Seconda parte dell’intervista su Evola e Gentile con il nostro amico Luca Leonello Rimbotti, scrittore, grande studioso di mito, filosofia, spiritualità e politica nella cultura europea, soprattutto tedesca, che ci ha onorato della sua collaborazione offrendo spunti di riflessione interessanti ed originali. Ci soffermiamo oggi sulla filosofia della prassi e l’attualismo gentiliano (con la relativa prospettiva finale dell’Uomo-Dio), e sul concetto di Stato in Evola e Gentile, con i necessari riferimenti all’esperienza fascista e nazionalsocialista.
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segue dalla prima parte
4) L’argomento del significato e del ruolo della prassi e dell’azione concreta nella polemica tra Evola e Gentile assume sicuramente un significato particolare anche per i suoi risvolti propriamente pratici ed operativi.
Evola rigettava la prassi e l’azione nella concezione gentiliana, per la sua deriva in senso “creazionistico”, che avrebbe comportato effetti solipsistici e puramente materialistici totalmente in antitesi con concezioni superiori dell’individuo e quindi, indirettamente, dello Stato.
Tuttavia, molti autori ed interpreti di area tra cui proprio lei, dottor Rimbotti, propongono diverse letture e rivalutazioni della filosofia della prassi di Giovanni Gentile (anche per i suoi riflessi sulla concezione dello Stato), che, trovata forma compiuta nell’attualismo, avrebbe trascinato le idee sul terreno della loro concreta realizzazione, liberandole dalla prigione dorata dell’utopismo improduttivo, aprendo così le porte alla concezione dell’uomo totale e dell’Uomo-Dio.
Rifacendosi all’interpretazione di Evola, dottor Rimbotti, si potrebbe pensare che di fatto l’attualismo corresse il rischio di assumere un carattere molto più astratto che realmente pratico, nel momento in cui, in un’epoca come quella odierna, l’uomo decaduto non sembra in grado di seguire sulla via della volontà plasmatrice della realtà i pochi soggetti realmente in grado di assolvere tale compito in un certo senso “metastorico”?
Ricordiamo come anche Ugo Spirito, uno dei principali discepoli di Gentile, nella seconda metà degli anni Trenta criticò il suo vecchio maestro sostenendo che l’attualismo, divenuto una teoria come altre, non fosse più in grado di imprimere la propria forza sulla realtà.
Gentile, a differenza di Evola, accettava il cambiamento e nella modernità vedeva la possibilità di inserire valori superiori di natura spirituale. Diversamente da Evola, che potremmo definire un difensore dell’immutabilità della Tradizione, Gentile concepiva la possibilità che l’elemento sacrale divenisse religiosità immanente storicizzata, inveratasi nell’uomo moderno non solo nella dimensione individuale ma anche, e soprattutto, nella dimensione del popolo. Questo è l’aspetto “socialista” di Gentile. Anzi, per meglio dire il suo aspetto propriamente fascista, che giudico assente in Evola, che si poneva su un altro piano. Bisogna precisare infatti che il “liberalismo” gentiliano (in ogni caso si trattava di un nazional-liberalismo di marca ottocentesca: ovviamente tutt’altra cosa dal liberalismo liberista odierno) non poneva al centro del discorso l’individuo ma, proprio all’opposto del liberalismo attuale, la comunità popolare di cui lo Stato costituiva la proiezione, tanto che non si parlava per nulla di libertà individuale ma di libertà dello Stato, del quale l’individuo era parte organica, essendo le due cose indisgiungibili. Questo assetto era qualificato dalla dimensione religiosa, non portava alcun referente materialistico, anzi Gentile affermava che tutto essendo politico, il politico era valorizzato proprio dalla sua dimensione religiosa.
