Evola e Spengler: quando (ri)tradurre significa tradire

A cura della Redazione di RigenerAzione Evola

1. Tramandare, Tradurre, tradire

Si suol dire che tradurre è un po’ tradire. In effetti espressioni come tradurre, tradire, tradizione, poggiano su basi etimologiche comuni e rischiosamente affini: tradurre, dal latino traducĕre, trasportare, trasferire (formato da trans, “oltre” e ducĕre, “condurre”, “portare”), se traslato dall’ambito del trasporto materiale di cose e/o persone alla traduzione da una lingua all’altra, rende l’idea del trasferire oltre applicato ad idee, concetti. D’altra parte, tradire e tradizione derivano entrambi dal verbo tradĕre, che può indicare tanto la consegna con tradimento, al nemico (celebre è l’uso che, del verbo, fu fatto nella resa in latino del passo evangelico di Luca che parla della consegna di Gesù da parte di Giuda; allo stesso modo, il sostantivo traditor applicato a Giuda nel Vangelo di Marco rende la stessa idea), quanto la trasmissione, la consegna ideale dei valori degli antenati di generazione in generazione.

Ebbene, questa idea della traduzione che può diventare, nelle mani sbagliate, strumento di traviamento delle idee e del pensiero di uno scrittore, dei contenuti e dei significati un’opera, che anziché tramandata viene tradita, sembra essere una delle armi preferite da certe “intelligenze” che, anche in questo modo, cercano di travisare, alterare, portare dalla loro parte ciò che a loro non può appartenere.

In particolare da sempre la sinistra, che, notoriamente afflitta da irriducibili complessi di superiorità, si ritiene depositaria della “cultura”, sale sistematicamente sul proprio pulpito laico e guarda, con occhio schifato e classista (loro, sì, davvero) la sottospecie di “quelli delle destre”, privi di cultura, che non hanno mai letto un libro in vita loro, che non sono capaci di elaborare un pensiero compiuto, che sono solo volgari e rozzi, energumeni cavernicoli facili a menar le mani, e così via. E, pertanto, quando dalle “rive destre” provengono inattesi lampi di una “cultura” che li sorprende e li smentisce, che non riescono a capire o che, talvolta, capiscono fin troppo bene, i depositari delle “sinistre virtù” intervengono prontamente per occultare, falsificare, alterare, dissimulare, senza troppi scrupoli.

Intellettuali, professori, scrittori a tinte rosse (e, oggi, pure un po’ arcobaleno) si armano allora di tutta la loro astuzia e cercano così di portare tra le loro fila autori, scrittori, pensatori, filosofi di cui avvertono le grandezza ed il mistero: dagli anni Settanta in poi, da quando tale opera revisionistico-mistificatoria è partita, con i mezzi più disparati, personalità come Nietzsche, Drieu La Rochelle, Céline, D’Annunzio, Jünger, Heidegger, Spengler, di tanto in tanto, lo stesso Evola, e tanti altri, sono stati oggetto di tentativi, talvolta goffi, di reinterpretazioni, riduzionismi, “depurazioni”, riletture e quant’altro.

Uno degli strumenti che, in tal senso, è recentemente tornato in auge, è la ritraduzione di alcuni classici della Destra, o se preferite, della Tradizione. Originali in lingua straniera vengono ripresi, e ritradotti da chi di dovere, al fine di rendere in modo diverso un pensiero, un messaggio, un’atmosfera, una tendenza, una visione, che un dato autore ha voluto trasmettere con un saggio, uno studio, un romanzo, un racconto, dei versi.

J.R.R. Tolkien: la nuova traduzione del suo “Signore degli Anelli” è diventato un caso  editoriale tra 2019 e 2020

Ebbene, proprio in questi ultimi due anni, un grande classico come Il Signore degli Anelli di John Ronald Reuel Tolkien è stato oggetto di questo lavoro di “rielaborazione”. In futuro non escludiamo di approfondire questa vicenda, che ora inevitabilmente, possiamo solo accennare en passant: l’editore Bompiani, tra il 2019 e il 2020, ha ripubblicato i tre volumi del capolavoro di Tolkien, con una nuova traduzione, elaborata da Ottavio Fatica, traduttore ed insegnante perugino di lunga esperienza. Con quest’operazione editoriale è stata aperta un’assurda polemica con la principessa Vittoria Alliata di Villafranca, che, com’è noto, appena diciassettenne, realizzò la prima (e di fatto, l’unica, fino appunto all’intervento di Fatica) storica traduzione in italiano dell’opera tolkeniana, pubblicata integralmente da Rusconi nel 1970 dopo la supervisione di Quirino Principe. Lo scontro tra Bompiani, Ottavio Fatica e la Alliata (accusata di “giovanile avventura improvvisata”, che avrebbe portato addirittura a “500 errori a pagina su 1500 pagine”), ha portato quest’ultima alla dolorosa decisione di ritirare dal commercio la sua storica versione dell’opera.

