Intervento di Andrea Marcigliano al Convegno su Julius Evola per i sessant’anni dalla pubblicazione de “Gli uomini e le rovine”, presso L’Universale, Roma sabato 30 novembre 2013, promosso dalla Fondazione Julius Evola, dalla Scuola Romana di Filosofia Politica e dalle Edizioni Mediterranee.
La mia generazione – quella che nacque negli anni “50, proprio quando Evola dava alle stampe “Gli Uomini e le rovine” – le rovine, quelle materiali, residui della guerra e dei bombardamenti, non ha avuto occasione di vederle. Quando potemmo cominciare a renderci conto del mondo intorno a noi, scoprimmo un’Italia non solo già ricostruita, ma che stava cominciando a vivere la stagione che è stata chiamata del “boom economico”. Dunque, l’atmosfera dei primi anni ‘50, ancora gravida di sofferenza e disperazione, ancora contrassegnata da “paesaggi con rovine” – per prendere a prestito il titolo di una felice raccolta di scritti di Piero Buscaroli – era per noi ormai molto lontana, per i più vecchi confinata nei ricordi della primissima infanzia; per quelli come me – sono nato nel ‘57 – presenti solo nei racconti dei padri. Una premessa, questa, troppo personale, certo, ma che ritengo necessaria per cercare di inquadrare il rapporto tra il libro di Evola e la generazione, la mia, che cominciò a leggere le opere del Barone solo negli anni ‘70, quindi vent’anni dopo la pubblicazione de “Gli Uomini e le rovine”. Vent’anni nel corso dei quali di acqua sotto i ponti ne era scorsa davvero molta. Forse troppa, e certo non molto limpida.
Avevamo infatti vissuto l’infanzia negli anni del boom, anni di illusioni e speranze, fors’anche di speranze illusorie… anni, comunque, di grandi sogni, tutti, però, con un comun denominatore dominante: l’economia. O, più esattamente, il sogno di un infinito, inarrestabile progresso economico che, se proprio non coinvolgeva tutti, sicuramente tutti avrebbe coinvolto – e nella realtà anche travolto – con il procedere dei lustri. Anni in cui l’Italia cominciava sempre più a sentirsi “americana”, ad importare mode su mode e, soprattutto, a cercare di imitare l’american way of life”. Lo stile di vita americano, o meglio quello “stile” che arrivava da oltre Atlantico non più con le truppe d’occupazione dei “Liberatori”, bensì con i film, la musica, la televisione soprattutto. Un’America – lo cominciammo a capire solo molto più tardi – che non esisteva nella realtà, ma solo nell’immaginario artificiale, nella celluloide e nelle fantasie indotte dalla pubblicità. Uno stile di vita, però, pervasivo ed invasivo, ché aveva dalla sua la forza dirompente delle idee primitive, elementari, che facevano leva non sulla ragione o sui “nobili sentimenti”, bensì sull’istinto primario, basale dell’animale/uomo.
Ed eravamo la generazione che, per contrasto, sembrava, in larga maggioranza, aver fatto propri i miti della contestazione, della rivoluzione, del terzomondismo… Mao e il Che, il ‘68 francese ed il Vietnam, l’anticapitalismo, l’antiamericanismo, il comunismo, soprattutto… ma un comunismo che avrebbe fatto inorridire Marx ed esplodere nel riso Lenin… un comunismo da figli di papà benestanti che giocavano, si baloccavano con frammenti mal digeriti di ideologia, marxisti immaginari che mai avevano letto Il Capitale, rivoluzionari da salotto con i jeans firmati e magari anche l’eskimo bordato in cachemire… non era l’antitesi, l’antidoto al mito economico ed economicista americano. Solo l’altra faccia della stessa medaglia, o meglio l’altra chela della tenaglia che ci stringeva e soffocava.
