(Tratto da Ordine Nuovo, a. I, n. 4-5, luglio-agosto 1955)
di Julius Evola
Riduzione all’assurdo dell’idealismo
Non occorre essere anti-idealisti per essere antigentiliani (e anticrociani). Si può dire che è soltanto per ignoranza o per un provincialismo intellettuale che, da noi, codesti “filosofi” hanno potuto esser presi sul serio e possono essere stati ammirati. Bisogna non aver studiato direttamente (come noi l’abbiamo fatto) i grandi sistemi dell’idealismo trascendentale tedesco, bisogna non averne conosciuto i problemi immanenti che condussero, ad esempio, di là da Hegel, al “secondo” Fichte e al “secondo” Schelling, a Schopenhauer e allo stesso von Hartmann, per non rendersi conto che Croce e Gentile non sono che due sparuti epigoni, il cui unico merito è di aver condotto all’assurdo le posizioni dell’idealismo assoluto, fino ad un vero e proprio collasso speculativo.
In altra sede, di ciò abbiamo data una esauriente dimostrazione. Qui basterà indicare sommariamente il punto centrale, dal quale si può vedere come un gentilianesimo coerente sbocca in una filosofia ignava della rinuncia interiore o del fatto compiuto.

Gentile e Croce, le due facce del neoidealismo: il primo aderì al fascismo, il secondo rimase liberale e antifascista
Il punto di partenza dell’idealismo lo ha costituito la cosiddetta «teoria criticistica della conoscenza», riassumibile nell’abbastanza lapalissiano esse est percipi del Berkeley, cioè: concretamente, possiamo parlare solo della realtà di quel che percepisco, o penso, o imagino o, comunque, mi rappresento. Così come punto centrale di riferimento per ogni certezza viene posto il soggetto conoscente o pensante. Questo soggetto in Kant diviene l’“io penso” in universale, in Fichte diviene l’Io trascendentale e, infine, nel Gentile diviene il “Logo” o “autoconcetto” o “atto puro”. Ma qui interviene una vera mistificazione: dall’idea abbastanza banale, che ci si trova chiusi nel cerchio di ciò che, in un modo o nell’altro, io penso, sperimento o suppongo, ecco che si passa all’idea che l’Io, quasi come un Dio, è il libero, volontario creatore di ogni contenuto di una tale esperienza. È evidente, e stupefacente, qui, la confusione fra l’Io come semplice soggetto conoscente, e l’Io come libertà e volontà. Io posso anche dire che il percepito o il rappresentato non esiste fuori dall’atto del mio percepirlo o rappresentarmelo («il mondo è la mia rappresentazione»), ma quanto a dire (fuor che nei ristrettissimi limiti di certi domini mentali e culturali, e solo in parte sociali e storici) che quel che percepisco l’ho anche «posto», liberamente e volontariamente – ciò è evidentemente tutta un’altra cosa. Il gentilianesimo qui se la cava con la teoria della «volontà concreta» o della «storicità dello spirito», la quale è una autentica mistificazione. Vi è una infinità di cose che accadono, ma che io non voglio né desidero per nulla. E allora? Allora il Gentile vi viene a dire che voi non le volete che in quanto «soggetto empirico» e «volontà astratta»; invece le volete perfettamente in quanto Io-atto-puro, nella cui «volontà concreta» e nella cui «storicità» il reale e il voluto, l’atto e il fatto fanno tutt’uno. Ad un tale Io fantasticato, io quale soggetto empirico (ossia quello che veramente sono) dovrei adeguarmi. Il risultato è questo: che per poter «immanentizzare» e riportare ad un ipotetico Io trascendentale tutto ciò che esiste, sono condannato a riconoscere come “mio” e come “voluto da me” anche ciò che meno voglio e che semplicemente subisco. L’unica etica deducibile logicamente da tale filosofia, è dunque quella pronta a sanzionare ogni capitolazione interiore, ogni conformismo, ogni imbelle accettazione del fatto compiuto – con ugual prontezza, però, ad accordare lo stesso riconoscimento al fatto compiuto opposto di domani, quando esso riuscisse a scavalcare quello di oggi.
