Ad integrazione degli articoli di Julius Evola sulla concezione dello Stato risalenti alla fine degli Anni Cinquanta, ed in particolare con riferimento al tema dello Stato organico, proponiamo in tre puntate un interessante saggio di un giovanissimo Marco Tarchi (all’epoca appena ventunenne), che trovò prestigioso spazio sulla rivista Civiltà all’inizio del 1974, intitolato “Prospettive per la strategia – Lo Stato Organico”. Un testo che, mutatis mutandis, appare ancora decisamente attuale nei contenuti e nello stile diretto e preciso, che rivelava già le doti e la preparazione di Tarchi che, al di là delle posizioni più o meno condivisibili successivamente assunte e sostenute, non erano e non sono in discussione.
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di Marco Tarchi
Tratto da Civiltà – Anno II – n.4 – gennaio – febbraio 1974
Per ogni movimento che si voglia automaticamente rivoluzionario, alla fase di critica analitica dei fenomeni alla base dei quali si individua la crisi delle strutture esistenti (nel nostro caso, la costituzione capitalista della società moderna ed il germe marxista in essa proliferante), deve necessariamente seguire una sintetica esposizione degli obbiettivi che si intendono raggiungere e delle forme entro le quali sia possibile portarli ad attuazione.
Ecco perché cercheremo — sia pure limitatamente — di indicare con la massima aderenza al reale, senza scadere nella utopia e nell’ideologismo, le forme ed i presupposti dello Stato Organico, prodotto centrale e basilare della Civiltà creatrice Europea, elemento costitutivo del Nuovo Ordine Europeo da noi auspicato. Che oggi la carenza di senso dello Stato sia un fenomeno generalizzato, è persino superfluo ricordarlo. In ogni campo della vita sociale, i sintomi di questo scadimento appaiono in costante crescita: al distacco — constatabile giorno per giorno — fra paese reale e paese legale, si aggiungono, in misura maggiore presso le giovani generazioni, disprezzo per le istituzioni, rigetto dell’Ordine e del limite, annullamento del senso del dovere, derisione di tutto quel che, nell’uomo, superi il livello dell’animalità.
Questi i sintomi. Gli effetti del grave male? Li abbiamo ogni giorno sott’occhio: dilagare dell’anarchia come «modo di essere», vilipendio delle Forze Armate, vere e proprie forme di sabotaggio produttivo, menefreghismo, omosessualità, droga, e, al di là e al di sopra di tutto ciò, nausea esistenziale. Intendiamoci: non voglia di morire, che talvolta, rappresenta anch’essa un modo di affermare la propria coscienza e del proprio diritto all’avere distanza come nel caso di Yukio Mishima); semplicemente, completo disinteresse alla vita.
Discorso vecchio e risaputo, si obietterà. Quante volte, in sede sociologica, un simile dibattito è stato affrontato pur dal punto di vista conservatore, perbenista o progressista? È vero. Ma quale risposte sono state date al problema? Esaminiamole: lo Stato tecnocratico, lo Stato marxista, lo Stato liberal-conservatore, la società anarchica. Vecchi arnesi inefficaci, o folli utopie.
Uno schema fallito già nel XIX secolo, non può, riverniciato di demagogia o di bonapartismo, essere ripresentato 100 anni dopo. Lo stesso può dirsi per la forma marxista, dimostratasi fallimentare in teoria prima ancora che in pratica. Occorre dunque una formula nuova, eppure non empirica, basata su constatazioni di fatto, poggiante sul principio secondo cui «mutano le forme storiche in cui esse si manifestano, ma le componenti della storia mondiale sono sempre le medesime»: questa formula, tradotta in pratica, è lo Stato Organico.
IL CONCETTO DI STATO
Per definire la complessa problematica interna relativa allo Stato Organico, occorre notare innanzitutto come i termini che un tale Ente valsero ad indicare, in Grecia come a Roma, etimologicamente si distacchino della parola moderna, in cui riagganciano invece voci che, come «Statòs» e «Status», stavano ad indicare un concetto di stabilità, di equilibrio, non solo materiale, affine a quello del confuciano «Asse che non vacilla». E questo lo Stato vuole infatti essere nella Tradizione positiva che ci sta alle spalle: un centro immobile, un solido asse intorno a cui tutto «gira», una raffigurazione del principio dell’Essere della certezza, della forma, di centro al Divenire, al non essere una materia. Un principio di forma che delimiti l’elemento materiale, un principio superiore, Spirituale, capace di portare Ordine sul Caos.
Un centro immobile, lo abbiamo definito. Dunque, qualcosa di ben diverso dal totalitarismo di maniera, che, ammantandosi di «eticità», pretende di sostituirsi all’uomo, guidandolo ben oltre la soglia di casa inserendo lo rigidamente gli schemi chiusi. Qualcosa di opposto alla concezione marxista, che vede nel potere Statale nient’altro che la configurazione del dominio di una classe sull’altra, un dominio destinato a diventare assoluto nel momento in cui lo Stato, proletarizzando ogni cittadino distruggerà se stesso, ritenendosi inutile. In conclusione, come ovvio, qualcosa di estremamente distante anche e soprattutto da quest’ultima conclusione, lo sbocco di una società anarchica convinta dell’inutilità di ogni struttura.
