Evola racconta la traversata delle Cime Castore e Polluce

Nello scorso mese di luglio abbiamo pubblicato l’appassionante resoconto, con annesse fotografie, relativo alla traversata integrale della Punta Castore (m. 4228) nel Gruppo del Monte Rosa, organizzata dal Gruppo Escursionistico Orientamenti e da Rigenerazione Evola, per onorare la memoria di Julius Evola.

Oggi riproponiamo il racconto che lo stesso Evola fece di una delle tante esperienze alpinistiche da lui compiute negli anni Trenta, e precisamente proprio la traversata della Punta Castore, unitamente alla Punta Polluce, che costituiscono insieme i cosiddetti Gemelli del gruppo del Rosa.

Risulterà molto interessante porre a confronto questa narrazione col resoconto dei “nostri” alpinisti. Infatti, dal consueto stile asciutto ed essenziale di Evola traspare, in questo come in altri suoi scritti sulla montagna, come avremo modo di porre ulteriormente in evidenza in futuro, una grande capacità descrittiva, un’intensità ed una partecipazione emotiva e spirituale non frequenti nella sua prosa, che stanno a testimoniare il legame, intimo e profondo, che il barone strinse con la montagna, e la sua capacità di vivere realmente in essa e con essa un’esperienza sovraumana, trasfigurante e rinnovatrice in senso eminentemente spirituale.

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I “Gemelli” del Gruppo del Rosa, i Monti Castore (m. 4.228) e Polluce (m. 4091)

Nella prima parte dell’articolo, che fu pubblicato col titolo di “Tempesta sul Monte Rosa” sulla rivista Roma, n. 3 del 30 agosto 1955 e che si trova ora nella celebre antologia Meditazioni delle Vette, Evola racconta lo spostamento dal ghiacciaio del Plateau Rosa fino al Rifugio Sella, da utilizzare il giorno successivo quale avamposto per la traversata dei Gemelli del Rosa, raccontata nella seconda parte. Da notare anche il breve resoconto della tragica ascesa effettuata in quello stesso giorno, poche ore dopo, da un gruppo di cinque giovani, colti dal maltempo sulle creste e lì rimasti bloccati, che costò la vita ad una ragazza: la superficialità nel valutare le condizioni meteorologiche e, probabilmente, nell’equipaggiarsi correttamente (le ragazze erano salite in shorts, commentava basito Evola) risultarono fatali in quell’occasione. Non a caso, il gruppo che ha scalato il Castore per Rigenerazione Evola e per Orientamenti aveva commentato: “ci aspetta un weekend che deve essere necessariamente accompagnato dal bel tempo: sui 4000 metri non ci si avventura senza tempo stabile soprattutto se, come nel caso nostro, l’esperienza e la conoscenza di questi luoghi è limitata”. Nulla s’improvvisa in montagna, al di là, ovviamente, di quell’imprevedibilità di fondo e di quel conseguente amor fati che non può non accompagnare le esperienze dell’alto alpinismo, come ricorda Evola stesso.

Buona lettura ed ancora un plauso al gruppo di alpinisti che hanno voluto tentare l’impresa, riuscendoci con caparbietà, preparazione e coraggio, nel nome di Evola e della Tradizione.

***

“Tempesta sul monte Rosa”

di Julius Evola

Fu l’anno in cui venne inaugurata la teleferica che da Cervinia porta fino al ghiacciaio del Plateau Rosà, a circa 3500 m. (1) Le condizioni per chi ama veramente la montagna e soffre per ogni sua contaminazione turistica erano, allora, ideali. Trattandosi della zona di frontiera con la Svizzera, solo con un permesso speciale si poteva giungere fino alla stazione terminale di quella teleferica. II rifugio mondano, villeggiantesco e pseudo-sportivo di coloro ai quali la montagna è stata messa a portata di mano, quasi come in una salita d’ascensore a pagamento, era inesistente. Ero assieme ad una accompagnatrice e l’uso di quella teleferica ci servì solo per raggiungere un punto di partenza, non di arrivo, perche nostra intenzione era fare la traversata per ghiacciai e rocce fino a raggiungere, dal Plateau Rosà, il gruppo del Monte Rosa.