A leggere Evola, in quei primi anni ‘70 – mentre già si profilava la lunga e dolorosa stagione che si è soliti chiamare “gli anni di piombo” , e che più corretto sarebbe definire come la seconda fase della Guerra Civile italiana – erano pochi. Pochissimi se misurati sulla massa della popolazione giovanile; pochi, anzi rari, anche a “Destra”. Ovvero in quella sorta di enclave, di ghetto o ridotta che dir si voglia, dove si trovarono asserragliati quelli che, per un motivo o per l’altro, non avevano subito gli influssi delle “sirene” sessantottine. Quelli che, anzi, avevano scelto di contrapporvisi. Scelta, va detto, non facile, ché tutto, intorno, spingeva ad andare nell’altra direzione. A seguire la corrente. E invece c’erano quelli che, pervicaci e cocciuti, si opponevano alla corrente. “Anche se tutti, Noi NO!” recitava un manifesto di quegli anni, opera, se la memoria non falla, di Avanguardia Nazionale…
In tale situazione, Evola e il suo “Gli Uomini e le rovine” avrebbero dovuto, e potuto, diventare una specie di breviario, di “libro da zaino”. Concetti come quello dell’Uomo Differenziato, della Gerarchia Spirituale, del non cedere, anzi del lottare contro la deriva economicista imperante parevano enunciati proprio per quella nostra generazione, o per lo meno per quella minoranza che non era stata irretita dai nuovi miti. Quei pochi che, più per reazione viscerale che per altra ragione, coglievano come lo splendido mondo nuovo in cui vivevamo e, soprattutto, verso il quale sembravamo avviati, fosse solo un’illusione. Un colossale inganno. Ed Evola insegnava, additava proprio questo. Eppure, anche a Destra veniva letto da pochi e poco, spesso male, in modo frammentario. Travisato.
Tuttavia gli ambienti della Destra giovanile – intendendo con questi il complesso e sovente confuso arcipelago che andava dalla Giovane Italia e la sua filiazione il Fronte della Gioventù missino, fino ai gruppi più radicali Avanguardia Nazionale, persino i nazi-maoisti (sic!) di Lotta di Popolo, senza dimenticare l’ala giovanile e tradizionalista dei monarchici, l’FMG – erano gli unici dove le opere di Evola circolavano e, se non proprio conosciute e studiate, venivano quantomeno citate. Insomma, era in quegli ambienti che si poteva “incontrare” un libro come “Gli uomini e le rovine”.
Per me fu come per altri. Giovanissimo, attratto dal mondo della destra giovanile un po’ per sangue ed ascendenza familiare, molto perché, come si dice dalle mie parti, “Bastian contrario”, ovvero poco disposto a seguire la massa – mi ritrovai in una sezione dell’MSI, e lì, un amico – Marco Allasia, amico di tutta la vita, animatore prima del Centro Studi Evoliani di Mestre, poi discepolo di Massimo Scaligero e di Pio Filippani Ronconi – solo di un paio d’anni più vecchio, un giorno mi diede “Orientamenti”. Per molti, va detto, l’unico contatto o quasi con le opere di Evola. Per me fu la premessa ad altro; in primo luogo a “Gli Uomini e le rovine”… opera suggestiva, certo, ma che non divenne per altro mai, per me, il Libro di Evola. Altre, incontrate, lette e studiate negli anni subito successivi – era, se non erro, il 1972 – mi influenzarono e determinarono le mie scelte, oserei dire la mia vita, ben più in profondità. Mi riferisco, soprattutto, a “La Tradizione Ermetica” e a “L’Uomo come potenza”, il volume originario, precedente la revisione con il titolo de “Lo yoga della potenza”, dove troppo si comincia a sentire l’eco di Guénon, autore interessante indubbiamente, ma che mai mi ha attratto… ma questo afferisce esclusivamente a un percorso e a delle propensioni personali. Mentre quello che interessa, in questa sede, è parlare di ciò che “Gli Uomini e le rovine” ha rappresentato per la mia generazione. Ovvero per i giovani (sovente giovanissimi) che a destra militavano nei terribili anni ‘70.