Prendiamo un esempio drastico dal dominio più banale: il gentiliano messo alla tortura dovrebbe riconoscere che la sua «volontà concreta» è quella di chi lo tormenta, mentre la sua volontà che si ribella e patisce sarebbe solo del suo io empirico e «astratto», solo per il quale la realtà può esser diversa dalla volontà. Al più, quel gentiliano potrebbe consolarsi pensando che si tratta di un «momento negativo» posto dallo stesso spirito (senza consultare menomamente l’interessato) per un «superamento dialettico». E se il «soggetto empirico» in tale circostanza dovesse lasciarci la sua vita, parimenti «empirica», l’ultima sua consolazione sarebbe quella immortalità che, per il Gentile, si riduce al sussistere nel pensiero di altri, in una «società trascendentale» che è semplicemente quella terrena degli uomini mortali.
Inutile, poi, dire, che conseguenze deleterie possono derivare da questa dilettantesca filosofia da prestigiatori quando si passa nel dominio sociale e politico. E non si potrà non convenire in quel che dicemmo al principio, cioè che non in base alla etica della sua filosofia, ma in contrasto con essa, che il Gentile continuò ad essere fascista quando la “storia”, evidentemente, stava rendendo “antistorico” il fascismo, perché reale, e quindi giusto, vero e razionale essa, con l’aiuto degli Alleati, stava facendo divenire l’antifascismo. Presa nella sua coerenza, l’etica dell’“atto puro” può solo essere quella dei senza-carattere, dei conformisti o degli inutili laudatori di coloro che s’impongono e fanno davvero la storia.
Lo Stato Etico

“Il totalitarismo in veste di Stato etico lo si può paragonare al pedagogo con la frusta in mano che s’immischia dappertutto”
Un ultimo punto vogliamo toccare, la teoria del cosiddetto Stato etico. Questa teoria appartiene allo stadio “totalitario” del Gentile e risente di quel carattere di transizione fra due fasi successive della sovversione antitradizionale, che traspare in tutto il pensiero del filosofo di Castelvetrano.
Bisogna tener presente che l’autonomizzazione e l’assolutizzazione della sfera “morale” rispetto ad ogni più alta sfera ha già contrassegnato, nella civiltà occidentale, una fase di decadenza, legata prima al puritanesimo protestante, poi alle ideologie laiche e sociali fiancheggianti la rivoluzione del Terzo stato e l’avvento della civiltà borghese.
Gli stati forti, dinamici, tradizionali conobbero valori spirituali, eroici e ascetici, non valori “etici” e, ancor meno preoccupazioni moralizzatrici. Non un canone di morale, ma il prestigio naturale di veri capi, di nature superiori (le quali spesso, dal punto i vista moralistico e virtuosistico, lasciavano moltissimo a desiderare) costituiva il centro. Fu la società borghese a divinificare la morale. E alla fine questa spuria divinità doveva essere messa al vertice dello Stato, pensandosi così di assicurare ad esso un carattere superiore a quello proprio alla concezione agonistica, puramente laica o giuridicistica della cosa pubblica.
Ciò che ne deriva è il falso autoritarismo (quello che il Croce chiamò della “morale governativa”) e la forma più odiosa di “totalitarismo”. Il totalitarismo in veste di “Stato etico” lo si può paragonare al pedagogo con la frusta in mano che s’immischia dappertutto, persuaso di avere non solo il diritto, ma anche il dovere di “educare” e “perfezionare” gli individui trattandoli come bambini, senza alcun rispetto per l’altrui libertà e personalità. È l’ideale politico che può vagheggiare un preside di liceo con velleità paternalistico-dittatoriali (qui si tradisce di nuovo la “equazione personale” del Gentile) o un sergente istruttore. È lo Stato che si può ben chiamare “seccatore”, perché non conosce limiti per una petulante ingerenza del pubblico nel privato, per un insopportabile controllo virtuosistico e riformistico, ove ha anche parte essenziale la fisima che il popolo possa divenire diverso da quello che è sempre stato e che, fondamentalmente, sempre sarà. Su tale piano, aspetti non simpatici che (bisogna riconoscerlo) furono propri allo stesso fascismo e che la teoria gentiliana in discorso sanzionò, s’incontrano con quelli che, mutatis mutandis, si ripresentano nell’attuale regime di dittatura moralizzante democristiana.