Funivia Plan Maison-Plateau Rosa (cartolina d'epoca)

La vecchia funivia Plan Maison-Plateau Rosa in una immagine degli anni ’50

Questa traversata è assai lunga ma non presenta difficoltà, quando il tempo è buono e ci si sa orientare. Agisce sull’animo come una liberazione questo andare soli fra una natura primordiale, ove le nevi si alternano con rocce nere o verdastre folgorate,  con zone immense di lastre e macigni ammassati quasi come resti di qualche cataclisma delle origini. Per un tratto si discende, lungo un sentiero alto costeggiante una valle – l’occhio rivede con un senso strano di novità il verde dei prati e degli alberi – si risale quindi, si raggiunge un passo, da dove orme e segni rossi sulle pietre indicano la direzione verso il Rifugio Sella del Monte Rosa. Tale direzione la conoscevo bene. Cosi mi stupì vedere che d’un tratto, quasi per sortilegio, la via cessava: niente più segni, invece salti di roccia e franature verso il ghiacciaio sottostante.

Era già sera, ci si trovava sui 3000 metri e dall’alba si era in marcia. Vano ogni tentativo di ritrovare, vicino, tracce di un sentiero. Infine, a malapena scorgemmo una pista di orme nel ghiacciaio inferiore. Scesi giù, decidemmo di seguirla, affidandoci alla buona fortuna. Nell’oscurità,  presto ogni orma successiva fu l’unica guida per andare avanti. Erano le dieci di sera all’incirca quando approdammo al rifugio. Là avemmo la spiegazione. L’anno prima costoni interi della montagna erano franati. Nello stesso rifugio, ancorato su di una specie di promontorio della roccia, vi fu una notte di panico: sembrava che anch’esso si muovesse assieme alla roccia.

L’antica via segnala era dunque interrotta.

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Il Rifugio Quintino Sella (m. 3.585) nella valle del Lys

Il giorno dopo volli fare ancora una volta la traversata dei cosiddetti Gemelli – il Castore e il Polluce – due vette di circa 4200 metri, unite da creste di ghiaccio. In Sé, questa traversata non è difficile. Può però divenirlo, per il tempo e le condizioni del ghiaccio. Lasciato il Rifugio Sella, vi è da attraversare ciò che, quando il sole è alto e splende a pieno, senza enfasi si potrebbe chiamare un inferno bianco. È una vasta conca di ghiaccio nevoso in lieve ascesa, con qua e là dei crepacci, ove i riverberi del sole e il calore sono spesso insopportabili in quell’aria sottilissima. Poi si attacca il fianco ripido dello schieramento delle cime e si raggiunge la linea delle vette. Segue un paio di ore di creste di ghiaccio, con molti precipizi a destra e a sinistra, creste talvolta talmente sottili da dover andare senza appoggi, in equilibrio, sulla parte centrale, col vuoto d’ambo i lati. Particolari difficoltà si presentano solo quando, per aver soffiato il vento del Nord, si formano tratti di ghiaccio vivo durissimo. Si deve allora scalinare con la piccozza quando si è in diversi, a turno. Se si è soli, o in due, ogni misura di sicurezza è illusoria. Non si può usare il solito metodo, consistente nel fermarsi, piantare in profondo una piccozza, fare scorrere attorno ad essa la corda via via che il compagno, ad essa assicurato, va avanti, attendendo che questi trovi un punto adatto per configgere la sua piccozza e ripetere la stessa manovra di sicurezza per voi che lo raggiungete. Col ghiaccio vivo ciò non è possibile, l’essere legati con la corda rappresenta solo una «sicurezza morale», mentre la realtà e che se l’uno precipita, trascina con sé l’altro. Ma i Gemelli di solito non sono così brutti. Come compenso per l’ascesa, il panorama veramente superbo, glorioso, fantastico del mare di alpi e di cime del Bernese svizzero. L’escursione nostra non presenta difficoltà. Già nelle prime ore del pomeriggio si era di ritorno al rifugio. Poco dopo il tempo cambiò. Le linee delle vette sparirono tra folate di nebbia. Nella notte il tempo divenne decisamente brutto. Ma la mattina dopo, di nuovo chiarità radiosa. E fra quella luce si scorse lontano sul ghiacciaio inferiore un uomo che andava a zig-zag, cadendo e rialzandosi, come un ubriaco. Non si tardò ad andargli incontro. Qua e là insanguinato, sembrava un allucinato. Ecco quanto si venne a sapere.

