Evola racconta la sua fase artistica: pittura e poesia

Torniamo, sempre con piacere, a parlare anche dell’Evola artista. Stavolta, lasciando la parola direttamente al barone. Più volte nella nostra sezione “Arte” ci siamo soffermati sul significato che un certo tipo di arte aveva avuto per Evola negli anni giovanili e successivamente. Abbiamo anche riproposto a suo tempo, in tre parti, con l’intitolazione “appunti sull’arte moderna”, il saggio giovanile “Sul significato dell’arte modernissima” del 1925, che costituiva la trasposizione di una Conferenza tenuta da Evola all’Università di Roma il 16 maggio 1921, e che fu pubblicato in appendice ai “Saggi sull’idealismo magico”. Oggi lasciamo spazio ad una analisi dell’Evola più maturo, che a posteriori, nel secondo capitolo de “Il Cammino del Cinabro”, ripercorre quell’esperienza, descrivendone ragioni e significati. Sul tema, avremo modo di lasciare la parola anche ad Adriano Romualdi. In particolare, invitiamo i lettori a prestare attenzione alla parte finale di questo estratto, dove Evola parla brevemente della sua esperienza poetica, sicuramente molto meno conosciuta di quella pittorica, ma non per questo meno interessante: proprio a questa parte dell’esperienza giovanile di Evola dedicheremo infatti degli spazi da qui in avanti, con alcune sorprese. Infatti, avremo modo di proporre sia delle poesie “ufficiali”, che estratti da alcuni scritti successivi, risalenti per lo più agli anni Trenta e tutti incentrati su una medesima, ricorrente tematica, che ha rappresentato un aspetto fondamentale per la vita di Evola; scritti formalmente in prosa, ma in cui dimostreremo essere presente ancora una profonda, intensa vena poetica, nel senso migliore del termine. In tal senso, sembra quasi premonitore il riferimento alla cartolina che Tristan Tzara spedì ad Evola dal Tirolo austriaco il 3 settembre 1921, con un simbolismo significativo che il barone spiega, e di cui a suo tempo aveva fornito un’interpretazione proprio allo stesso Tzara, in una lettera alla quale aveva allegato una copia del celebre poemetto scritto in francese “La parole obscure du paysage intérieur“.

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di Julius Evola

tratta da “Il cammino del Cinabro” (capitolo II)

L’arte astratta e il dadaismo

(…) sarà opportuno un breve accenno alle mie esperienze nel campo artistico, sulla linea dell’astrattismo e del dadaismo, benché, come tracce di dominio pubblico, ben poco ne sia rimasto.

Tristan Tzara

Ho già detto perché non simpatizzavo troppo coi futuristi. Nel primo dopoguerra fui invece attratto dal movimento dadaista, creato a Zurigo dal romeno Tristan Tzara: ciò, soprattutto per via del suo radicalismo. Il dadaismo non voleva essere semplicemente una nuova tendenza dell’arte d’avanguardia. Difendeva piuttosto una visione generale della vita in cui l’impulso verso una liberazione assoluta con lo sconvolgimento di tutte le categorie logiche, etiche ed estetiche si manifestava in forme paradossali e sconcertanti. Per aver conosciuto “il brivido del risveglio”, i dadaisti proclamavano una “necessità severa senza disciplina né morale”, l’“identità dell’ordine e del disordine, dell’Io e del non-Io, dell’affermazione e della negazione, come radianza di un’arte assoluta”, la “semplicità attiva, l’incapacità di discernere fra i gradi della chiarezza”. “Ciò che vi è di divino in noi – affermava Tristan Tzara – è il risveglio dell’azione antiumana”. “Che ognuno gridi: vi è un gran lavoro distruttivo, negativo, da compiere. Spazzar via, ripulire. La purezza dell’individuo si afferma dopo uno stato di follia, di follia aggressiva e completa, di un mondo lasciato fra le mani di banditi che si lacerano e distruggono i secoli. Senza scopo né disegno, senza organizzazione, la follìa indomabile, la decomposizione”. E ancora: “Dada è un microbo vergine”. “Cerchiamo la forza dritta, pura, sobria, unica, non cerchiamo nulla”.