Gli uomini e le Rovine (1953), opera in cui Evola si soffermò sulle differenze tra Stato organico e Totalitarismo
Circa l’opposizione tra cotesto Stato etico e l’ideale organico e aristocratico dello Stato, vale appena dire. Nel secondo non si tratta di rapporti da educatorio, ma di rapporti spontanei e naturali da inferiore a superiore; non si tratta di obbedire a valori “morali” astratti, ma ad un Capo che si pone come centro di relazioni di lealismo e di fedeltà che lascia ampi margini di autonomia, che desidera che ognuno e ogni gruppo sviluppi il proprio naturale modo d’essere, in forme ben distinte, curando che tutto si armonizzi in una specie di sinergia, procedendo ad interventi – a risoluti interventi avvertitori – solo in caso di emergenza o di palese prevaricazione: anche in tali casi facendo bene apparire una naturale autorità come controparte del potere assoluto. Come, secondo un detto da noi più volte citato, il vero Capo di uno Stato tradizionale ama avere uomini liberi perfino in coloro che lo servono. Ciò vuol dire vero rispetto umano, all’opposto di quella degradazione dello Stato in una scuola caserma, che è propria alla teoria dello “Stato etico” totalitario: nel quale, peraltro, con un singolare capovolgimento, chi era partito dalla pretesa di obbedire solo alla sua legge interna (la societas sive status in interiore hominis, cioè lo Stato “interiore” il quale non esiste se io non lo “pongo” per me), finisce col non aver più che la parte di uno scolaretto, o al più del “primo della classe” – in attesa che dalla fase della scuola-caserma con relativa “moraliz[zazione forzata”, si giunga a quel]la[1] ancor più gloriosa della fabbrica-caserma, vera conclusione – a parte i residui patriottardi e borghesi e a parte le mere frasi – dell’ultimo pensiero gentiliano, di quello dell’ «umanesimo del lavoro» e della «eticità del nuovo Stato del lavoro».
***
Possiamo concludere. Nella fumosa filosofia del Gentile non vi è nulla che si rifaccia ad un piano superiore non diciamo di spiritualità, ma nemmeno di austera speculazione. Ripetiamo dunque che si potrà rispettare l’uomo Gentile per suo comportamento dopo il 25 luglio, e si potranno spigolare nei suoi scritti spunti patriottici e incitamenti “civici” generici: ma questi ultimi, valgano quel che valgano, non si deducono dal suo sistema. Non vi è nulla, infatti, che in via di principio l’attualismo gentiliano non possa egualmente avallare solo che si abbia un po’ di pratica nelle manipolazioni dialettiche. E il fatto che il riconoscimento del Gentile non è stato tenuto negli stessi limiti dovuti a quello per tanti camerati, anche anonimi, che morirono nel Nord o furono vittime dei partigiani, ma si è voluto fare del Gentile “il nostro filosofo”, ci dice soltanto di una fondamentale mancanza di princìpi non lasciante troppe speranze circa la possibilità di una vera ricostruzione da parte delle attuali forze di opposizione nazionale in Italia.
Note:
[1] Nel testo originale manca una riga tipografica. Fra parentesi quadre proponiamo quella che ci appare la ricostruzione più logica della parte di testo mancante (N.d.C.).
FINE
'Gentile non è il nostro filosofo (III parte)' has no comments
Vuoi essere il primo a commentare questo articolo?