Non è questa la sede per entrare nel merito della triste vicenda, su cui c’è stato e continua a perdurare uno scontro frontale, senza esclusione di colpi, tra i sostenitori dell’operazione di “aggiornamento” e “svecchiamento” della traduzione della Alliata, e coloro che la criticano senza appello. Un’osservazione fondamentale, però, è fuori discussione: l’operazione è stata compiuta con il fine inequivocabile di “sradicare Tolkien dall’epica classica“, come osservato con estrema precisione dal filosofo, scrittore e studioso di letteratura anglo-irlandese Cesare Catà, che così prosegue: “Quello che Alliata aveva consegnato decenni fa al lettore italiano era, ed è, un testo epico: strutturato cioè in una forma che richiama, da un lato, le saghe cavalleresche e l’arte retorica petrarchesca; e, dall’altro, il dettato delle saghe norrene e celtiche. Quello di Ottavio Fatica, invece, è un Tolkien quotidiano, scorrevole alla lettura, asciutto, realistico; il suo è un lavoro che (coscientemente, credo) toglie Tolkien dal genere epico per porlo nel genere contemporaneo della Young Adult Fiction” (1). Catà evidenzia, ancora, con grande lungimiranza, due dettagli che confermano tale intenzione: a) il cambio radicale della copertina del testo, con una sorta di asettico paesaggio lunare al posto delle illustrazioni epico-mitologiche che l’hanno sempre caratterizzato, funzionale a spostare l’opera dal piano di una “saga eroica modellata sugli antichi” per trasformarla in un “classico contemporaneo con accenti fantastici; b) “l’espunzione della storica introduzione di Elémire Zolla che, fino ad oggi, aveva accompagnato il testo tolkienano“, inquadrandolo nel genere dell’epopea cavalleresca, con connotati simbolici e sapienziali.

A questo punto, è piuttosto evidente che l’operazione editoriale è stata funzionale a togliere ogni connotato che possa collocare a “Destra”, o comunque in ambito Tradizionale, il romanzo di Tolkien, per “neutralizzarlo” nel genere Fantasy-Young Adult Fiction contemporaneo, quasi fosse stato scritto ieri. Una questione estremamente interessante su cui, come detto, se avremo modo, torneremo in futuro.

2. Una “nuova” traduzione per il “Tramonto dell’Occidente”: Spengler approda a sinistra?

Ora, però, soffermiamoci su un’altra opera di ritraduzione, che riguarda da vicino Julius Evola, e che ci consentirà di dedicare spazio nelle prossime settimane ad Oswald Spengler.

Ebbene lo scorso anno, ha fatto gran clamore la fine della ripubblicazione integrale del celebre Tramonto dell’Occidente di Spengler, ad opera di Giuseppe Raciti, docente di filosofia teoretica all’università di Catania, studioso da diversi anni dello scrittore tedesco.

La storica prima edizione de “Il Tramonto dell’Occidente” tradotta da Evola

Come senz’altro gran parte dei lettori sapranno, la prima traduzione italiana di Der Untergang des Abendlandes di Spengler fu opera proprio di Julius Evola, che realizzò quest’opera meritoria nel 1957 per la casa editrice Longanesi, corredando la traduzione con una propria prefazione. È sorprendente che un’opera del genere, scritta tra il 1918 ed il 1922, non fosse stata tradotta prima in Italia, dal momento che negli Anni Trenta Spengler era stato particolarmente apprezzato, soprattutto da Mussolini in Italia, per Jahre der Entscheidung (Gli Anni della Decisione) nel 1933, che fu infatti recensito dal Duce stesso sul “Popolo d’Italia” con una breve ma incisiva nota. Spengler, che, com’è noto, in quegli anni non nascose la propria ammirazione verso Mussolini, poteva in effetti risultare un autore molto significativo per il fascismo italiano, per via  delle sue tesi sul cesarismo, per le critiche al regresso demografico, per l’esaltazione di un certo vitalismo immanentistico.

