Gentile non è il nostro filosofo (II parte)

(Tratto da Ordine Nuovo, a. I, n. 4-5, luglio-agosto 1955)

di Julius Evola

 

(Continua da I parte)

 

Divenirismo e illuminismo

In occasione della morte di Benedetto Croce, l’Osservatore Romano ebbe coraggiosamente a chiedersi se, la sua, era proprio «vera gloria»; e mise in rilievo che l’attitudine del Croce rispetto a tutto ciò che è trascendenza, mondo del sacro e tradizione positiva non fu diversa da quella dei “liberi pensatori” illuministi. Lo stesso può valere per il Gentile, malgrado le proteste e la pretesa che, quando si tratti del “vero” cattolicesimo (il “vero” serve ad indicare la cosa cucinata ed alterata a modo proprio), egli è perfettamente cattolico. In realtà, la categoria del “sacro”, nel pensiero idealista, epperò anche nel Gentile, è inesistente; qui il mondo è assunto sotto specie di “concetto”, di pensiero riferito al soggetto, non come manifestazione e simbolo di una realtà trascendente e superrazionale (questa fu invece la premessa di tutte le civiltà di tipo tradizionale e delle loro istituzioni). Il Gentile sta sulla stessa linea dell’impertinenza presuntuosa hegeliana, per la quale la religione sarebbe solo il “momento oggettivo” dello “Spirito Assoluto”, un grado ulteriore e irriflesso da superare nella filosofia idealistica ove soltanto lo spirito perverrebbe alla vera consapevolezza di sé e della sua “infinità”. Ciò, in parole povere, vuol dire il professore universitario esaltato come tipo superiore rispetto al sacerdote, all’asceta, al teologo, all’iniziato, al pontifex regale o sacerdotale. Costui, in quanto “idealista”, e non il professore di un sapere esoterico («la sapienza riposta dagli Antichi» di cui parlava il migliore Vico, non il “nostro” Vico, trasformato dal Croce e dal Gentile in un precursore dello storicismo e dell’estetica idealistica), dovrebbe indicare la verità di ciò che si cela dietro ai dogmi, ai riti e ai simboli: tutte cose queste, per le quali, in realtà, l’“idealista” ha la stessa incomprensione dell’ultimo dei profani.

evola pensanteCome un esempio particolare, la desolazione della concezione idealistica appare evidente in ciò che il Gentile dice nell’ultimo suo libro (Genesi e struttura della società[1]) a proposito dell’immortalità. Ogni vero aldilà è negato. Come la morte è un’astrazione, ovvero un «fatto sociale» (si è morti per qualcuno), così lo è l’immortalità (si sussiste solo nel pensiero dell’unico soggetto pensante). L’Io come pensiero è «libero ed infinito», quindi il problema dell’immortalità è bell’è risolto. La trascendenza di un altro mondo si riduce al mero pensiero che se ne ha in quest’esperienza di uomini, nella quale il corpo è un “momento” imprescindibile (tanto che, secondo il Gentile, la Chiesa ha dovuto ricorrere all’«ingenua concezione» della «resurrezione della carne»). È da chiedersi se l’illuminismo radicalista, quando nega senz’altro l’aldilà e proclama la religione dell’uomo terrestrizzato, non sia assai più onesto del gentilianesimo.

Nell’insieme, l’“attualismo” gentiliano non è che una varietà spuria della mistica moderna del divenire. Non solo: si riflette, in esso, su di uno sfondo cosmico, la mentalità del self-made man e dell’homo faber di oggi. Lo spirito non è più “essere” – essere olimpico. Lo spirito invece non è, se non “si fa”, se non “si crea”, momento per momento, dal nulla: così subisce il destino di un perenne divenire, di un generarsi e divorarsi, di un affermarsi e negarsi privo di sosta e di sostanzialità. In quanto poi lo spirito viene identificato al pensiero (esso diviene l’«auto concetto»), questo divenire si svolge nel ritmo di «superamenti dialettici», di posizioni e negazioni senza fine del pensiero. Così mentre il Gentile è pronto ad accusare con presunzione la «superata metafisica» e a denunciare i «residui dogmatici di un pensiero acritico», ecco che lui stesso fa della metafisica, e della peggiore, dando come mero dogma la legge dialettica da lui ripresa da Hegel, per via della quale lo spirito «non sarebbe» se ad un «in sé» non contrapponesse un «per sé» (un oggetto, sé oggettivato), per superarlo, poi, in-un-in-sé-e-per-sé, ritrovare il soggetto nell’oggetto, e così via. Una ragione sufficiente di una tale “legge” – diciamo meglio: di un tale destino – nella filosofia in quistione non la si trova: è un semplice riflesso di un’epoca metanizzata, appunto,  dal “fare”, dal “divenire”, dal produrre, dall’irrazionale “fuga in avanti”.

