Il testo che segue, composto in parte da alcuni estratti della nota di Renato Del Ponte quale curatore all’antologia “Meditazioni delle vette”, ed in parte da commenti e citazioni inedite, è tratto dal docufilm “Dalla trincea a dada” di Maurizio Murelli, prodotto dalla Società Editrice Barbarossa – Orion Film nel 2006. In particolare, nel film questo passo è narrato dalla voce di Alessandra Colla.
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È difficile dire se fu prima o durante l’esperienza bellica che Evola ebbe il suo primo incontro con l’alta montagna. Di certo sappiamo delle sue frequentazioni dolomitiche, delle sue scalate sui monti austriaci, e soprattutto dell’attrazione per il prediletto Monte Rosa negli anni ’20 e ’30.
Se si leggono in controluce alcune righe de “Il cammino del cinabro” par di capire che a ridosso della crisi del 1921 Evola fosse a conoscenza di un poco noto saggio di Georg Simmel intitolato “Le Alpi”. Nelle prime pagine del testo evoliano si accenna infatti a una frase di Simmel sulla massima intensità del vivere che, grazie ad un mutamento di polarità, porta ad un più che vivere, e questa stessa frase è collegata subito dopo ad un pensiero del Buddha sull’estinzione che condusse Evola oltre la tentazione suicida (1).

Georg Simmel (1858 – 1918), filosofo tedesco considerato uno dei padri fondatori della sociologia con Emile Durkheim e Max Weber
Nel saggio di Simmel, tra l’altro, si può leggere: “Il trascendente non ha forma; forma significa limite, e perciò l’assoluto, essendo senza limiti, non può essere formato. Esiste dunque un non formato in mezzo a tutte le forme, e un altro non formato sopra tutte le forme; l’alta montagna, con la cupa violenza della sua massa puramente materiale e il suo anelare ultraterreno, con le sue regioni nevose trasfigurate al di là delle tensioni della vita unisce tutte e due in un unico accordo. Quella sua forma priva di un vero e proprio significato permette di riunire il sentimento e il simbolo delle due grandi potenze dell’esistenza: ciò che è meno di ogni forma e ciò che è più di ogni forma”.
È un concetto, questo di Simmel, che si può tranquillamente scambiare dottrina orientale. E sostituendo “trascendente” con “astrazione” altro non si avrebbe che una pura formulazione dada. E i due dominii della sapienza orientale e dell’arte astratta sono entrambi ben radicati nella cultura di Evola.
Julius Evola pratica dunque l’alpinismo. Per lui l’esperienza della montagna rappresenta, al di là della stessa prova fisica, la possibilità di una realizzazione interiore che assai di rado può offrirsi oggi all’uomo moderno dell’occidente, intendendo con questo termine quell’occidente oppressivo e violento che nega, prevaricandola, la realtà della natura e che va allestendo con cura meticolosa il proprio suicidio alla ricerca di fonti alternative, ma alternative, forse, al più profondo sé stesso.
Per Evola la montagna si presenta come il Guardiano della Soglia Iniziatica che ogni uomo degno di questo nome dovrà, almeno una volta nella propria esistenza, affrontare; altrimenti, sarebbe valsa la pena di non essere mai nati, poiché il significato dell’esistenza consiste unicamente nel realizzare sé stessi. E si realizza sé stessi provando sé stessi.
La montagna è anche potenza di visione sulla solitudine, sul silenzio, sul vuoto; capacità di risveglio del divino che è nell’umano. Forza di trascendenza che ci permette di ascendere vittoriosi alla vetta del Sé. La montagna ci si svela per simboli ed enigmi. La montagna delle alte vette lucenti e cristalline, con le sue forme nitide e decise, scavate nel ghiaccio, ci determina i contorni di quel mondo iperuranio al quale solo desideriamo ritornare.
Osserva Evola: “Chi abbia conquistato la montagna, cioè chi abbia saputo adeguarsi ai suoi significati fondamentali, ha già una chiave per comprendere lo spirito ario originario, e poi quello stesso della ario-romanità in tutto quello che essa ha di severo, di puro, di monumentale; una chiave che vanamente si cercherebbe per le vie della semplice cultura e della erudizione”.
La montagna è infine palestra fisica di ammaestramento interiore. Con le sue ovvie vittime ed i suoi meno ovvii vincitori. Il suo massimo pregio consiste nel non poterla avvicinare impreparati, necessitando di un lungo tirocinio. Come un maestro di buona scuola, la montagna infatti non ama i compromessi e non perdona ai vili ed agli inetti, ed in tal modo l’ascesa diventa ascesi. Accostarsi alla montagna, salirla, fu per Evola la perfetta traduzione in un ambiente naturale estremo di quel continuo esercizio all’autotrascendimento eroico attivo di cui ci parla in tutta la sua opera. Ovviamente, questo non escluse altri aspetti d’ordine inferiore, e tuttavia li subordinò.
Si può dire che Evola, nei suoi scritti sulla montagna tradusse in chiave teorica e dottrinale quel che René Daumal nel suo “Monte Analogo” seppe esprimere in chiave letteraria ed allegorica. “Non si può restare sempre sulle vette, bisogna ridiscendere … a che pro allora? L’alto conosce il basso, il basso non conosce l’alto”: in queste semplici parole di René Daumal si racchiude il senso dell’esperienza e della spiritualità della montagna.
Evola non poteva dunque essere più allegorico di quanto non lo sia stato, scegliendo per i propri resti mortali i ghiacciai eterni del Monte Rosa.
Note
(1) Nel capitolo de “Il Cammino del cinabro” intitolato “Il fondo personale e le prime esperienze”, dopo essersi soffermato sul superamento della tentazione suicida grazie alla lettura del celebre passo di un testo del buddhismo delle origini, Evola così scrive: “Fu, per me, una luce improvvisa. Sentii che quell’impulso ad uscire, a dissolvermi, era un vincolo, una ‘ignoranza’, opposta alla vera libertà. In quel momento deve essersi prodotto in me un mutamento, e il sorgere di una fermezza capace di resistere ad ogni crisi. Per me come individuo il problema tuttavia sussistette, come quello di controllare una forza ridestata non suscettibile ad esaurirsi nelle comuni attività. Una delle estrinsecazioni di essa fu l’impulso a portare sino in fondo, verso il limite, ogni esperienza, per quindi andar oltre. Una formula del Simmel indica l’unica soluzione, presso una situazione del genere: quella massima intensità del vivere che, grazie ad un mutamento di polarità, porta verso un più-che-vivere. Ma non è una formula facile da realizzare praticamente. (…) Esclusa ogni soluzione violenta grazie all’esperienza dianzi riferita, l’orientamento, da allora, fu essenzialmente questo: cercar di giustificare la mia esistenza con compiti e attività che non avessero un carattere puramente individuale o, almeno, che a me non sembrassero tali; poi, dovunque fosse possibile, interrogare ciò che viene chiamato comunemente destino, saggiandolo, in ordine a quanto si riferiva alla mia esistenza presa nel suo complesso” (N.d.R.).
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