Una fortuna che andò, per molti versi, ben al di là dei pochi che veramente lo lessero. Infatti, tra tutte le opere del Barone, “Gli Uomini e le rovine” è stata probabilmente – insieme a “Cavalcare la tigre” – la più citata, e soprattutto citata a sproposito, fraintesa in buona o in mala fede. In mala fede dagli avversari, dai critici rigurgitanti pregiudizi e pregiudiziali, che ne hanno fatto uno dei punti d’appoggio per la tesi, a lungo imperante, dell’Evola “cattivo maestro” dell’estrema destra più violenta e dello stesso terrorismo “nero”. In buona fede, ma comunque con grave fraintendimento, da quelli che, all’opposto, hanno voluto interpretarlo come un’opera essenzialmente “politica”, un testo ideologico. Cosa che non era, che non è, a meno di non voler intendere la parola “ideologia” come un sistema di idee, una filosofia coerente e rigorosa. E infatti, pur non essendo Evola né un filosofo sistematico, né tanto meno accademico, la sua opera può, anzi dovrebbe venire interpretata come un costante “filosofare”, una ricerca inesausta nel senso inteso da Nietzsche, come chiarito dagli studi di Giorgio Colli. E “Gli Uomini e le rovine” rappresenta uno snodo fondamentale nella meditazione evoliana sulla Filosofia della Storia, che muove già dalle opere giovanili “Saggi sull’idealismo magico” e “Teoria” e “Fenomenologia dell’Individuo assoluto”, marcando gradualmente, punto per punto, la propria “differenza” o meglio la propria visione differenziata del pensiero idealistico. Di tutta la tradizione che veniva da Hegel e che in Italia, da Bertrando Spaventa a Donato Jaia, sino a Croce e Gentile aveva trovato tra fino ‘800 ed inizio ‘900 i suoi più recenti e maturi sviluppi. Evola, come formazione, veniva anche da tale scuola. E “Gli Uomini e le rovine” rappresentano un passaggio fondamentale della sua rilettura della Filosofia della Storia hegeliana, che segue a “Rivolta contro il Mondo Moderno” completandone le tesi già abbozzate. Un percorso di rigorosa critica dello Storicismo hegeliano e, soprattutto, marxiano, che non nega, però, l’idea di Storia, ma la rilegge secondo altre coordinate. Partendo dal recupero del “mito” antico: il mito della Storia come “caduta”, presente tanto nella tradizione classica da Esiodo a Virgilio, quanto in quella Biblica, la Cacciata dall’Eden, sino a giungere all’acquisizione ed alla reinterpretazione dei Veda e del tema del Kali Yuga.
Filosofia della Storia tradotta nei termini del pensiero occidentale, dove il concetto di Tradizione – questa volta rigorosamente con la maiuscola – diviene antitesi decisa e radicale dello Storicismo progressista, nel quale il pensiero originario di Hegel – del quale Evola riscopre le autentiche coordinate fondanti – era stato contaminato e decisamente corrotto dai residui dell’Utopia illuminista. Interpretazione, questa, della visione della Storia evoliana che derivo in parte dalle analisi del mio amico Giuseppe Scalici, studioso attento degli aspetti filosofici dell’opera evoliana; e che, soprattutto, trova spiegazione in alcune opere di Massimo Scaligero, che del Barone fu amico e, per lungo tempo, sodale. Proprio lo Scaligero – che nella mia giovinezza ho avuto la fortuna di conoscere ed ascoltare – nel suo saggio “Rivoluzione, discorso ai giovani” e nel più corposo volume “Il marxismo accusa il mondo” – poi rivisto integralmente e ripubblicato come “Il pensiero come anti-materia”- interpreta il concetto di Tradizione come “ente” agente a livello spirituale nella vita degli uomini e dei popoli, ed attraverso questa. Dunque, come Storia illuminata, però, da una dimensione sovrasensibile, e non semplicemente da fattori “materiali” in primis dall’economia come volgarmente intesa tanto dal marxismo quanto dall’ideologia, oggi dominante come forma mentis comune, che, volendo, possiamo definire “americanismo”. Nella consapevolezza, però, che questa non è l’America e gli americani, bensì, ormai, il comun denominatore dominante le menti ed i cuori dei popoli e degli uomini tutti, e che in America, negli States essa ha solo avuto il suo fulcro irradiante. Insomma l’ideologia di quella che siamo usi oggi chiamare Globalizzazione, e della quale Evola ne “Gli Uomini e le rovine” intuiva già, oltre mezzo secolo or sono, il minaccioso diffondersi.
