Torniamo, con una nuova puntata, a parlare di Julius Evola nelle inedite vesti di poeta. Intervalliamo oggi la pubblicazione delle poesie giovanili del barone con la prima parte delle pubblicazioni, cui avevamo fatto cenno, di estratti da alcuni scritti successivi, tutti formalmente in prosa, risalenti per lo più agli anni Trenta, incentrati su una medesima, ricorrente tematica, che ha rappresentato un aspetto fondamentale per la vita di Evola: la montagna. Dagli articoli in materia che Evola pubblicò su varie riviste e che furono poi raccolti nella nota antologia “Meditazioni delle vette”, spesso riportanti resoconti di ascensioni e scalate vissute in prima persona da Evola, abbiamo infatti estrapolato dei passi in cui quella vena da poeta che Evola sviluppò da ragazzo in forma più omogenea e composta, prima della disarticolazione connessa all’opzione dadaista, sembra riemergere ancora cristallina ed incisiva, rivelando ancora quella capacità del barone, con pochi, efficaci colpi di penna, di trasportare il lettore in altri lidi, facendogli vivere, talvolta quasi con dei lampeggiamenti in stile haiku giapponese, dei frammenti dell’essenza di quelle esperienze trasfiguranti.
L’esperienza della montagna, come sappiamo, per Evola, è una di quelle esperienze potenzialmente in grado di toccare la parte più profonda del nostro essere, propiziando possibili forme realizzative di ordine superiore. La spiritualità della montagna, ci insegna Evola (e rimandiamo, in tal senso, tra i tanti, all’articolo sul tema che il barone pubblicò inizialmente, proprio con tale intitolazione, sulla “Rivista mensile del CAI” nel febbraio 1936), può essere letta su vari livelli, dal più basso al più alto, che vanno circoscritti “per subordinare via via i punti di vista condizionati ad un punto di vista assoluto“. Rivediamoli insieme brevemente, col commento di Evola: 1) l’interpretazione “puramente «lirica». Evola così la inquadra: “Si tratta del mondo della retorica letteraria e della «poesia» in senso cattivo, cioè in senso di sentimentalismo borghese e di idealismo convenzionale e stereotipo. Qui entra in questione essenzialmente la montagna-panorama vista da lontano con tutti gli aggeggi del «pittoresco» più di dubbio gusto” (da notare il riferimento ad una “poesia in senso cattivo”, che ne salva pertanto una dimensione positiva, buona, efficace); 2) la spiritualità della montagna concepita in termini di mero naturismo, da intendersi come una reazione alle moderne società alienanti, ai ritmi di vita soffocanti, alle metropoli invivibili: il ritorno alla natura (“per una specie di oscuro bisogno di compensazione organico-biologica e anche psichica, per un istinto di rivolta contro una civiltà divenuta sinonimo di arido intellettualismo, di meccanica, di utilitarismo, di conformismo, si è avuto una specie di esodo nella natura e di bisogno assoluto della natura quale anti-città e anti-cultura, presso cui naturalmente la montagna e l’alpinismo hanno avuto una parte importante. Così è sorto una specie di nuovo misticismo primitivista della natura e della vita sportiva in natura“); 3) l’atteggiamento per il quale la spiritualità della montagna e dell’ascesa alpina vien data in termini di semplice sensazione e di eroismo fisico: “si tratta di una delle interpretazioni più diffuse e, in fondo, non banali. La montagna è spirito per tutto ciò che essa implica quale disciplina dei nervi e del corpo, ardimento lucido, spirito di conquista e, insomma, impulso all’azione pura in un ambiente di pure forze”. Si tratta di una dimensione con un alto valore educativo, ma che va sublimato, per andare oltre: “si deve ben riconoscere che lo stesso alpinismo vissuto secondo questo solo spirito non si potrebbe troppo distinguere dalla caccia all’emozione per l’emozione stessa (…) che, alla fine, non significa cosa troppo diversa di una specie di eccitante o di stupefacente, il cui uso ci dice più dell’assenza che non della presenza di un vero senso della personalità, un bisogno più di stordirsi, che di possedersi. Anche l’interesse tecnico dell’ascendere può facilmente degenerare, e non di rado si incontrano degli scalatori portati automaticamente per abitudine a studiare vie di possibile ascesa per ogni dove, perfino di fronte a facciate di palazzi (Evola si riferiva qui al cd. buildering)”;
