Gentile non è il nostro filosofo (I parte)

(Tratto da Ordine Nuovo, a. I, n. 4-5, luglio-agosto 1955)

di Julius Evola

 

Se la norma di saggezza rispetto a tutto quanto accade oggi non fosse quella della impassibilità, sarebbe motivo di una pena profonda il gran parlare che, in certi ambienti, da qualche tempo si fa intorno a Giovanni Gentile. Non si tratta del “rifiorire degli studi gentiliani” fra gruppetti di sparuti e insignificanti epigoni dell’idealismo. Si tratta piuttosto del tentativo di far apparire il Gentile come il “nostro” filosofo e come il simbolo ideale di un periodo della storia italiana al quale si intende restare fedeli.

Appunto penoso, a tale riguardo, è lo spettacolo di una conformismo supino e irriflesso: perché alle “celebrazioni gentiliane” abbiamo visto prender parte non solo “gerarchi” del M.S.I., specie di quelli che hanno ambizioni “intellettuali” o che risentono di studi compiuti sotto l’influenza crociano-gentiliana, ma anche giovani, che fin dall’anno scorso di loro iniziativa hanno organizzato convegni e conferenze sul “Maestro scomparso”. Tutto ciò è ben poco edificante, accusando una profonda mancanza di princìpi e di coraggio intellettuale.

L’uomo

mussoli-giovanni-gentileNel parlare di Gentile, è doveroso distinguere l’uomo dal filosofo. La fine tragica del Gentile non può né deve servire da avallo alla sua dottrina. Di rigore, il Gentile, più che un martire, è stato una vittima, vittima di un vile e inconcludente gesto intimidatorio. Non dubitiamo però che quand’anche il Gentile avesse preveduto il pericolo a cui lo esponeva il suo aderire al secondo fascismo, egli probabilmente non avrebbe presa una via diversa. In fatto di “carattere”, “coerenza”, si può tributare al Gentile un riconoscimento.

Me, evidentemente, le prove di carattere, ciò che lo stesso Gentile spesso ha esaltato come «coraggio civile», nulla hanno a che fare col valore intrinseco di una dottrina. La cosa riguarda esclusivamente l’individuo, non il contenuto di verità e la dignità di un’idea. Lo stesso Croce fu, a suo modo, un “uomo di carattere”, non meno di qualche comunista o liberale che avendo ieri affrontate le conseguenze del proprio atteggiamento potrebbe aver diritto allo stesso riconoscimento.

Però se il gesto di adesione al fascismo anche nel punto in cui esso rappresentava la partita perdente fu, nel Gentile, una prova di coerenza morale, essa fu in pari tempo un atto di incoerenza teoretica, perché lo “storicista”, il teorico dell’identità del reale col razionale, dell’“essere” col “dover essere”, avrebbe dovuto schierarsi dalla parte opposta dichiarandola, appunto perché vincente, corrispondente alla «concretezza in atto della storia», e considerando l’esperienza precedente come un «momento dialettico superato». Ma, a parte l’ultima fase, alcuni vorranno ricordarci la figura del Gentile quale “filosofo del fascismo”. Ora, di un “filosofo del fascismo” al singolare non è il caso di parlare; al massimo, vi è da parlare di “interpreti” del fascismo. Il Gentile fu accettato da Mussolini e occupò durante il ventennio cariche di rilievo, che gli dettero modo di affermare, spesso in modo poco simpatrico, la sua filosofia. Ma questa filosofia mai ricevette il crisma di una “ortodossia”, mentre nel fascismo non furono pochi quelli che del gentilianesimo furono nemici acerrimi o, almeno, che lo considerarono come una inutile escrescenza filosofica: e costoro non vennero mai sconfessati dal Regime.

La libertà guida il popoloQuanto alla interpretazione gentiliana del fascismo, essa, in un esame oggettivo, appare fra le più problematiche e fra le meno favorevoli: e veder questo, è cosa d’importanza fondamentale, oggi, per coloro che, ai fini di un adeguato orientamento politico, debbono saper discriminare fra le varie tendenzialità comprese nella rivoluzione delle Camicie Nere. Qui entra il questione la sostanza umana, l’“equazione personale” e “sociale” dello stesso Gentile. Il quale, in tutto e per tutto, fu un esponente della borghesia intellettuale a tinte patriottarde, erede del Risorgimento. Malgrado certe sfumature nel senso dell’autoritarismo, il suo pensiero è della stessa sostanza di quello laico-illuminista e antitradizionalista-massonico, che cementò la rivoluzione del Terzo stato. Il Gentile è colui che esaltò i «Profeti (sic) del Risorgimento», a partire da una figura così sinistra come il Mazzini; è colui che, quando parla della «dignità che l’uomo si è conquistata pensando», riflette più o meno direttamente la mentalità del ʼ48 in funzione sovversiva ed eversiva rispetto a tutto ciò che fu proprio delle precedenti civiltà istituzioni del Primo e del Secondo Stato.