Tanto che quest’opera andrebbe oggi riletta anche nella prospettiva, oserei dire “sociologica”, di interpretazione preveggente dell’evolvere dei modelli culturali e sociali del dopoguerra. Dell’evolvere in direzione della progressiva disgregazione di ogni forma di vita comunitaria, soppiantata da una società anomica fondata sulla solitudine di un individuo tutt’altro che “assoluto” e titanico, ma ridotto a semplice numero anagrafico e degradato prima da Uomo a cittadino/contribuente, poi, più semplicemente, a bruta forza lavoro e, in parallelo, a “consumatore” di quanto prodotto. Temi cari all’odierna sociologia, in particolare a quella dei Communitarians anglosassoni, a Robert Putnam, con il suo “uomo che gioca a bowling da solo” e ad Emitai Etzioni, senza dimenticare il neo-aristotelismo di McIntyre e la rilettura del pensiero politico hegeliano del canadese Charles Taylor… Evola, però, non solo è venuto prima, ma ha saputo dare alla tematica ed ai problemi a questa correlati una prospettiva ben più alta, capace – se perseguita con coerenza logica – di fornire risposte ai quesiti che nel pensiero dei neo-comunitaristi restano pur sempre irrisolti. In particolare alla domanda sul perché si sia passati dalla Comunità tradizionale all’odierna Società anomica e disgregata; domanda sottesa già alle tesi di Tönnies…
E questo perché la prospettiva de “Gli Uomini e le rovine” muove da una visione dell’Uomo tradizionale come Essere in primo luogo Spirituale, che si determina, poi, nella Natura e, conseguentemente, in quella che chiamiamo Storia. Tuttavia si trattava e tratta di una prospettiva rigorosamente “impolitica”. Non “apolitica” che significherebbe neutrale, e nessuno fu meno neutrale in tutte le cose del Barone. Impolitica nel senso che non si presta ad essere tradotta ed interpretata in chiave di politica corrente. Non si presta ad essere ridotta nelle monete di bassa lega di una qualunque ideologia funzionale ai giochi di potere ed agli interessi. La politica, o meglio l’agire di singoli uomini nella storia e quindi nella politica, poteva certo essere ispirato dal libro di Evola, ma solo nel senso che un Uomo che avesse realizzato interiormente le mete interiori indicate non avrebbe non potuto portare il diverso ethos conquistato in ogni cosa facesse. Per dirla ancora una volta con Massimo Scaligero, l’Uomo Interiore – che corrisponde all’Individuo Differenziato evoliano – è tale sia che faccia il filosofo, sia che faccia il cow boy.
Questo aspetto fondante dell’opera evoliana fu però compreso da pochissimi anche fra i pochi che, negli anni ‘70, la leggevano. I più tentarono di ridurre “Gli Uomini e le rovine” ad una sorta di prontuario ideologico, pensando di poter candidare Evola a pensatore/ideologo della Destra di quegli anni, creando anche artificiali contrapposizioni con altri pensatori di riferimento cari, per retaggio passato più che autentica comprensione, al mondo missino. A Gentile, tanto citato quanto poco studiato, ad Ugo Spirito, o all’eredità della Socializzazione fascista mediata, nella generazione precedente la nostra, da pensatori come Ernesto Massi. Contrapposizioni artificiali proprio perché l’opera di Evola si muoveva su tutt’altro piano. Parlava di un “altrove” che con la prassi politica e soprattutto con la politica politicante nulla aveva a che spartire. Tuttavia una parte della destra giovanile più radicale credé di trovare ne “Gli Uomini e le rovine” la risposta ai propri dubbi e al proprio senso di disgusto e rivolta per il mondo che ci circondava. Un errore, certo non privo di giustificazioni, ma comunque un errore. Ché sarebbe stato, invece, essenziale comprendere come lo stesso slancio che ci conduceva verso l’opera di Evola muoveva da una più profonda esigenza interiore di assoluto che non eravamo capaci di tradurre in parole, e che restava in noi magmatica e confusa.
Così sbagliammo e in qualche modo favorimmo, incoscientemente, proprio coloro che, con logica tanto ferrea quanto tenebrosa, l’opera evoliana volevano venisse fraintesa, per poter bollare definitivamente il Barone come “cattivo maestro”. Condannandolo ad una ancora perdurante damnatio memoriae dai pulpiti della cultura ufficiale. Un errore che ancora stiamo, in certo qual modo, scontando. Poi, la realtà e l’incedere degli avvenimenti dimostrò non che Evola si fosse sbagliato, ma come, piuttosto, avessero errato coloro che avevano voluto ridurre il suo pensiero a politica. E cominciò una nuova, tristissima, diaspora. Una diaspora che vide troppi di coloro che si erano atteggiati – solo atteggiati, però – ad Uomini Differenziati, che avevano sognato la Tradizione e parlato di Gerarchia e Ordine tradizionale, migrare verso i lidi del più vieto liberismo economicista, sposando acriticamente l’ideologia dominante, il famigerato pensiero unico, che negli anni giovanili avevano creduto di combattere. In sostanza il dramma di una generazione che non ha perso, come quella dei padri, la guerra, ma la pace, il che è stato molto peggio. Un tema sul quale ritengo preferibile stendere un velo più di vergogna che di pietà, anche perché troppa acrimonia oggi suscita il solo parlarne.
Va però ricordato che alcuni fra noi presero altre strade, incontrando, per Destino o Fortuna, figure di indicatori spirituali, come Scaligero o Pio Filippani Ronconi, che li sollecitarono a lasciarsi dietro la palude della politica meschina. A non lasciarsi coinvolgere e travolgere dalle Rovine.
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