Il nostro Stato, al contrario è organico: organica è infatti ogni parte che in un corpo umano esplica, in stretta connessione con tutte le altre, una propria funzione differenziata, come pure quello strumento musicale che, attraverso la perfetta conduzione delle singole note e tonalità, giunge ad esprimere una completa armonia. E che dei singoli organi il corpo non possa fare a meno per il suo funzionamento, ci è noto oltre che dalla pratica quotidiana e dei manuali scientifici, anche dal celebre è ben costruito apologo di Menenio Agrippa in occasione della secessione plebea in Roma.
Dunque, per trasposizione, organico è lo Stato in cui le singole individualità, o, meglio, personalità, sono poste fra loro in una connessione gerarchica che, negando ogni forma di egalitarismo e tenuto conto della dignità di ognuno, anzi proprio per questo, riconosce ed utilizza le naturali diversità in funzione del tutto. Individualismo e collettivismo, anomalie disintegratrici, non conoscono in esso diritto alcuno di cittadinanza.
LE ORIGINI DEL POTERE
Lo Stato democratico, come noto, basa la propria legittimità sul «consenso della maggioranza» dei cittadini. Esso, in parole povere, è fondato sul «contratto sociale» di rousseauiana memoria, e non ha altra autorità se non quella conferitagli da una somma (non da una sintesi) di volontà egalitaristicamente intese.
La quantità, dunque, ne è il dato caratterizzante. Senza attenersi infatti ad alcun superiore parametro di giudizio, lo Stato della democrazia basa il suo agire sul numero, maggiore o minore, di coloro che lo sostengono. Persino la legge, massima tra le codificazioni del vivere sociale, è sottomessa al volere delle maggioranze, o, per meglio dire, dei rappresentanti da esse designati. Questa dei «rappresentanti» è indubbiamente una tra le più divertenti favole che il mondo moderno ci racconta ogni sera, con l’ausilio dei suoi mezzi di disinformazione audiovisivi (Radio, Televisione e Stampa in primo piano), per farci andare a letto tranquilli.
Lo Stato democratico, infatti, erede degnissimo delle tradizioni giacobine e rivoluzionarie di stile ottocentesco, vanta tra le sue più significative conquiste il suffragio universale. Il voto concesso a tutti indiscriminatamente è, per esso, uno dei pilastri della Civiltà, l’elemento che consente agli individui di governare la propria nazione. Questo, in teoria. In pratica, però, questo stesso Stato vieta il voto corporativo, quel suffragio, cioè, espresso dal singolo lavoratore o produttore nel proprio ambiente naturale — di cui ha forzatamente miglior conoscenza — per indicare le persone più adatte alla difesa degli interessi della categoria cui egli si trova ad appartenere. Nega altresì risolutamente la validità di un voto comunale diretto, riferito ad un individuo, conosciuto e valutato secondo le proprie capacità, e non ad una anonima lista di partito, sostenendo in tal modo la sovrapposizione tra gestione amministrativa e gestione politica.

Marco Tarchi
Nella quasi totalità dei casi, dunque, il cittadino democratico si trova ad esprimere un voto di lista, motivato unicamente da bassi interessi clientelari, da pressioni ricevute o da conformismo. Il mancato contatto elettore-eletto fa sì inoltre che quest’ultimo, sentendosi completamente libero da vincoli di fiducia, regoli le proprie modalità di comportamento in base ad ordini di scuderia e non a riflessioni personali. Il distacco tra Paese reale — quello che lavora e produce — e Paese legale — quello che sfrutta e si approfitta — cui avevamo accennato, cresce così costantemente. Di un tal «colloquio» tra stato e cittadini, noi non sappiamo che fare.
Lo stato organico è, per definizione, qualitativo, ed in base alle valenze ed alle capacità dei singoli articola le proprie strutture. Esso non necessita pertanto di alcuna maggioranza o consenso che gli garantisca una legittimità demagogica.
La propria legittimazione, lo Stato Organico la trae dal rispetto di quei principi che, soli, possono stare alla base di un vivere civile: l’Onore, la Fedeltà, la Fede, il Sacrificio, l’Eroismo, l’Amore per il Superiore, per l’Ideale, per il Vero.
In questo solco la struttura organica si inserisce, e volendo rappresentare non una banale necessità di arbitrio sociale, bensì un Ordine, si articola in virtù di un superiore centro di sovranità, che, al vertice dello Stato è riconosciuto ed al quale tutto si ordina in scala gerarchica.
Il potere dello Stato Organico non è dunque né il diritto della violenza di una dittatura proletaria marxista, né il diritto del numero delle democrazie liberali, né il potere economico delle oligarchie, né tanto meno lo sfrenato diritto del singolo dell’anarchia: esso è l’autorità della Tradizione e di una millenaria civiltà creatrice, delimitata dall’unica forma di diritto che un autentico uomo può e deve conoscere, il diritto-dovere, la cui controparte è un impegno assiduo, una dedizione non fanatica ma assoluta, sciolta cioè dai vincoli dell’utile contingente, un sacrificio coerentemente accettato. Lo Stato non è dunque un dio che esige sacrifici umani, ma neppure una toppa buona a coprire a piacimento qualsivoglia lacerazione.
Per questo, la sua autorità non è dovuta a sterili giochi di maggioranza, ma neppure a vincoli ereditari di sangue. Lo Stato Organico riconosce sé stesso e la propria guida, una autentica facoltà di comando, un Imperium, insomma, fintanto che la propria azione è vincolata ai principi della Tradizione sulla quale si basa: un minimo tradimento lo condanna alla necessità di un cambiamento radicale. Esso infatti non conosce egalitarismi di sorta, ma neppure privilegi «storici» o di sangue.
Segue nella seconda parte
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