Fascismo e sacralità dello Stato (I parte)

A ridosso della ricorrenza storica del 28 ottobre, che sarà l’occasione per un interessante approfondimento presso Raido, a Roma, circa il significato più profondo dell’esperienza del fascismo italiano (“Lo spirito del fascismo”, ore 18,00, a cura del coordinamento militante “Il Cerchio”, in collaborazione con il Raggruppamento R.S.I. –  Delegazione Lazio) anche quest’anno riproponiamo un’analisi di Evola proprio su questa tematica, come di consueto senza sterili intenti nostalgistici, ma con finalità sempre costruttiva, critica, nell’analisi di luci ed ombre delle manifestazioni storico-politiche del mito e dell’idea che prendono forma dalla fonte metastorica della Tradizione. Come seguito dello scritto evoliano proposto lo scorso anno, estratto da il “Il Fascismo visto dalla Destra” (ora ricompreso ne il Fascismo e Terzo Reich), ci soffermiamo oggi, suddividendole in tre articoli, sulle osservazioni di Evola (IV parte sempre de “Il Fascismo visto dalla Destra“) circa al tentativo fascista di dare un connotato sacro e trascendente alla concezione dello Stato e della politica, con fondamentali appunti sul concetto di patria e nazione, società e gerarchia, libertà e personalità, stato organico e totalitarismo, e così via. Una summa di argomenti altrove notoriamente affrontati ed approfonditi da Evola a più riprese, ma che è sempre importante tenere a mente ed analizzare con attenzione.

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di Julius Evola

Nelle sue linee essenziali di dottrina dello Stato (…) il messaggio del fascismo è da considerarsi, dal punto di vista della Destra, senz’altro positivo. Ci si trova appunto nell’orbita di un sano pensiero politico tradizionale, ed è partendo da esso che la polemica settaria, unilateralmente denigratrice, dell’antifascismo va nettamente respinta. Però s’impone una controparte. Da un lato, è bene precisare quelle che avrebbero dovuto essere le implicazioni ultime della dottrina, ciò che avrebbe dovuto essere accentuato per assicurare ad essa un carattere inequivocabile; in secondo luogo, bisogna indicare i punti in cui nel sistema e nella prassi del fascismo si manifestarono le principali deviazioni.

Per quel che riguarda il primo punto, ci limiteremo a rilevare che il principio della preeminenza dello Stato di fronte a tutto ciò che è semplice popolo e nazione dovrebbe articolarsi ulteriormente attraverso l’opposizione ideale fra Stato e «società», sotto il termine «società» essendo da riunire tutti quei valori, quegli interessi e quelle disposizioni che rientrano nel lato fisico e vegetativo di una comunità e degli individui che la compongono. In realtà, dottrinalmente è fondamentale l’antitesi fra i sistemi politici che gravitano sull’idea di «società» (tipo «sociale» dello Stato). Nei secondi rientrano le varietà del giusnaturalismo, del contrattualismo a base utilitaria e della democrazia, con gli sviluppi concatenati che dalla democrazia liberale portano fino alle cosidette «democrazie popolari», cioè marxiste e comuniste.

Connessa a questo dualismo è la definizione del piano politico in quanto tale nei termini, in un certo senso, di una «trascendenza». Qui entra in questione il contenuto «eroico» o militare, di servizio come onore e di lealismo in senso superiore che con riferimento allo Stato può acquistare l’esistenza, o almeno alcuni aspetti dell’esistenza. Si tratta di una certa alta tensione ideale, che porta oltre i valori non solo edonistici (di semplice benessere materiale), ma anche eudemonistici (cioè perfino di benessere spirituale).

È innegabile che il fascismo si sforzò di dare risalto a questa dimensione della realtà politica (da ritenersi opposta a quella soltanto «sociale»), anche per l’aspirazione ad una esistenza antiborghese, combattiva e perfino pericolosa (il famoso «vivere con pericolo», da Mussolini ripreso da Nietzsche: tutto ciò risentì, peraltro, della componente esistenziale, combattentistica del movimento fascista), e per l’esigenza di un’integrazione dell’uomo per mezzo di «un immanente rapporto con una legge superiore, con una volontà obiettiva che trascende l’individuo particolare». La formulazione di tale esigenza è significativa, anche se non si andò a precisarne in modo adeguato il contenuto.

