. Conclusioni

Crediamo che non vi sia bisogno di aggiungere altro per rendersi conto del senso di ciò che il Vedânta vuole. Ciò che è certo, è che esso non è assolutamente ciò che noi vogliamo. E quando un «profano» ci di­cesse che se questa – questo nihilismo della realtà, dei valori e dell ‘indivi­dualità – è la «metafisica», egli di tale metafisica non sa proprio che far­sene, non bastandogli né servendogli, noi, davvero, non sapremmo come dargli torto.

Certamente, qui abbiamo trascurati diversi elementi positivi contenuti nel Vedânta (per i quali pertanto non è che quelli negativi già riscon­trati cessino di essere tali); ciò sia perché tali elementi non costituiscono quanto vi è di specifico nel Vedânta, ma sono comuni ad altre tradizioni esoteriche e specialmente a quelle che abbiamo chiamate magiche; sia perché si deve insistere su ciò che l’Oriente ha di negativo di contro a chi, come il Guénon, nell’Occidente non vuole vedere nulla di positivo.

E si badi: chi scrive ha per l’Oriente la massima considerazione e ad esso è stretto da vincoli molto più profondi di quanto non possa a tutta prima apparire. Solo che egli non può e non vuole procedere dogmatica­mente: tanto l’Oriente che l’Occidente vanno sottoposti ad una critica che sia nell’uno che nell’altro separi il positivo dal negativo. Soltanto dopo una tale separazione – a dir vero da operarsi con lo spirito più scevro di pregiudizi e di smanie polemiche più o meno femminili – si può pensare alla sintesi: a quella sintesi che, forse, è problema: di vita e di morte, sia per l’una che per l’altra cultura.

In relazione ad essa, due ci sembrano i punti fondamentali: la coscienza razionale, il puro livello logico e discorsivo – in cui è il culmine della civiltà occidentale – va superato. Ma ciò che sta davvero di là dal concetto non è il «sentimento» come non è né la moralità, né la devozio­ne, né la contemplazione e l’immedesimazione «intellettuale». Ciò che sta di là dal concetto è invece la potenza. Di là dal filosofo e dallo scienziato non vi è il santo, l’artista, il contemplatore – ma il mago: il domina­tore, il Signore.

In secondo luogo: la coscienza extravertita, perduta nel mondo ma­teriale e facente di questo l’ultima istanza, va trascesa. Ma questo supera­mento non deve essere ascesi, distacco, fuga dalla realtà, fede sognante nei cieli e sommersione intellettuale nell’ «Identità suprema»: deve essere invece immanente risoluzione del mondo nel valore, spirito che va a fare della realtà la espressione stessa della perfezione della sua attualità. La realtà del mondo va riconosciuta e, a dir vero, come quella del luogo stesso ove da un uomo si trae un Dio, dalla «terra» un «Sole».

Queste due esigenze trovano la loro migliore espressione in due mas­sime, che, di proposito, non traiamo, come potremmo, da «profana filo­sofia occidentale», sibbene da un sistema metafisico orientale – quello dei Tantra:

«Senza Ҫakti (= potenza) la liberazione è mera burla».

«O signora del Kula! In Kuladharma (via tantrica della potenza) il fruimento diviene realizzazione (yoga) perfetta, il male si fa bene e il mondo stesso diviene il luogo della liberazione».

Note dell’autore

1) Si noti: la critica già fatta previene l’eliminare la difficoltà di questi aspetti contraddittorii presenti in una stessa cosa con il riferirli a due diversi punti di vista.

(2) I tentativi di conciliazione, inerenti p. e. al concepire l’immobilità dell’assoluto come quella dell’aristotelico «motore immobile», se trovano fondamento in altre scuole orientali, non saprebbero però correttamente trovarne nel Vedânta.



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"In una civiltà tradizionale è quasi inconcepibile che un uomo pretenda di rivendicare la proprietà di una idea e, in ogni caso, in essa chi così facesse, con ciò stesso si priverebbe di ogni credito e di ogni autorità, poiché condannerebbe l’idea a non esser più che una specie di fantasia senza alcuna reale portata. Se una idea è vera, essa appartiene in egual modo a tutti coloro che sono capaci di comprenderla; se è falsa, non c’è da gloriarsi di averla inventata. Una idea vera non può essere «nuova», poiché la verità non è un prodotto dello spirito umano, essa esiste indipendentemente da noi, e noi abbiamo solo da conoscerla. Fuor da tale conoscenza, non può esservi che l’errore" (R. Guénon)

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