Lo “spiritualismo assoluto” è essenzialmente uno sforzo di individuazione del sacro. In un suo scritto ripubblicato nel ’24, Gentile ribadì che “la religiosità non può essere dello Stato, se non è del popolo…non è realizzabile forma religiosa, che non abbia radice nella coscienza popolare…”. Insomma, il sacro di Evola, in Gentile diventa la religiosità che deve permeare lo Stato, e con esso l’individuo e le sue azioni. Una studiosa di Gentile ha addirittura scritto che il Gentile fascista “è il fondatore di una nuova religione”, intendendo la mistica della nazione. Ecco: potremmo dire che da una parte Evola non concepisce “fondazioni” ex novo, poiché si rifà all’unicità intemporale del sacro, mentre Gentile ripercuote questo crisma eterno nell’attualità del suo tempo e, modernamente, lo identifica con la religione della comunità di popolo, con la nazione. In questo senso, con Gentile si può davvero parlare di mistica religiosa della nazione (ricordo che la Scuola di Mistica Fascista fu molto vicina a Gentile) e che in Dottrina del fascismo si parla del fascismo come entità religiosa…
Per quanto riguarda la crisi dell’attualismo, valgono le considerazioni di Ugo Spirito circa il vero e proprio “tradimento” che venne fatto di tutta l’architettura filosofico-politica di Gentile con la stipula dei Patti lateranensi. Comunque, i riposizionamenti gentiliani – dai rapporti tra filosofia e scienza alla liquidazione finale del liberalismo in nome del fascismo “sociale” (che Spirito definiva tout court “socialista”) – nel corso degli anni Trenta maturarono in maniera tale che ben si può dire, come fece lo stesso Spirito, che egli (Gentile) fosse passato ad una vera fase rivoluzionaria. Spirito, a sua volta, fu vittima di una sua personale evoluzione (involuzione?), che lo portò definitivamente lontano da Gentile, giungendo alla disintegrazione dell’autocoscienza dell’Io.
A suo giudizio, dottor Rimbotti, questa lettura più “pratica” e concreta della filosofia della prassi in Gentile, nel momento in cui proponeva la prospettiva finale dell’uomo-Dio, al di là della sua effettiva realizzabilità, poteva condurre a pericolose derive “prometeiche”, non scevre da implicazioni di fatto atee o agnostiche che potevano non essere sufficientemente compensate, soprattutto in un paese come l’Italia, da una spiritualità puramente immanentistica che mai è realmente appartenuta alla nostra forma mentis, soprattutto più recente?
L’Uomo-Dio prometeico non è necessariamente esposto a derive agnostiche, tantomeno atee. Si tratta di un pensiero che, risalente al Romanticismo, ha ascendenze lontane: basta pensare al Meister Eckhart rivalutato da Rosenberg. Gentile ne fece un aspetto della potenza dell’individuo sintonizzato con la storia e la nazione, avente dentro di sé la pienezza dello spirito. Questo possesso dell’Idea in interiore homine, come diceva Gentile, avrebbe dovuto rappresentare non la problematica edificazione di un idolo meccanico ma, al contrario, il potenziamento dell’Io organico. Un Io, tuttavia, non abbandonato alle sue solitudini – questo sì passibile di precipitare nel nichilismo tragico – bensì regolato, direi temperato ma al tempo stesso esaltato, dal rispecchiamento nel popolo. L’Uomo-Dio gentiliano è l’Übermensch nietzscheano per così dire “socializzato”. Non a caso, a Gentile piaceva il filosofo umanista Marsilio da Padova, il quale scrisse che la legge la fa l’uomo, e ne considerò rivoluzionaria l’affermazione secondo cui “il popolo è sempre l’assoluta fonte del diritto”. Umanesimo, quindi, ma di buona lega. Mi rendo conto che qui siamo lontani da Evola, che giudicava legge, sovranità, etc. come promananti da una direttrice di sacralità non-umana… Tuttavia, vorrei aggiungere che vi sono spunti formidabili in entrambi i punti di vista, e che ognuno scelga il suo. L’importante è la tenuta sui valori, più che l’esegesi della fonte da cui questi provengono. In fondo, stiamo parlando di due pensatori che sono altrettante colonne della cultura europea del XX secolo…
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5) Il punto d’arrivo della critica evoliana a Gentile è quello della visione dello Stato, derivazione di tutte le critiche filosofiche e concettuali di partenza.
Secondo Evola ed altri lo Stato etico gentiliano, dominato dalla divinificazione della sfera “morale” e dall’esaltazione dell’“umanesimo del lavoro”, fondato su ipocrite forzature moralistiche e falsi rapporti di forza “da caserma”, costituiva in ultima analisi una struttura burocratica, ingerente e petulante, rispecchiante peraltro una visione materialistica e progressistica della realtà.