Il tratto più caratteristico nel dadaismo era anche la sdrammatizzazione di codeste negazioni, cui si voleva togliere ogni pathos traducendole nelle forme del paradosso freddo e della pura contraddizione. “Dada non è serio – diceva ancora lo stesso Tzara. – Non si commuove per le disfatte dell’intelligenza. Con tutte le forze, lavora per l’introduzione, dappertutto, dell’idiozia”. “Il vero dadaismo è contro il dadaismo, si trasforma, afferma, dice nello stesso istante il contrario, senza darvi importanza”. (Si possono trovare tali espressioni nei 7 Manifestes Dada di T. Tzara, raccolti in un volume uscito poi a Parigi nel 1924). Esteriormente, queste posizioni non erano prive di una certa analogia col metodo dell’assurdo usato da alcune scuole esoteriche estremo-orientali – il Ch’an e lo Zen – per far saltare tutte le sovrastrutture del mentale: anche se, naturalmente, in queste lo sfondo è del tutto diverso. Si sarebbe potuto anche riandare alle parole di Rimbaud sul metodo della veggenza ottenuto con uno “sregolamento ragionato di tutti i sensi”.

Di rigore, il dadaismo non poteva condurre a nessun’arte in senso proprio. Segnava piuttosto l’autodissolversi dell’arte, in un superiore stato di libertà. Questo a me parve essere il suo significato essenziale; per cui, interpretando il dadaismo come il limite di una specie di dialettica immanente delle varie forme di arte modernissima (nell’appendice ai miei Saggi sull’idealismo magico, riprodotta nella ristampa recente del poema a quattro voci La parole obscure du paysage intérieur), credetti di poterlo elevare al rango di una vera e propria “categoria” in una delle mie successive opere filosofiche (Fenomenologia dell’Individuo Assoluto). La conclusione più coerente sarebbe stata il rigetto di ogni espressione artistica, il passaggio ad una vita vissuta allo sbaraglio, come fece Rimbaud quando mise da parte la sua stessa poesia percorsa da illuminazioni dopo aver scoperto che “Io, è un altro” (1); oppure un giuoco continuo, con una profonda serietà nella leggerezza e una leggerezza nella più profonda serietà. Ma come soluzione intermedia prese piuttosto vita, in tale clima anarchico, l’arte astratta. A quel tempo, la sua formula era un uso dei puri mezzi espressivi staccati da ogni necessità e da ogni contenutismo, per evocare o attestare uno stato di libertà assoluta.

In Italia, fui tra i primissimi a rappresentare la corrente dell’arte astratta, in connessione col dadaismo (conobbi personalmente Tristan Tzara e altri esponenti del movimento). Ne abbozzai la teoria in una piccola pubblicazione del 1920, Arte Astratta, pubblicata per le “edizioni Dada” da Maglioni e Strini a Roma, contenente anche alcuni miei poemi e riproduzioni di miei quadri. In essa però l’istanza estetica passava, in fondo, in secondo piano rispetto all’estrinsecazione del conato verso l’incondizionato, mescolato con ripercussioni della crisi dianzi accennata, la cui fase più acuta era corrisposta al periodo delle mie ultime esperienze artistiche. In quella brochure, in nome di una “superiore libertà” denunciavo la “aspiritualità” di tutto ciò che viene abitualmente considerato come spirituale, dei valori della “umanità” e della spontaneità creatrice non meno che delle formule romantiche e tragiche dell’arte.

Il clima postulato per l’arte astratta veniva contrapposto all’oscuro, incessante bisogno che trasporta l’uomo, in un eterno circolo. Vi si parlava del senso assoluto dell’Io, con l’imagine di una corrente non ancora canalizzata e arginata, dell’energia originaria prima del condizionamento ad opera dell’uno o dell’altro circuito umano, in sentimenti, creazioni, istinti, entusiasmi, utilità. Dell’insieme, un tratto caratteristico era però il risalto da me dato ad una estraneità spirituale impassibile e dominatrice più che estatica, che per sua espressione precipua avrebbe dovuto avere l’agitazione arbitraria delle forme. A tale stregua, il palese intellettualismo dell’arte più recente lo considerai come un aspetto non negativo, ma positivo, per la prevalenza della volontà sulla spontaneità. Il distacco da ogni contenuto dei mezzi espressivi e il loro uso secondo le infinite possibilità astratte era la tecnica da me indicata per suscitare, attraverso l’arte, presentimenti di uno stato superiore dell’essere, che in quel mio primo scritto associavo perfino al “breve, raro balenìo attraverso la grande morte, la grande realtà notturna della corruzione e della malattia”, rappresentato da esperienze di mistici e di veggenti.

Certo, non mancavano sfaldature evasionistiche, in relazione alle mie accennate esperienze personali; però non fino al segno, che non si delineasse un orientamento specifico: al dadaismo facevo il rimprovero di non essere pervenuto sino alla dimensione più profonda (avrei dovuto usare l’aggettivo “metafisica”); attraverso la distruzione, il sovvertimento, l’incoerenza, la contraddizione e l’astrazione esso pensava di liberare la “Vita” (quasi come in un esasperato bergsonismo), mentre per me si trattava di qualcosa di altro, di diverso dalla vita.