Come è stato osservato da Enrico Nistri sul blog barbadillo.it (2), l’ostilità del neoidealismo italiano (Benedetto Croce in primis) verso Spengler non era sufficiente a giustificare tale ritardo, molto più ascrivibile – oltre che alla mole ed alla sicura complessità sia lessicale che concettuale dell’opera – al proverbiale “pessimismo” dell’autore, affibbiatogli come un’etichetta talvolta eccessivamente ingombrante e semplicistica, nonchè alla sua idiosincrasia verso il nascente nazionalsocialismo tedesco di quegli anni. Nel dopoguerra, invece, osserva Nistri, “la versione italiana del Tramonto dell’Occidente assumeva un ben diverso significato, in un clima nel quale molte profezie spengleriane cominciavano ad avverarsi con l’avvento della decolonizzazione e, nell’ambiente neofascista, il pessimismo storico seguito al crollo del regime e alla disfatta militare induceva a riconoscersi nel Kulturpessimismus del pensatore prussiano, e dello stesso Evola” (2). Dopo la traduzione di Evola, l’opera dello scrittore tedesco e la sua traduzione italiana sarebbe stata oggetto di varie vicissitudini. Ma andiamo con ordine, partendo dalla fine.

Come detto, la ritraduzione integrale completata lo scorso anno è stata curata dal professor Giuseppe Raciti. Dopo aver già ritradotto nel 2016, per l’editore Aragno, il testo della conferenza sulla Tecnica tenuta a Monaco di Baviera da Spengler nel 1931, Der Mensch und die Technik. Beitrag zu einer Philosophie des Lebens, cioè L’uomo e la tecnica. Contributo a una filosofia della vita, che era stata tradotta in italiano nel 1992 da G. Gurisatti per Guanda (con introduzione di Stefano Zecchi), Raciti ha iniziato l’opera di ritraduzione integrale del Tramonto dell’Occidente, sempre per l’editore Aragno, in due volumi, il primo uscito nel 2017, l’altro, appunto, nel 2020.

L’operazione di Raciti non è stata assolutamente neutrale, ma si è trattato di un tentativo ideologicamente ben preciso di “forzare” il testo, ricavandone un certo orientamento: precisamente, si sarebbe trattato di mettere in evidenza il “socialismo” di  Spengler, cercando in qualche modo di “annoverarlo” tra le file della sinistra. Questo intento è stato espressamente dichiarato dall’autore, in un’intervista rilasciata a Bruno Ventavoli di Tuttolibri, il magazine de La Stampa dedicato ai libri, nel numero 2053 del 17 giugno del 2017.

Raciti, che, ripetiamolo, è uno studioso di Spengler da molti anni, non ha rivolto alcuna accusa improvvida ad Evola, di cui anzi ha riconosciuto i meriti: “La traduzione di Evola è pionieristica, ha tracciato solchi importanti , e chi è venuto dopo non può che averne tratto profitto” (anche se altrove l’ha poi definita “avventurosa”). Ha poi, però, aggiunto, che: “il traduttore può essere fedele solo alla propria interpretazione”, aprendo la strada all’idea pericolosa che chi traduce interpreta secondo i propri schemi, anche ideologici, per poi ammettere: “Con la mia traduzione ho sterzato ideologicamente la fruizione del testo. Volevo aprire un’altra prospettiva che non fosse destrorsa”. Ecco, l’ammissione è stata esplicita: perché lasciare Spengler alla “destra”? In un’altra intervista, Raciti ha anche accostato espressamente Spengler a Marx nella concezione “regressiva” delle rivoluzioni (3).