4) partendo dal dato emotivo, dalla sensazione puramente irrazionale, da concepire come un punto di partenza, come un mezzo e non un fine, si dovrebbe quindi approdare ad una spiritualità vera, liberata, trascendente: “l’uomo moderno dinanzi a ciò che egli sente ha un atteggiamento completamente errato. La sensazione è per lui un fatto che comincia e finisce in se stesso e rispetto a cui egli è passivo. Egli è troppo debole per separare dalla sensazione o emozione l’elemento puramente irrazionale, ciò che in essa si riduce ad una mera impressione o scuotimento dell’anima, e per cogliere in essa, con un atto interiore, qualcosa che valga direttamente e attivamente per lo spirito come conoscenza in senso superiore. E ciò vale anche per l’esperienza della montagna”. Dinnanzi alla potenza elementare della montagna, al “possente messaggio interiore direttamente evidente in tutto quel che la natura alpina ha di più non-umano, quasi di distruttivo e di sgomentante nella sua grandezza, nella sua solitudine, nella sua inaccessibilità, nel suo immane silenzio, nella primordialità scatenata delle sue tempeste, nella sua immutabilità attraverso il monotono susseguirsi delle stagioni e il vano alternarsi delle caligini e dei liberi cieli solari: vicenda infondente il senso più immediato di quel che è caduco e che come tale si eclissa di fronte ad un presentimento dell’eterno”, l’uomo si arresta al mero piano emotivo e subcosciente, che nonostante tutto, gli garantisce quell’ “afflusso quasi sovranormale di energie“, quella “indomabile volontà di procedere ancora, di sfidare nuove altezze, nuovi abissi, nuove pareti“, che può “essere anche stato il segreto delle più grandi imprese di montagna, di quelle che sembrano aver davvero trasceso i limiti delle comuni possibilità umane”. Solo trascendendo questa dimensione puramente psichica, emotiva, sia pure portata al limite, l’uomo potrebbe giungere, tramite l’esperienza della montagna, alla realizzazione interiore di sé in senso trascendente, all’acquisizione di una dimensione permanente, che porti alla “trasformazione dell’esperienza della montagna in un modo d’essere“, che “si lega invece a qualcosa, che non ha principio né fine e che, conquista spirituale inalienabile, fa ormai parte della propria natura, come qualcosa che si porta con sé ovunque a dare un nuovo senso a qualsiasi azione, a qualsiasi esperienza, a qualsiasi lotta della vita quotidiana“.
Si tratta di quell’effetto superiore che Evola, come abbiamo visto più volte, collega al contatto con lo sprigionarsi di forze elementari, come può avvenire in vari dominii, che può condurre potenzialmente ad esiti liberatori in senso superiore, o distruttori-disgregatori in senso inferiore. Ripensiamo alla progressiva perdita della forma nell’arte, in una sorta di processo di elementarizzazione della stessa (Evola notava, a proposito della disintegrazione della forma: “l’uno è il distruggerla e il retrocedere in ciò che sta prima della forma, nell’informe, l’altro è l’andare di là da essa, il passar, cioè, a ciò che alla forma – e in un certo senso anche alla ’bellezza’ nell’accezione più corrente e convenzionale – è superiore”), alla guerra (in cui la liberazione e lo scatenamento di forze elementari potevano far retrocedere nel subumano, o condurre alla sublimazione del proprio ego), alla tecnica (vedi Ernst Jünger e l’Arbeiter), alla sessualità, persino all’esperienza musicale e, appunto, alla riscoperta del contatto con l’elementare in natura (montagna, mare, volo).
Come abbiamo accennato all’inizio di questa avventura nel mondo poetico di Evola, una grande importanza ebbe quella cartolina che Tristan Tzara spedì al barone dal Tirolo austriaco il 3 settembre 1921, in cui l’immagine, su cui Tzara aveva scritto e tracciato dei disegni, avrebbe simbolicamente rivelato, secondo Evola, una tendenza alla trascendenza che avrebbe caratterizzato anche l’artista rumeno: un paesaggio con una vallata, una chiusa, un paesino ed uno sfondo di ghiacciai. Sul campanile a guglia della chiesa, sulla croce, Tzara aveva disegnato, “quasi rosicrucianamente”, come commentò Evola, una rosa che sboccia, e sulla vetta più alta dello sfondo, una mano con l’indice rivolto verso il cielo: come scrisse il barone a Tzara, “sulle costruzioni umane / come risultato della conoscenza / una croce: ma sulla croce della sofferenza, risplende il fiore che avete tracciato: dada sorriso inerte; ma al fondo, sulle montagne, una mano indica in alto, il cielo: il sentiero dell’iperbole” (1). La via alla trascendenza tramite la montagna era tracciata, ed Evola ce l’ha descritta alla perfezione, regalandoci anche delle “pillole” di quella poesia in senso non cattivo, per riprendere il lessico usato dal barone, cioè non legata alla mera retorica letteraria: una poetica delle vette, asciutta, rivelatrice, iperbolica ma composta, sorprendente ma non ridondante.