Il giudizio sulle forme concrete con le quali il fascismo cercò di adeguarsi a tale esigenza, da ritenersi controparte ineccepibile della dottrina dello Stato dianzi accennata, può essere vario. Se si può riconoscere il carattere esteriore e forzato di varie iniziative e usanze dell’Italia di ieri, ciò non deve far da pretesto per trascurare un problema che è di fondamentale importanza, oggi non meno di ieri. Si tratta, in fondo, del problema del modo con cui andar incontro ad un impulso all’«autotrascendenza» che nell’uomo può venire represso e tacitato, ma mai completamente estirpato eccetto che nel caso-limite di un imbastardimento sistematico di tipo bovino. Le «rivoluzioni nazionali» di ieri cercarono di fornire un centro politico di cristallizzazione a questo impulso (è, di nuovo, l’accennata azione di una «forma» su una «materia»), per impedire il suo inselvatichimento e la sua manifestazione o prorompenza in forme distruttive. In effetti, nessuno poteva ignorare la crisi profonda della «razionalizzazione» dell’esistenza tentata dalla civiltà borghese, il molteplice emergere dell’irrazionale e dell’«elementare» (nel senso stesso della elementarità della forza di natura) attraverso le crepe di detta civiltà, su tutti i piani.

Oggi, con una ripresa di quella fisima della «razionalizzazione», si tende invece ad accantonare e a discreditare tutto ciò che è tensione esistenziale, eroismo e forza galvanizzatrice di un mito, nel segno appunto di un ideale non politico ma «sociale» e di benessere fisico. Ma è stata giustamente rilevata l’inevitabilità di una crisi profonda nel punto in cui, alla fine, prosperity e benessere annoieranno. Le anticipazioni di tali crisi non mancano: sono costituite da tutte quelle forme di rivolte cieche, anarchiche e distruttive di una gioventù che proprio nelle nazioni più prospere avverte l’assurdità e la mancanza di ogni senso nell’esistenza socializzata, razionalizzata, materializzata, inquadrata nella cosidetta «civiltà dei consumi». In esse quell’impulso elementare non trova più un oggetto e, lasciato a sé stesso, appunto imbarbarisce.

“Date a Cesare quel che è Cesare, date a Dio quel che è di Dio”: la celebre frase evangelica la cui interpretazione più nota sarebbe alla base della desacralizzazione del concetto di Stato (Jonh Singleton Copley, “La Moneda del Tributo”, 1782)

Nelle società tradizionali è sempre esistita una certa liturgia o mistica della potenza e della sovranità che era parte integrante del sistema e che forniva una soluzione al problema di cui or ora si è detto. Così non è il caso di accusare massicciamente alcune iniziative prese dal fascismo e la sua volontà di mantenere un clima generale di alla tensione; si tratta piuttosto di riconoscere il limite oltre il quale si ebbe solo qualcosa di parodistico e di inautentico in un insieme spesso determinato dalla discongruenza fra principi e intenti da un lato, una data sostanza umana dall’altro.

Di rigore, in questo contesto si affaccia però un problema, che nella presente disamina può venire soltanto sfiorato. Esso si riferisce all’accusa che un sistema politico, del tipo di quello di cui qui stiamo trattando, usurpa un significato religioso, che esso devia la capacità di credere e di sacrificarsi dell’uomo e, in genere, il suo potere di autotrascendimento dal suo oggetto legittimo, che sarebbe appunto la religione, indirizzandolo verso surrogati profani. Come è evidente, in tanto questa obiezione ha un peso, in quanto si parte da un dualismo sostanziale e insuperabile fra mondo dello Stato e mondo spirituale o del sacro. Allora bisogna veder chiaro che cosa comporta un tale dualismo: esso implica da un lato la sconsacrazione e materializzazione di tutto ciò che è politica, potere, autorità; dall’altro la derealizzazione di tutto ciò che è spiritualità e sacralità. Tale è naturalmente anche la naturale conseguenza del «Date a Cesare», e tutti i tentativi della teologia politica per risaldare la frattura così operata non portano oltre un semplice compromesso.