La I° Garde-Division (I° Divisione della Guardia), facente parte del Gardekorps, una delle più importanti unità in forza all’Esercito prussiano e dal 1871 all’Esercito imperiale tedesco (Dipinto di Carl Röchling, 1894)

In realtà, sappiamo bene che l’espressione “socialismo prussiano” indicava, con lessico moderno, il comunitarismo gerarchico e aristocratico tipico del mondo mitteleuropeo, e germanico nello specifico. Si trattava, in sostanza, della manifestazione della Konservative Revolution nel contesto sociale; per dirla con Adriano Romualdi, di quella “volontà di far spazio alle masse mobilitate dall’età industriale, ma educandole nel culto dei valori militari, antindividualistici, solidaristici, che sono un retaggio dell’età preborghese”(3). Una testimonianza effettiva che il trapasso dalle forme proprie della civiltà aristocratico-feudale a quelle borghesi e liberali in Germania era avvenuto con modalità molto diverse da quelle del resto dell’Europa, senza che si fosse affermata una borghesizzazione della comunità di popolo, le cui radici, invece, rimasero saldamente innestate in una visione soldatesca, militaresca, ordinata, gerarchizzata e partecipativa, in senso superiore e profondamente spirituale. Nulla a che vedere, insomma, con il socialismo marxista, e d’altronde Spengler stesso l’aveva ben messo in evidenza nella sua opera Preußentum und Sozialismus (Prussianesimo e socialismo) del 1919, e ribadito negli Jahre der Entscheidung (Gli Anni della Decisione) nel 1933. Eppure Raciti, che già ebbe modo di scrivere un saggio sul “Tramonto” di Spengler nel 1996, più volte rivisitato anche in vista della ritraduzione dell’opera, sembra non voler dare rilievo a questa scomoda verità. Il suo tentativo di togliere Spengler al patrimonio culturale delle “destre”, d’altronde, ha ottenuto entusiastici commenti a sinistra. Carlo Galli, ad esempio, ha parlato, in un commento del suo blog pubblicato anche sul Corriere della Sera, niente poco di meno che di un Nuovo Spengler (liberato da Evola).

La stessa decifrazione del diverso taglio interpretativo dato da Spengler alla Tecnica, che da elemento fondante della decadenza che porta alla civilizzazione ed all’irrigidimento dell’organismo in organizzazione, viene vista ne L’uomo e la tecnica quale “tattica dell’intera vita”, come comportamento, condotta, emblema ed espressione della vita quale lotta, e che potrebbe portare ad interessati accostamenti con le tesi di Ernst Jünger ed il suo Arbeiter, viene condotta da Raciti ad uno sbocco assai differente, vale a dire alla teorizzazione di una “eternità” della civilizzazione quale “civiltà artificiale”, “riproduzione tecnica” di una civiltà, “affrancata dai limiti temporali e storici dell’organismo” (4).

3. Le vicissitudini di un testo scomodo

Quella della traduzione italiana del Tramonto di Spengler, come accennavamo, è una vicenda tormentata. Dopo la prima traduzione di Evola per Longanesi nel 1957, ci fu una nuova edizione dell’opera, senza particolari variazioni, nel 1970. Nel 1973, poi, con Ombre sull’Occidente per l’editore Volpe, Adriano Romualdi presentò un’antologia degli scritti di Spengler, non lesinando critiche allo scrittore tedesco, come d’altronde non mancò di fare Evola, come vedremo, seppure da prospettive assai diverse, dato che sul tema del prussianesimo e del rapporto col nazionalsocialismo ed il suo vitalismo biologico le posizioni tra il “maestro” e “l’allievo”, se ci permettete l’uso di questi termini, presentavano dei punti di attrito.

René Magritte, “La memoria”, 1948

Nel 1978 arrivò poi il primo, contestatissimo intervento “revisionistico” di matrice ideologica sul lavoro di Evola. Nel clima dell’epoca, in cui la sinistra aveva avviato quel tentativo di forzato arruolamento di autori di “destra” tra le proprie fila, di cui parlavamo, parallelamente ad una sistematica opera di criminalizzazione, censura o alterazione del pensiero di Evola, arrivò la “nuova” traduzione del Tramonto ad opera di Furio Jesi, germanista e filologo autodidatta della sinistra militante, che per primo esplicitamente tentò di “de-evolizzare” l’opera di Spengler. L’operazione fu compiuta in due mosse: innanzitutto, la prefazione di Evola fu rimossa e sostituita con un saggio dello stesso Jesi e due scritti delle allora giovani ricercatrici Rita Calabrese Conte e Margherita Cottone. Poi, ci fu un intervento diretto sulla traduzione del barone, che non fu rifatta in toto, ma sapientemente modificata con interventi ideologicamente “mirati”, volti a “restaurarla”, alterandone in qualche modo l’orientamento di fondo. Un intervento, comunque, giudicato dallo stesso Giuseppe Raciti “fin troppo conservativo” (5).