Abbiamo, in tal senso, estratto dai diversi suoi articoli sulla montagna delle parti in cui, passando dal regime della prosa a quello della poesia, impostando cioè le stesse parole usate da Evola, senza alterazioni di sorta, in versi, si ottiene un risultato sorprendente, dai più mai notato, che ci regala una vera poetica delle vette nascosta inopinatamente tra la rigidità formale della prosa, quasi a indicarci, con quei lampeggiamenti dell’anima cui facevamo cenno, i segreti di quei sentieri e di quelle vie sulla nuda roccia e sui ghiacci impervi, che dai monti conducono direttamente al cielo, che sono, anzi, essi stessi fusione tra vette e cieli. Ne abbiamo ricavato svariati componimenti, cui abbiamo dato un’intitolazione, che via via pubblicheremo, corredati da foto, e che costituiranno sicuramente uno stimolo a scoprire (o a riprendere, per chi già li conosceva) gli scritti di Evola (e non solo) sulla montagna.
Cominciamo con due estratti da “Dove regna il demone delle vette”, articolo in cui Evola raccontò la sua esperienza sulle Pale di San Martino, il gruppo montuoso più esteso delle Dolomiti, con circa 240 km² di superficie, situate a cavallo tra Trentino orientale e Veneto. Nel primo componimento ricavato, è da notare in particolare il climax con cui Evola guida il lettore nel viaggio in auto da Feltre, attraverso Fiera di Primiero, sembra anche fino ad Agordo ed oltre, in una sorta di circonvoluzione spettacolare intorno al Gruppo delle Pale ed alle sue sideree vette, in un incanto che, alla fine, viene spezzato dal disincanto causato dall’approdare a San Martino di Castrozza, “dove l’Alpe non esiste più/è un brano di metropoli mondana“, presso il Grand Hotel delle Dolomiti, “un grande transatlantico ancorato nella penombra“: con pochi, “prosaici versi”, Evola ci trasmette l’essenza di una delle sue più incisive invettive contro l’invasione della montagna da parte delle masse, in un mix micidiale di meccanizzazione, ideologia salutistico-ricreativa e turismo estenuante, con tutte le conseguenze del caso, tra cui la progressiva omologazione del paesaggio montano rispetto a quello delle metropoli, come percepito da Evola dinnanzi alla mole imponente del Grand Hotel. Nel secondo componimento, invece, finalmente libero di avventurarsi sulle Pale, sul loro altopiano e sul celebre, ormai scomparso, ghiacciaio della Fradusta, in un contesto ancora incontaminato, Evola ci comunica, con brevi ma intensi tratti, quanto gli occhi del uso animo riuscivano a cogliere. Buona lettura.
***
di Julius Evola
(estratti da “Dove regna il demone delle vette”,
ne “Il Lavoro d’Italia”, 16.9.1927)
Incanto e disincanto sulle Dolomiti
Già a Feltre
[si arresta improvviso il dominio dei treni,
lentamente trascinati contro questi primi contrafforti delle Dolomiti.
Subentra il regno delle rapide e nude strade,
vibrate ad ampi, flessuosi tratti fra gole e selve.
Calmo e raccolto corale,
nelle luci pomeridiane il gruppo dei monti di Feltre ora si attenua
[e si allontana dietro di noi,
che grosse automobili scarlatte conducono ancora innanzi,
girando e rigirando sagacemente su mezze coste,
su ripe di acque che annunciano già la frescura e la limpidità delle altezze,
su aperture improvvise che riaccennano a declivi e a radure.
Ma dopo Fiera di Primiero e Agordo,
la natura possente della zona alpina si impone inequivocabile
il ritmo delle macchine si appesantisce,
si fa asmatico e nervoso, a scatti
non più fruscio, ma scroscio e rombo lo scorrere delle acque
la vegetazione sempre più serrata e totale:
masse di un verde che il degradare delle luci rende metallico e profondo.