Al contrario, lei, dottor Rimbotti, sposa una tesi del tutto opposta: lo Stato gentiliano, in quanto derivazione politico-istituzionale dell’attualismo, costituirebbe la somma ed il riassunto di tutti gli aspetti del reale, l’assoluto che ricomprende i relativi, e la sua eticità costituirebbe la garanzia che la realtà non è abbandonata alla necessità individuale, ma sottoposta all’autorità di una legge comunitaria. In tal senso, esso si presenterebbe come uno stato socialista, nel senso organico e non marxista del termine, in grado di veicolare la sacralità, la religiosità dello stare insieme come nazione, ciò che accomuna nel comune destino. Una vera e propria “mistica della comunanza”.
A suo giudizio, dottor Rimbotti, si potrebbe sostenere che comunque Evola, al di là dell’ambito filosofico in senso stretto e di alcune interpretazioni strettamente personali, avesse individuato un punto debole della costruzione gentiliana nel suo non riuscire ad andare oltre un contesto meramente etico-morale e umanistico? Fino a che punto una mera mistica del lavoro e del collettivo poteva supportare una visione dello Stato effettivamente organica in senso superiore?
Personalmente trovo che la creazione – o la ricreazione – di un’etica non sia un obiettivo limitato. Al contrario. E’ il contenuto primario di una convivenza. Onestamente non immagino dove potrebbe condurre un “andare oltre” rispetto all’etica. Potremmo pensare alla dimensione grandiosamente distruttiva di uno Stirner. O, dall’altra parte, alla rifondazione della metafisica a partire da una nuova ontologia, alla maniera di Heidegger. Affascinante, ma non va da nessuna parte. Gentile politico ci indirizza verso la ricostruzione di un fondamento di civiltà. Per lui il fascismo è il terminale di uno sforzo di rigenerazione dell’idealismo come fondamento dell’essere e dell’agire umano. Questa sorta di umanesimo non va confuso con quella branca cinquecentesca che veicolò universalismo e cosmopolitismo e che fu, in buona parte, l’antefatto del progressismo illuminista.
Evola era giustamente sospettoso quanto a questo umanesimo. Ma Gentile si riferisce piuttosto a quell’umanesimo che ricreò – con il neoplatonismo – l’antico collegamento fra l’uomo, la comunità e il sacro, cercando di porre questo retaggio (un po’ misteriosofico, un po’ faustiano) alla base di una società moderna ma non modernista; e, in ogni caso, dinamica e non statica. La società del nuovo ordine è costituita da uomini accomunati dalla legge interiore dello spirito, che ne guida e determina le azioni. In Genesi e struttura della società Gentile fa l’elogio della rivoluzione. Non solo di quella materiale ed esteriore, ma anche di quella interiore. Tutto muta, noi stesso mutiamo ogni giorno impercettibilmente ma inesorabilmente. Rivoluzione, in questo senso, significa continua tensione verso l’autocompletamento. Lo Streben dei romantici tedeschi. A questo punto, l’umanesimo del lavoro è la suprema nobilitazione della fatica che occorre – come diceva Nietzsche in un famoso aforisma – per rimanere in alto. La comunità di popolo sacralizzata dalla bellezza e dalla gioia che sono insite nel lavoro, e nel lavoro comunitario, è dunque qualcosa di nettamente superiore al mero vivere e convivere. E’ l’apice di una civiltà creatrice. Come intese essere il fascismo.
Secondo la sua interpretazione, dottor Rimbotti, lo Stato etico di Gentile avrebbe costituito di fatto un modello praticamente uguale a quello nazionalsocialista tedesco, un modello cioè di “comunismo gerarchico”, di socialismo nazionale ed organico, in cui la prospettiva della totalità comunitaria sovrasta ed assorbe quella individuale, in cui lo Stato fa da “contenitore”, da macchina organizzativa, da struttura di protezione del Volk, che assume un rilievo centrale in un’ottica di esaltazione tanto del dato etnico quanto del concetto di “lavoro integrale” e della figura quasi mitizzata dell’Arbeiter. Un modello evidentemente del tutto antitetico a quello proposto da Evola.