D’altra parte vi è da rilevare che l’accennata scissione non fu conosciuta da tutta una serie di organismi politici tradizionali europei e non europei, nei quali l’una o l’altra forma di sacralizzazione del potere e dell’autorità costituì anzi il fulcro e la legittimazione di tutto il sistema. In via di principio se l’autorità e la sovranità non posseggono un qualche crisma spirituale, esse non possono nemmeno essere chiamate veramente tali, e l’intero sistema del vero Stato si trova a mancar di ogni saldo centro gravitazionale per tutto ciò che non si riduce ad un mero sistema amministrativo e «sociale» ma abbia invece attinenza con l’accennato clima di alta tensione.

Immagine celebrativa dei patti Lateranensi

La situazione generale dell’epoca e il significato che in Italia ha avuto il cattolicesimo quale forza sociale dovevano però impedire al fascismo di affrontare direttamente il grave problema del crisma ultimo dello Stato, benché ad esso si sarebbe dovuti essere portati, fra l’altro, anche per le naturali implicazioni di una vera, coraggiosa ripresa dell’ idea romana.

Cosi, di fatto, si restò in una oscillazione. Da un lato, Mussolini rivendicò ripetutamente al fascismo un valore «religioso»; dall’altro, egli non specificò quale doveva essere propriamente tale religiosità, in quanto associata all’idea politica e, quindi, diversa da una comune, informe devozione rivolta verso il sovramondano. Egli dichiarò che «lo Stato non ha una teologia, ma ha una morale». Ma anche con ciò si resta nell’equivoco, perche ogni morale, se deve avere una profonda giustificazione e un carattere intrinsecamente normativo, se non deve essere una mera convenzione del vivere associato, occorre che abbia un fondamento «trascendente», per cui essa riporta ad un piano non diverso da quello religioso dove prende forma anche la «teologia». Così era naturale che spesso si venisse a degli urti, specie là dove entrava in giuoco l’educazione e la formazione spirituale delle nuove generazioni, tra il fascismo e gli esponenti della religione dominante, intesi a monopolizzarsi tutto ciò che ha carattere propriamente spirituale appoggiandosi alle clausole del Concordato.

D’altra parte è abbastanza evidente che, se non si affronta l’accennato problema, non è possibile respingere del tutto certe interpretazioni dei movimenti di tipo «fascista» che li fanno rientrare in un regime di surrogati in un mondo sconsacrato, nel quadro delle moderne mistiche secolarizzate e «pagane»: perfino elementi come la lotta e l’eroismo, la fedeltà e il sacrificio, il disprezzo per la morte e cosi via potendo assumere un carattere irrazionale, naturalistico, tragico e oscuro (un Keyserling aveva parlato addirittura di una coloratura tellurica della «rivoluzione mondiale») (1) quando manchi quel punto di riferimento superiore e, in un certo modo, trasfigurante, di cui si è detto che appartiene necessariamente ad un piano trascendente lo stesso dominio della semplice etica.

segue nella seconda parte

Nota

(1) Cfr. Hermann Keyserling, La rivoluzione mondiale e la responsabilità  dello spirito, Hoepli, Milano, 1935 (N.d.C.).



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"In una civiltà tradizionale è quasi inconcepibile che un uomo pretenda di rivendicare la proprietà di una idea e, in ogni caso, in essa chi così facesse, con ciò stesso si priverebbe di ogni credito e di ogni autorità, poiché condannerebbe l’idea a non esser più che una specie di fantasia senza alcuna reale portata. Se una idea è vera, essa appartiene in egual modo a tutti coloro che sono capaci di comprenderla; se è falsa, non c’è da gloriarsi di averla inventata. Una idea vera non può essere «nuova», poiché la verità non è un prodotto dello spirito umano, essa esiste indipendentemente da noi, e noi abbiamo solo da conoscerla. Fuor da tale conoscenza, non può esservi che l’errore" (R. Guénon)

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