In realtà il movimento a cui mi ero associato, tenendo Tristan Tzara in alta stima, doveva realizzare ben poco di ciò che io in esso avevo visto. Se rappresentò di certo il limite estremo e insuperato di tutte le correnti d’avanguardia, tuttavia esso non si autoconsumò nell’esperienza di una effettiva “rottura di livello” di là da ogni arte e di ogni consimile espressione. Al dadaismo fece séguito il surrealismo, il cui carattere, dal mio punto di vista, era regressivo, perché esso per un lato coltivò una specie di automatismo psichico gravitando verso gli strati subconsci e inconsci dell’essere, tanto da solidarizzare con la stessa psicanalisi, e dall’altro lato si ridusse a trasmettere sensazioni confuse di un “dietro” inquietante e inafferrabile della realtà (specie nella cosidetta “pittura metafisica”) senza nessuna vera apertura verso l’alto.

“Senza Titolo (Paesaggio Dada; Paesaggio interiore)”, del 1920, una delle opere esposte alla Mostra “Julius Evola – lo spirituale nell’arte“, ospitata al Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto da maggio a settembre 2022 (cliccare per ingrandire)

Quanto all’arte astratta, essa doveva finire in una convenzione e in una accademia. Vi è stata una pausa; poi il secondo dopoguerra l’ha vista risorgere e proliferare come un facile e spesso commercializzato prodotto. Andò del tutto perduto, in tale ripresa, il suo valore non di nuovo indirizzo artistico bensì di segno o traccia di una data situazione esistenziale, e soprattutto della tendenza alla trascendenza: valore che per me era stato quello essenziale.

Anche se riposta, una certa tendenza alla trascendenza non mancava allo stesso Tristan Tzara. Conservo una cartolina illustrata da lui inviatami dal Tirolo austriaco il 3 settembre 1921, con un simbolismo significativo (2): era un paesaggio di valle con una chiusa e con uno sfondo di ghiacciai. Sul campanile a freccia della chiesa, sulla croce, Tzara aveva disegnato, quasi rosicrucianamente, un fiore dischiuso, e sulla vetta più alta dello sfondo, una mano con l’indice rivolto verso il cielo (3). Peraltro, artisti allo sbaraglio che già si erano associati al dadaismo, come l’Aragon, il Soupault, l’Éluard e il Breton, dovevano rientrare più o meno nella normalità assicurandosi un nome nella cultura corrente.

Per quel che concerne i miei contributi in questo campo nel periodo accennato, per la pittura ricorderò una esposizione personale di cinquantaquattro opere tenuta nel 1920 alla Galleria Bragaglia di Roma; seguì un’altra esposizione personale di circa sessanta opere a Berlino alla galleria di Der Sturm di Herwart Walden e una seconda esposizione tenuta, insieme a Ciotti (4) e Cantarelli, alla Galleria Bragaglia nel 1921, oltre alla partecipazione a mostre collettive a Losanna, Milano e altrove. Alcune mie opere attrassero l’attenzione di Sergej Diaghilev, il noto direttore dei primi balletti russi. Miei bozzetti per le scene del Pelléas et Mélisande di Debussy sono stati ricordati in storie della scenografia italiana di avanguardia (5). Dei miei quadri, diversi recavano il titolo di “paesaggio interiore” con l’indicazione di una data ora del giorno. Altri erano pure composizioni lineari o cromatiche. Un gruppo minore risentiva ancora del “contenutismo” futurista, anche se nella prima esposizione da Bragaglia usai, per esse, la designazione di “idealismo sensoriale”. Nel 1921 smisi del tutto la pittura. Esaurita la esperienza, andai oltre. Buona parte dei miei quadri è andata dispersa. Solo dopo circa quarant’anni, dal 1960 al 1963, qualcuno in Italia e in Francia ha riportato l’attenzione su quei miei contributi, per il loro valore storico di anticipazioni. Fu anche organizzata una esposizione retrospettiva, che riscosse successo (6). Uno dei quadri si trova nella Galleria d’Arte Moderna di Roma (7).