Ora, l’interpretazione del Gentile vide nel fascismo una specie di continuazione e di integrazione del Risorgimento e della «tradizione italiana» quale l’ha confezionata una storiografia di intonazione massonica. Se invece, come noi pensiamo, la tendenzialità più alta del fascismo fu quella “romana”, fu l’anti-Risorgimento, fu la riaffermazione sul nazionalismo generico, erede del ʼ48, di una idea politica analoga a quella germanica, avente per sua logica conclusione l’ideale dell’Impero – allora si deve dire che per una tale tendenzialità il Gentile non ebbe, né poteva avere, alcuna comprensione. Il suo autoritarismo, mentre da un lato è pregiudicato dalla clausola idealistica (l’autorità che esiste solo attraverso l’atto dell’individuo che la “pone”, identificandovisi), riflette in sostanza la forma mentis antipatica da preside di liceo: come lo diremo più giù, parlando dello “Stato etico”, esso non ha nessun riferimento con “valori di razza”, vogliamo dire con ciò che può procedere dai tipi differenziati del vero Signore, dell’asceta o del guerriero.

Mussolini in visita alla sede dell'Istituto Treccani. Tra i presenti, lo stesso GentileComunque, il punto fondamentale da mettere in rilievo è questo: anche ciò che il Gentile ha difeso nel periodo fascista rifacendosi al nazionalismo o al corporativismo non si deduce affatto in modo univoco dalla sua filosofia, ma è materia tratta da ciò che, in gergo idealistico, si chiama l’ “empiria”. È perché l’uomo Gentile si trovava ad avere certe predisposizioni che gli fecero apparire di suo gusto il fascismo quale egli si sforzò di interpretarlo, è solo per questo che nei suoi scritti si possono trovare qua e là cose di gradimento per coloro che oggi appartengono ad una “opposizione nazionale” di tipo generico e che si accontentano delle forme più elementari di una polemica antindividualista e anticomunista. Ma deve restare ben fermo che la stessa filosofia potrebbe sanzionare in egual misura le idee più opposte. Così, nella sua essenza speculativa, il gentilianesimo non differisce dal crocianesimo che nei dettagli; solo l’ “equazione personale” ha fatto del Gentile un fascista, del Croce un antifascista, mentre troviamo, oltre a ciò, un Guido De Ruggiero che, pur essendo fervente gentiliano, restò fino all’ultimo antifascista liberale. E a tal riguardo si ebbe, nel ventennio, un episodio davvero poco edificante: un intelligente critico antifascista, Adriano Tilgher, si trovò più o meno sul selciato per aver mosso un attacco velenoso, ma tutt’altro che peregrino, contro il Gentile allora al potere, nel libretto Lo Spaccio del Bestione trionfante[1]; le porte della stampa però gli si riaprirono quando gli venne in mente di usare, in un altro libretto, Storia e antistoria[2], contro l’antifascista Croce gli stessi argomenti che aveva usato contro il fascista Gentile.

Non si può dire che in ciò il fascismo facesse buona figura. Ieri come oggi, occorre distinguere due criteri: l’uno settario e irrazionale che si basa sull’“essere o no con noi” dell’uomo; l’altro è quello per cui non si guarda all’uomo, ma al pensiero e alla visione della vita che egli professa e alla aderenza oggettiva di questa ad una precisa dottrina dello Stato; solo in base a ciò si conterà o no il singolo individuo fra “i nostri”. È perché i due criteri vengono confusi e perché una rigorosa dottrina politica nelle “forze nazionali” di oggi è tuttora un pio desiderio – è per questo fatto che si è avuto il poco edificante spettacolo delle “celebrazioni gentiliane”.

Per cui, s’impone una chiarificazione quanto al titolo del presente scritto, ove il “nostro” è solo occasionale. Il Gentile potrà anche trovare riconoscimento fra i fautori attuali di un nazionalismo patriottardo, borghese e conciliante (“pacificazione nazionale”, “disarmo ideologico”); il Gentile come filosofo sta però in netta antitesi rispetto a chi, per un’opera di radicale ricostruzione, si ispiri ad una visione tradizionale della vita. È da questo secondo punto di vista che si giustificano le brevi considerazioni che seguiranno.

Note:

[1] Libreria Politica Moderna, I, 1925 (N.d.C.).

[2] Biblioteca editrice, 1928 (N.d.C.).

 

 

 

CONTINUA…


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"In una civiltà tradizionale è quasi inconcepibile che un uomo pretenda di rivendicare la proprietà di una idea e, in ogni caso, in essa chi così facesse, con ciò stesso si priverebbe di ogni credito e di ogni autorità, poiché condannerebbe l’idea a non esser più che una specie di fantasia senza alcuna reale portata. Se una idea è vera, essa appartiene in egual modo a tutti coloro che sono capaci di comprenderla; se è falsa, non c’è da gloriarsi di averla inventata. Una idea vera non può essere «nuova», poiché la verità non è un prodotto dello spirito umano, essa esiste indipendentemente da noi, e noi abbiamo solo da conoscerla. Fuor da tale conoscenza, non può esservi che l’errore" (R. Guénon)

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