Del resto, nell’“attualismo” gentiliano si riflette anche il progressismo e l’evoluzionismo, queste fisime dell’èra borghese, benché privati di qualunque punto concreto di riferimento, perché il processo dell’“autofarsi” e dell’ “auto pensarsi” è indefinito. Si è che, malgrado tutto, l’illusione dell’“andare avanti”, in genere, sussiste. E l’utopismo ottimista si ritrova esso stesso nella teoria del male e dell’errore del Gentile. Il soggetto dell’esperienza, o “atto puro”, essendo tutto, egli è anche l’autore del male e dell’errore. Il male e l’errore sono “posti” dallo stesso Io, come “momenti dialettici”; non hanno dunque una realtà in sé, non sono davvero male e errore, perché servono all’ “autofarsi dello spirito” – in parole povere: tutto va a lieto fine, tutto ci porta avanti, tutto è giustificato “dialetticamente” ed è di confezione propria. Non basta: il Gentile giunge a dire che nello spirito in atto non esiste né il male, né l’errore, né l’abiezione: idee o azioni presentano tali caratteri solo quando sono assunte “astrattamente”, quando divengono dei “pensati” superati. Così mentre la concezione gentiliana esclude qualsiasi ordine di princìpi superiori, liberi dal tempo e dal divenire (cioè i princìpi che, non per ultimo, costituiscono la premessa per ogni autorità legittima, per ogni positiva gerarchia, per ogni stabilità), del pari essa abolisce ogni reale antitesi fra bene e male, toglie la base stessa a quella lotta metafisica fra due mondi inconciliabili, che ebbe parte essenziale in ogni concezione tradizionale della storia, dall’Iran e dall’Ellade fino ai Germani. Al luogo di ciò, si ha la farsa dell’Io che deve porre anche il male, altrimenti non potrebbe “farsi” in questa specie di insulso auto inseguirsi.

Di rigore, nell’indefinito correre (a ritmo dialetticamente sincopato) dell’“atto puro” non dovrebbe essere possibile una discernibilità, una qualsiasi discriminazione di valori storici: ogni punto dovrebbe avere lo stesso valore di un altro (oppure lo stesso non-valore di un altro, quando non è “pensato attualmente”). Ma non è così. Di là dal puro divenirismo, in simili filosofie si afferma lo storicismo come una ben precisa filosofia della storia succube delle concezioni rivoluzionarie e illuministe del Terzo stato.

L’interpretazione della storia del Gentile riprende, nell’essenziale, risorgimentoquella hegeliana, dandovi però tinte radicaliste e illuministe assenti nel filosofo dello Stato prussiano. La civiltà antica la si liquida col verdetto: mera civiltà dell’«essere», ove il soggetto sviluppò una «filosofia del pensato» e fu incapace di pervenire alla coscienza di sé come «pensante». È col cristianesimo che si sarebbe cominciato a scoprire la “soggettività” e l’interiorità (si interpreta immanentisticamente il «Regno dei cieli è entro di voi» lasciando tutto il resto, ignorando tutta la negazione, propria al cristianesimo, dell’etica virile classica e della saggezza pagana). Per il Medioevo, il giudizio degli idealisti è più o meno quello dell’illuminismo massonico e enciclopedista: epoca tenebrosa di despotismo religioso e politico. Nel dominio del pensiero si salva sì e no S. Agostino, mentre l’avversione per la Scolastica è precisa (il termine «residuo del sostanzialismo medievale» o «scolastico» è fra i preferiti, nel gergo idealistico). È con Giordano Bruno, col Campanella e simili, che si comincia a veder luce. Dopo di che, esaltazione incondizionata della civiltà della Rinascenza e dell’umanesimo, con le relative, bolse formule: «scoperta dell’uomo» e della «dignità del pensiero», «celebrazione della vita», ecc.. Dove conduca tale direzione, ce lo si può immaginare: se non proprio agli immortali princìpi dellʼ89 (a ciò, l’“equazione personale” di Gentile borghese e “benpensante” opponeva un non possumus), certo ai “Profeti del Risorgimento”, dopo che in sede speculativa, con l’idealismo assoluto della filosofia romantica tedesca il pensiero per la prima volta si era reso cosciente della sua «infinità e creatività». Ma non ci si arresta qui. Per la stessa logica, per cui il liberalismo doveva dar luogo alle correnti radicaliste e socialiste, la formula ultima del pensiero gentiliano è quella del cosiddetto «umanesimo del lavoro». Bisogna – dice il Gentile – che «l’alta dignità che l’uomo pensando aveva scoperta nel pensiero (si tratta, cioè, delle “conquiste” del pensiero liberale), venga estesa anche la lavoratore» […] «l’uomo reale, che conta, essendo l’uomo che lavora, e secondo il suo lavoro vale quello che vale». […] «All’umanesimo della cultura, che pur fu tappa gloriosa (!!) della liberazione dell’uomo (!!), succede oggi, o succederà domani, l’umanesimo del lavoro»; formula, questa, che collima esattamente con la tesi della storiografia marxista (prima rivoluzione borghese, poi rivoluzione socialista). L’atto di fede dell’ultimo Gentile è preciso:

«Nessun dubbio che i moti sociali e i paralleli moti socialisti del XX secolo abbiano creato questo nuovo umanesimo, la cui instaurazione come attualità e concretezza politica è l’opera e il compito del nostro secolo».

E, ancora, queste parole del suo “Discorso agli Italiani” (1943):

«Chi oggi parla di comunismo in Italia, è un corporativista impaziente delle more necessarie di sviluppo di una idea».

Già in precedenza Ugo Spirito e Volpicelli, gentiliani di stretta osservanza, avevano bandito la teoria del “corporativismo integrale”, miscuglio fra statalismo totalitario e sindacalismo radicalista collettivizzante: cosa che fece chiedere a più d’uno, se il fascismo si trovasse sulla via di Mosca.

Il quadro è, dunque, abbastanza chiaro: di là dalla fumosa teoria dell’«atto puro» e dal fantasmagorico, illimitato «farsi» dello spirito, in sede di storiografia il limite finale del “progressismo” gentiliano è appena diverso dal quello dell’“umanesimo integrale” bandito dagli intellettuali comunisti, l’orizzonte restando quello grigio e tetro, da fabbrica, non più nemmeno della civiltà del Terzo stato, ma addirittura della civiltà del Quarto stato, con divinificazione del lavoro e della produzione. La dialettica vera, non sofisticata, della storia ultima si tradisce nello stesso Gentile, nella tendenzialità  –  ben chiara nelle parole citate  –  dell’ideologia liberale-borghese a trapassare anche in lui quella proletario-sociale.

Le reticenze o le resistenze del Gentile a tale riguardo sono inconsistenti. È inutile dire che l’umanesimo del lavoro, il quale conoscerà funzioni e interessi differenziati, supera l’astratto concetto dell’uomo e del cittadino proprio alla Rivoluzione francese. Infatti questa differenziazione è relativa, trattandosi di mere funzionalità e competenze all’interno del solo mondo del lavoro. La vera differenziazione è invece quella propria alle classi, ai corpi, agli Ordini, alle caste del mondo tradizionale, nella vera gerarchia qualitativa del quale tutto ciò che è lavoro o produzione veniva giustamente relegato negli strati più bassi e condizionati dell’organismo politico. Ma questo mondo è “storicamente superato” nella visione del Gentile e dei suoi seguaci e, in quanto appartenente “idealmente” al passato, secondo la equazione gentiliana, lo si può senz’altro identificare all’errore, al male, all’abiezione.

Note:

[1] Sansoni, 1943 (N.d.C.).

 

CONTINUA…

 

 


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"In una civiltà tradizionale è quasi inconcepibile che un uomo pretenda di rivendicare la proprietà di una idea e, in ogni caso, in essa chi così facesse, con ciò stesso si priverebbe di ogni credito e di ogni autorità, poiché condannerebbe l’idea a non esser più che una specie di fantasia senza alcuna reale portata. Se una idea è vera, essa appartiene in egual modo a tutti coloro che sono capaci di comprenderla; se è falsa, non c’è da gloriarsi di averla inventata. Una idea vera non può essere «nuova», poiché la verità non è un prodotto dello spirito umano, essa esiste indipendentemente da noi, e noi abbiamo solo da conoscerla. Fuor da tale conoscenza, non può esservi che l’errore" (R. Guénon)

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