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La “spedizione Evola” sulla Vetta del Monte Castore

Il giorno prima egli, assieme ad altri due giovani e a due ragazze, poche ore dopo che noi, aveva fatto la traversata dei Gemelli. Il cattivo tempo aveva sorpreso il gruppo sulle creste. Mancando di visibilità, la situazione si fece subito disperata: perché tutto sta nell’individuare il solo punto che permette la discesa nel ghiacciaio inferiore del versante italiano. Quel punto non fu trovato e i cinque rimasero bloccati lassù, a 4200 metri. Si deve pensare a ciò che può essere una notte a quell’altezza col cattivo tempo, il vento soffiando da Nord quasi senza incontrare ostacoli. I cinque cercarono riparo dietro un pezzo di lastrone emergente, stringendosi tutti insieme su di una superficie illusoria, avente ai due lati il vuoto. Alle prime luci del giorno, una delle ragazze era morta (entrambe erano andate su in shorts!). Prima ancora che il tempo schiarisse, due dei giovani partirono per trovare ad ogni costo una possibilità di discesa. Restò il terzo giovane con la seconda ragazza. Già caduta in una semicoscienza, egli credette che anch’essa non vivesse più. Doveva esservi fra i due un qualche legame sentimentale. Il giovane si decise ad un gesto folle, si gettò giù, come per uccidersi. Invece questa fu la sua salvezza. La caduta provocò una specie di piccola valanga della neve soffice che lo accompagnò deponendolo quasi illeso sul ghiacciaio inferiore. Era lui che avevamo veduto andare a zig-zag, sanguinante fra le nevi. La seconda ragazza in alto non era morta. Fu trasportata al rifugio delirante: ma la sua avventura non doveva avere conseguenze. Degli altri due giovani, uno cadde in un crepaccio rompendosi una gamba, l’altro finì col raggiungere la valle dove dette l’allarme.

In questa occasione, non potei non pensare quanto, in alta montagna, sia pura questione di destino. Un paio di ore più tardi e, forse, anche noi due, sulle creste dei Gemelli, avremmo fatto la stessa fine. E che dire quando si affrontano scalinando pareti gelate quasi verticali, ove basta che due o tre centimetri del ghiaccio di uno scalino tagliato cedano sotto un rampone per precipitare? Ma forse questo è uno degli aspetti più profondi dell’esperienza dell`alto alpinismo: una specie di amor fatil’unire l’ebrezza dell’avventura e del pericolo ad una fiduciosa remissione a ciò che di non semplicemente umano si lega al proprio destino.

Note

(1) Il 2 agosto del 1936 veniva inaugurata la prima funivia che univa Cervinia a Plan Maison, ad opera della “Società Anonima Cervino”; tre anni dopo, nel 1939, fu costruito il secondo impianto, quello di cui parla Evola, che da Plan Maison conduceva fino al ghiacciaio del Plateau Rosa, raggiungendo quota 3.480 metri. Da ciò deduciamo che la traversata raccontata da Evola si tenne proprio nel 1939 (N.d.R.).



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"In una civiltà tradizionale è quasi inconcepibile che un uomo pretenda di rivendicare la proprietà di una idea e, in ogni caso, in essa chi così facesse, con ciò stesso si priverebbe di ogni credito e di ogni autorità, poiché condannerebbe l’idea a non esser più che una specie di fantasia senza alcuna reale portata. Se una idea è vera, essa appartiene in egual modo a tutti coloro che sono capaci di comprenderla; se è falsa, non c’è da gloriarsi di averla inventata. Una idea vera non può essere «nuova», poiché la verità non è un prodotto dello spirito umano, essa esiste indipendentemente da noi, e noi abbiamo solo da conoscerla. Fuor da tale conoscenza, non può esservi che l’errore" (R. Guénon)

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