Nel campo della poesia, pubblicai qualcosa in alcune riviste francesi, a parte i poemi in appendice di Arte Astratta. Più degno di rilievo è forse il poema in francese La parole obscure du paysage intérieur, uscito nel 1920 per la Collection Dada in sole 99 copie numerate. Apprezzato dai principali esponenti del dadaismo, esso chiuse la mia esperienza nel campo dell’arte d’avanguardia. Ho acconsentito alla sua ristampa quattro decenni dopo, per le edizioni Scheiwiller, anche per significare che io non rinnego affatto le mie passate esperienze e che sono lungi dal considerarle come dei “peccati di gioventù”; ho però avuto cura di spiegare la situazione e il periodo in cui il poema nacque: senza di che, il riapparire di quella composizione avrebbe costituito motivo di perplessità per coloro che mi conoscono solo per la mia attività più recente d’orientamento “tradizionale”.

Disegno dadaista di Evola per la copertina della sua opera “La parole obscure du paysage intérieur” (1921)

Per un cenno, se la tecnica del poema era quella della poesia astratta e della cosiddetta “alchimia delle parole” (le parole usate soprattutto nelle combinazioni delle loro frange evocative dissociate dal senso reale) (8), tuttavia esso aveva anche un contenuto perché vi si descriveva una specie di dramma interiore, la cui chiave era indicata in un detto d’inspirazione gnostica: “Si ridestò al Grande Giorno e per aver creato le tenebre conobbe la luce”. Nel poema prendevano alternativamente la parola quattro personaggi i quali stavano a rappresentare date tendenze dello spirito. L’uno incarnava la volontà di un superamento distruttivo e dissolutivo, il secondo – un personaggio femminile – l’elemento umano, affettivo o sentimentale (l’“anima”), il terzo l’“astrazione disinteressata” nella rarefazione creata via via nel “paesaggio interiore”, non disgiunta da una ironizzazione, l’ultimo la “contemplazione descrittiva”, fungendo come una specie di coro, registrando cioè le trasformazioni che si susseguivano nel paesaggio.
Il tema fondamentale era quello della oscurità esistenziale, della sorda, incessante gravitazione che sta al fondo della vita umana. Distruzione e rarefazione vi intervenivano, pel presentimento di una superiore libertà e per effetto di un diverso impulso. La parola “iperbole” – la curva che tende asintoticamente all’infinito – chiude il poema, il quale fu anche recitato dinanzi ad un piccolo pubblico di invitati in un cabaret romano del tempo (alle “Grotte dell’Augusteo”), con accompagnamento musicale (Schönberg, ecc.).

Altre poesie scritte in quel periodo edite e inedite (come influenza, gli antecedenti erano soprattutto Rimbaud, Mallarmé e il Maeterlinck delle Serres Chaudes) sono raccolte in un volumetto intitolato Raâga Blanda. Ad un certo momento si pensò ad organizzare un tiro birbone. Una mia conoscente, amica di Papini, avrebbe dovuto presentargli i poemi chiedendo una sua prefazione per la pubblicazione, indicandone come autore, con un nome immaginario, una persona che si sarebbe uccisa giovanissima. In effetti, la persona che aveva attraversato, nei loro aspetti contingenti e problematici, quelle esperienze ai margini dell’arte d’avanguardia era morta. Invece, nei termini di un documento dell’“astrattismo e del dadaismo” a carattere retrospettivo, il volumetto ha avuto una edizione normale nel 1969, a cura dell’editore Vanni Scheiwiller d di Milano. Non scrissi, però, poesie né dipinsi più dopo la fine del 1922 (9).

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Note (selezione tratta dalle note a corredo dell’edizione riveduta e ampliata del 2014 dell’opera, pubblicata dalle Edizioni Mediterranee,  con integrazione di due note redazionali)

(1) “Je, est un autre”. Rimbaud scrisse il risultato di quella che egli stesso ritenette essere una terribile scoperta in una lettera a Paul demeny del 15 maggio 1871.

(2) Julius Evola ha raccontato di aver venduto questa cartolina insieme ad altro materiale dadaista al critico e collezionista d’arte Arturo Schwarz, nel 1966. Altri materiali del periodo, compresi numeri rari di riviste e manifesti dada, furono invece ceduti a Vanni Scheiwiller. Alcuni di questi documenti furono pubblicati nel catalogo La parola nell’arte: ricerche d’avanguardia nel ’900, Skira, Milano 2007.