Ma fino a che punto la “totalità etica” gentiliana è compatibile con la “totalità organica” che fu espressione del socialismo nazionale tedesco? E’ possibile proporre questo parallelo, anche considerando la valenza panteistica, naturalistica e biologistica dell’immanentismo nazionalsocialista (tipica espressione peraltro della sensibilità romantica germanica), oppure, rispetto alla concezione di Gentile, tale accostamento potrebbe apparire come una forzatura, peraltro per certi versi paradossale, se consideriamo le forti tendenze anti-germanistiche presenti in Italia durante il fascismo ed in particolare negli ambienti gentiliani?
Giudico l’anti-germanesimo di vaste parti del pensiero italiano primo-novecentesco – epoca fascista inclusa – solo una sovrastruttura di facciata, spesso derivante direttamente da un tenace equivoco letterario di ascendenza retorica risorgimentale (ma di un Risorgimento mal compreso, che non distingueva tra Austria e Germania), insomma un pregiudizio. Poi sappiamo che Gentile, come Croce, ebbe formazione tedesca, hegeliana. Spaventa o Labriola erano pregni di cultura politica tedesca, ugualmente un D’Annunzio, che fu il primo a divulgare in Italia Nietzsche e Wagner. Il socialismo nazionale, il neo-paganesimo e il volontarismo “barbarico” ed eroicizzante di Corradini avevano in vista archetipi germanici (Wagner), Prezzolini ammirava il filosofo razzista Houston Stewart Chamberlain, il poeta superomista Dino Campana nel 1914 dedicò i suoi “Canti orfici” al Kaiser Guglielmo II. E così via. Se ci si pensa, la civiltà del lavoro formulata da Gentile ha molto dell’idealismo romantico völkisch, ma ne diverge in un importante dettaglio: si astiene da formulazioni razzialiste.
La critica gentiliana al nazionalismo italiano era simmetrica a quella di Evola. Ne criticavano entrambi il “naturalismo”, l’eccessivo etnicismo, giudicato scoria materialista. Eppure, è pur vero che lo Stato etico di Gentile riverbera in qualche modo, nella sua struttura totalitaria, antidemocratica, gerarchica ma fortemente socializzata, l’equivalente organizzazione dello Stato nazionalsocialista. I dettagli legati alla distribuzione del potere (preminenza dello Stato sul partito unico, permanere in Italia della diarchia, mancata fascistizzazione dell’esercito etc.), pur importanti, non sono a mio parere tali da impedire un paragone ravvicinato fra i due sistemi, soprattutto incentrati sull’esclusivismo nazionale e sul prevalere dell’elemento comunitaristico su quello individualista. Su tutto dominando quella “fede” di tipo propriamente religioso che rendeva l’appartenere cosa attinente alla sfera del sacro. Su questa base il paragone è sostenibile. Se invece si considerasse quella nazionalsocialista una società innestata essenzialmente sull’idea di razza le cose cambierebbero. Il discorso sarebbe ovviamente molto lungo. A noi basterà dire che il Terzo Reich, come sostengono diversi storici, ebbe nella mistica della razza il suo perno filosofico-ideologico, ma al livello delle grandi masse trasse il maggior consenso partecipativo non su questo punto, quanto su quello delle provvidenze socialistiche e sull’attivismo di popolo. Cosa che rivela, come svariate altre, una forte sintonia col sistema fascista, ivi compresa la variante gentiliana.
Sempre circa le concezioni dello Stato a confronto, è possibile a Suo giudizio, dottor Rimbotti, pur dopo aver evidenziato tutte le differenze di cui sopra, trovare un “imprevedibile” parallelo tra Evola e Gentile nella necessità, evidenziata da entrambi, di superare la dimensione che potremmo definire “unipartitocratica” dello Stato? Da una parte, infatti, come è stato osservato, Gentile voleva rendere effettiva l’identificazione fra stato fascista e nazione e, nell’ambito di questo progetto, il Partito Nazionale Fascista, per la sua stessa natura di “parte” di un ambito politico più ampio, esprimeva per Gentile una logica faziosa; pertanto, il filosofo idealista era convinto che se il fascismo avesse delegato la trasformazione radicale della società al partito non si sarebbe differenziato dai regimi politici precedenti, fondati appunto sulla vittoria di un singolo partito.