Dopo la prematura scomparsa di Jesi, fu pubblicata nel 1991 una nuova edizione del Tramonto, stavolta dall’editore Guanda, che rese giustizia ad Evola, cancellando l’operazione ideologizzata tentata oltre dieci anni prima. Fu riproposta la traduzione originaria del barone, rimuovendo i “ritocchi” di Jesi e la sua introduzione. Furono confermati i saggi della Calabrese Conte e della Cottone, e fu affidato a Stefano Zecchi il compito di introdurre l’opera, con un saggio molto apprezzato che gettò nuova luce sull’interpretazione del pensiero di Spengler, che fu agganciato alla visione di Goethe. La versione del Tramonto di Furio Jesi sarebbe comunque continuata a circolare.

Dopo quasi trent’anni, ecco riapparire, in un clima “culturalmente” simile a quello degli Anni Settanta, caratterizzato dall’intenzione dell’intellettualismo di sinistra di intervenire sul patrimonio letterario della Tradizione per appropriarsene (cosa dire della “Divina Commedia”, da anni interpretata e divulgata al pubblico da Roberto Benigni?), il tentativo di riportare Spengler alla “riva sinistra” del fiume, con l’operazione del professor Raciti.

Nelle prossime puntate leggeremo ciò che Evola ha scritto in prima persona di Spengler, e non solo. Per chiudere quest’introduzione, intanto, citiamo di nuovo l’ottimo Enrico Nistri: “La discussione, naturalmente resta aperta: l’importante è che, dopo avere de-evolizzato Spengler, non si finisca per de-spenglerizzarlo”.

Note

(1) https://www.huffingtonpost.it/entry/perche-non-amo-la-nuova-traduzione-de-il-signore-degli-anelli_it_5dcd0da9e4b03a7e0295233d

(2)  https://www.barbadillo.it/88499-cultura-il-tramonto-delloccidente-dalla-traduzione-di-evola-a-quella-di-raciti-fino-alla-riscoperta-del-socialismo-prussiano/

(3) http://www.pangea.news/loccidente-tramonta-da-100-anni-spengler-e-piu-decisivo-di-marx-e-piaceva-tanto-a-sgalambro-dialogo-con-giuseppe-raciti/

(4) Cfr. Adriano Romualdi, Correnti politiche ed ideologiche della destra tedesca del 1918 al 1932, Settimo Sigillo.

(5) Enrico Nistri commenta: “Chi scrive pubblicò una garbata stroncatura di questa operazione nel numero di febbraio-aprile 1979 di ‘Elementi’ dal titolo ‘Il caso Spengler. Il linguaggio delle parole senza idee’. Se Spengler fu, secondo l’ingenerosa definizione di Thomas Mann, che pure ne subì in un primo momento l’influenza, ‘la scimmia astuta di Nietzsche’, Jesi si comportò in questa circostanza come il pappagallo saputo di György Lukács, grande inquisitore del pensiero irrazionalista; e tutto questo sia detto col massimo rispetto per la sua statura intellettuale e per la sua fine precoce, curiosamente simile nella sua casualità assurda a quella di Adriano Romualdi. Interessante, in quella operazione editoriale, resta il tentativo di sottrarre all’area culturale della destra un autore che esercitò una straordinaria influenza sulla cultura mondiale. Basti pensare che un Toynbee e un Adorno, un André Gide e lo stesso Thomas Mann subirono profondamente l’influenza del suo capolavoro, sia pure, nel caso di quest’ultimo, derubricandolo a un semplice ‘romanzo intellettuale’ ”.



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"In una civiltà tradizionale è quasi inconcepibile che un uomo pretenda di rivendicare la proprietà di una idea e, in ogni caso, in essa chi così facesse, con ciò stesso si priverebbe di ogni credito e di ogni autorità, poiché condannerebbe l’idea a non esser più che una specie di fantasia senza alcuna reale portata. Se una idea è vera, essa appartiene in egual modo a tutti coloro che sono capaci di comprenderla; se è falsa, non c’è da gloriarsi di averla inventata. Una idea vera non può essere «nuova», poiché la verità non è un prodotto dello spirito umano, essa esiste indipendentemente da noi, e noi abbiamo solo da conoscerla. Fuor da tale conoscenza, non può esservi che l’errore" (R. Guénon)

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