(3) N.d.R. – Riportiamo il significativo commento del giovane Evola alla cartolina, da lui esposta a Tzara in una lettera riportabile alla fine del 1921: “Esiste un mito che conoscete bene, suppongo, e la cui importanza sta nel ritrovarsi in tutte le religioni e le filosofie inziatiche comuni: è che l’uomo è un Dio decaduto; che il compito dell’uomo è di redimersi dalla materia e dal desiderio, per riscattarsi riscattando il Dio malato che è in lui: “poiché crea le tenebre, conosce la Luce”. Vi ho detto della forte impressione che la vostra cartolina dal Tirolo mi aveva causato: ecco cosa vuole significare: sulle costruzioni umane / come risultato della conoscenza / una croce: ma sulla croce della sofferenza, risplende il fiore che avete tracciato: dada sorriso inerte; ma al fondo, sulle montagne, una mano indica in alto, il cielo: il sentiero dell’iperbole. Su di un cartoncino, avete indicato tutto ciò che di più elevato esiste nella saggezza del mondo: in questo piccolo cartoncino siete stato immenso come nessuno lo è mai stato: Buddha, Cristo, Platone, Rosenkreuz, Kant, tutto è riassunto in quei due segni che la vostra mano ha tracciato su una banale cartolina” (tratto da “Lettere di Julius Evola a Tristan Tzara”, a cura di Elisabetta Valento, Fondazione J. Evola, Roma 1991, pp. 44-48; lettera riportata in calce al capitolo II de “Il cammino del cinabro”, edizione riveduta, 2014, Edizioni Mediterranee).

(4) Errore di trascrizione o refuso tipografico (presente sia nell’edizione del 1963 sia in quella del 1972) per Fiozzi.

(5) Di questi disegni rimane Nel bosco (1917-18, olio su tavola, cm 45×33). Una certa sensibilità scenografica evoliana è testimoniata anche da La ninfa fogliasecca (1918-21, inchiostro e acquarello su carta, cm 20×16).

(6) La mostra personale si svolse alla galleria romana “La medusa”, diretta da Claudio Bruni, a partire dal 23 novembre 1963. L’evento venne curato dal giovane Enrico Crispolti, che lo promosse alla critica e al pubblico. Cfr. Claudio Bruni, Evola Dada, in Testimonianze su Evola, cit. Assieme a Scheiwiller, Bruni e Crispolti furono i primi a prendere contatto con Evola, tra il 1959 e il 1960, interessati alla sua fase dadaista. Queste le opere esposte durante l’evento: Truppe di rincalzo sotto la pioggia; Feste; Mazzo di fiori; Paesaggio interiore, ore 3 a.m.; Paesaggio interiore, intervallo; Paesaggio interiore, ore 10.30; La fibra s’infiamma e le piramidi; Paesaggio interiore, ore 17; Paesaggio interiore, illuminazione; Paesaggio interiore, apertura del diaframma; La parola oscura; Paesaggio dada n. 1; Composizione n. 19; Paesaggio dada n. 3; Cesura; Paesaggio dada n. 6; Interno dada; Composizione; Composizione n. 1; Composizione n. 3; Prigioniero austriaco.
N.d.R. – Integriamo questa nota ricordando che presso il Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto (MART) si è tenuta, dal 15 maggio al 18 settembre 2022, un’importante mostra retrospettiva dedicata all’arte di Evola, “Julius Evola – lo spirituale nell’arte”, intitolazione mutuata dal celebre saggio omonimo di Vasilij Kandinskij del 1911, nata da un’idea di Vittorio Sgarbi, che da tempo si sta occupando con attenzione della produzione artistica di Evola. Ne abbiamo parlato sul nostro, sito, nell’articolo “Julius Evola – lo spirituale nell’arte”.

(7) È Paesaggio interiore ore 10.30 (1919, olio su tela, cm 110×63).

(8) Su questo aspetto, Evola tenne una conferenza, nel 1922, presso il gruppo teosofico “Roma”, intitolata “dal dadaismo al simbolismo”, i cui contenuti si evincono dalla seguente nota, pubblicata su Ultra (n. 3-4, agosto-settembre 1922): “Interessante esposizione fu quella del dott. J. Evola. Egli analizzò i tentativi di scrittori moderni, specialmente francesi, di rappresentare in modo sintetico e simbolico alcuni stati d’animo avvalendosi non solo del significato e della connessione logica delle parole, ma anche del loro suono”.

(9) In realtà Evola dipinse ancora proprio a partire dal 1963. Venduti tutti i suoi quadri esposti a “La medusa”, per non avere le pareti di casa spoglie realizzò copie di alcune delle opere date via, e in più dipinse ex novo almeno altre cinque o sei tele.

Nell’immagine in evidenza, Evola in una celebre foto scattata probabilmente nel corso dell’esposizione dadaista presso la Casa d’Arte Bragaglia (Roma, 15-30 aprile 1921). Alle sue spalle si riconoscono due suoi dipinti.



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