Allo stesso modo, Evola sottolineava che una visione burocratica e meramente particolare del partito unico sarebbe stata antitetica con la visione tradizionale dello Stato: il concetto di “partito unico” (tra l’altro, come osservato da Evola, una contraddizione in termini in quanto riferita ad un istituto proprio della prassi pluri-partitica demo-liberale), doveva essere superato, per privilegiare la formazione di un’aristocrazia dello spirito, di una sorta di “Ordine” che facesse da centro catalizzatore attorno a cui costruire un’entità organicamente e gerarchicamente intesa.
Eppure, nonostante questa base comune, le vie che per Evola e Gentile avrebbero dovuto condurre ad una visione unitaria della comunità statale si diversificarono irrimediabilmente. Anche in tal caso, a Suo giudizio, giocarono un ruolo fondamentale soltanto le diverse visioni concettuali dei due, oppure altri fattori non permisero di trovare di fatto almeno un punto di incontro che sarebbe potuto risultare proficuo?

Othmar Spann (1878-1950)
Per dirne una: il sistema corporativo della rappresentanza istituì una sorta di Stato organico dei ceti, e questo è un punto che accomuna tanto Gentile quanto Evola, che apprezzava simili ordinamenti, ad esempio ritrovandoli in uno Spann. Col PNF Gentile ebbe rapporti oscillanti: ad es. con Farinacci, che certo non era suo amico, collaborò più volte (pensiamo all’Istituto Nazionale di Cultura Fascista, etc.) anche se certo non era favorevole all’idea “partito”. Ma si tratta di una questione nominalistica. Il partito, nello Stato totalitario, non era più “parte” o fazione, ma finiva col coincidere con la totalità della nazione. La voluta coincidenza fra popolo italiano e fascismo estingueva questa polemica alla base. Ma ugualmente rimasero in piedi fino all’ultimo le diverse opzioni: partito di massa oppure aristocrazia scelta? Noi sappiamo che il fascismo ondeggiò a lungo fra le due possibilità, ma alla fine il Manifesto di Verona richiamò la natura del PFR proprio nel suo essere un “ordine di credenti e di combattenti”: e Gentile sappiamo che aderì alla RSI. A mio parere i sofismi storiografici non dovrebbero far velo – soprattutto nel tempo presente, in cui tutto sta crollando – all’apprezzamento generale per un sistema che, anche se variegato e a volte contraddittorio, espresse una via ben chiara di uscita dal modernismo progressista senza rinunciare alla modernità.
Dando poi uno sguardo generale sulle due figure in esame, mi sento di poter dire che entrambe fanno parte a giusto titolo di un unico sforzo di organizzazione ideologica rivoluzionaria nei confronti dell’oscurantismo globalizzatore a guida massonica, attivo allora non meno di oggi. Sotto la specie dell’edificazione dell’Io, in vista della realizzazione di un uomo fortificato e potenziato nel pensiero oltreppassante e nella coltivazione di un volontarismo libero e sovrano, Evola rappresenta un vertice ineludibile, qualunque sia il punto di vista politico dell’antagonismo nazionalrivoluzionario. La perennità della Tradizione solare da lui richiamata, con tutto il grande bagaglio dei riferimenti culturali evocati, sta a dimostrare lo spessore di un simile posizionamento. Dall’altra parte, e sotto la specie invece dell’erezione – o della ricostruzione – di una comunità organica di popolo solidale, gerarchica, guerriera, omogenea, Gentile, con tutti i suoi limiti e con quanto del suo essere scolastico possa non piacere, rappresenta a sua volta un bacino d’idee di prima grandezza. Occorrerà, nell’un caso come nell’altro, trascurare questo o quel dettaglio (ad es. l’incomprensione evoliana per lo squadrismo, o certi residui conservatori di Gentile) e inquadrare il comune intendimento di garantire a un pensiero della contrapposizione le armi ideologiche per agire in profondità nella formazione del singolo come della comunità.
'Evola e Gentile: Intervista a L. L. Rimbotti (seconda parte)' has no comments
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