E fra vapori esalati dalle valli, e un cielo alto e pallido,
ecco che ad una ad una appaiono,
nel giuoco mutevole di prospettive generate dalla nostra velocità,
le grandi vette del Gruppo delle Pale:
Sass Màor, Cresta della Madonna,
Cima di Bal, Rosetta, Cimon della Pala
forme nude e tragiche,
d’una purità titanica,
elementari
si direbbe che la terra stessa vi si esprima
[nella sua natura siderea e sovrana,
senza attenuazioni né contaminazioni di nulla che sia umano

Le Pale di San Martino sotto la luna, arrossate al tramonto (fenomeno noto come enrosadira) (2)
Le vette,
ora che il sole declina negli avvallamenti dell’Ovest,
si caricano di riverberi
divengono antiche e gloriose
Sono oro e porpora che splende in sé stesso,
nel cielo puro ancor più alto e lontano.
Lentamente sale verso di esse la massa diafana dei vapori,
che le valli e le selve emettono nell’attesa della sera.
La nostra via, che si immerge nell’abetaia,
di colpo le abolisce
Non risorgono che quando le nostre macchine,
liberandosi del bosco con rudi zig-zag
sboccano a San Martino di Castrozza.
Allora tutta la zona superiore è del color del sogno:
un indefinito in cui soli, sospesi fra i vapori e il cielo,
di un medesimo colore cinereo e filigranato,
permangono gli apici delle vette.
Luminosità disincarnate,
sono come dei ricordi, come delle nostalgie,
come degli chi immateriali
Sussistono così,
inverosimilmente in alto,
mentre l’aria si fa fredda, secca, tagliente.
Le macchine si arrestano
Grand Hotel delle Dolomiti
un grande transatlantico ancorato nella penombra
Luci splendenti, allineate, regolari
trasformazione subitanea:
l’Alpe non esiste più
è un brano di metropoli mondana
eleganze, smoking per il pranzo, grooms,
in un tepore artificioso
Primi sobbalzi del ritmo menadico dello jazz

Il “Grand Hotel des Alpes” sotto il Cimone della Pala, a San Martino di Castrozza, in una cartolina d’epoca (la struttura è ancora perfettamente funzionante, come albergo di lusso a quattro stelle): il “transatlantico ancorato nella penombra” descritto da Evola, esempio dell’artificiosa, violenta trasposizione della metropoli in montagna
L’altopiano delle Pale
Sentieri alpestri dalla zona delle abetaie
portano alla zona dei ginepri,
e infine a quella delle nude rocce dolomitiche
scheggiate, saettate da canaloni
[e da ghiaioni di un bianco-calce abbacinante
sboccano sull’altopiano delle Pale,
limite ultimo dei più arditi
una esperienza senza pari, unica, impressionante
è il senso come di un deserto lunare immobile,
uniforme e senza distanza
null’altro che roccia nuda per chilometri
levigata,
in un colore unico fra la pomice e l’argento opaco,
priva di riflessi,
arida, senza vita,
senza suono, senza moto
chiazze di nevai qua e là,
ora abbaglianti,
ora preziosi, jalini (3)
più in fondo, un ghiacciaio: la Fradusta (4).
E’ veramente qualcosa che percuote,
che lascia nell’animo un indicibile
[e indelebile senso di sgomento e di grandezza
E il silenzio,
nella notte, assoluto,
e la detersa volta celeste,
così possente,
così vertiginosa,
così solenne!

L’Altopiano delle Pale, con in primo piano una porzione del ghiacciaio Fradusta, celebrato da Evola e, in fondo, l’omonimo lago. L’immagine risale al 2012: oggi il ghiacciaio è praticamente scomparso (5)
Note:
(1) tratto da “Lettere di Julius Evola a Tristan Tzara”, a cura di Elisabetta Valento, Fondazione J. Evola, Roma 1991, pp. 44-48; lettera riportata in calce al capitolo II de “Il cammino del cinabro”, edizione riveduta, 2014, Edizioni Mediterranee.
(2) free image from wikipedia, under Creative Commons Attribution-Share Alike 2.5 Generic license (author: Stefano Merler –Merlo – and Monica Dallabona);
(3) jalino è da intendersi nel senso di trasparente e lucente come il quarzo (cfr. nota del curatore in Meditazioni delle Vette, Edizioni Mediterranee, parte prima, cap. I);
(4) da notare che Evola nell’articolo in oggetto, sbagliando, scrisse “Fredusta”;
(5) free image from wikipedia, under Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported license (author: Svíčková)
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