(pubblicato su Heliodromos, n.23)
di Enzo Iurato
I compleanni non ci piacciono. Non ci piacciono quelli dei “nostri”, figuriamoci quelli degli “altri”! Ricorrenze, anniversari, celebrazioni, non sono mai stati il nostro forte: li abbiamo sempre considerati faccende di donne, un atteggiamento sentimentale particolarmente congeniale all’animo femminile. E, infatti, le donne sono attentissime alle date ed al ripetersi ciclico degli eventi temporali e biologici. È noto quanto siano fondate le storielle che si raccontano sugli anniversari dimenticati da “lui” ed esageratamente attesi da “lei”.[1] Al massimo gli anniversari possono servire come occasioni strumentali per ritornare su un qualche argomento, altrimenti rimandato all’infinito e lasciato nell’ombra. Pretendere poi di rivestire di un’aura sacra simili eventi, la dice lunga sull’odierna caduta del senso del sacro e sull’effettivo livello spirituale dei “celebranti”.
Ma visto che di questi tempi va di moda il Risorgimento italiano, ci è sembrato utile ricordare brevemente il giudizio su questa pagina della storia patria di un autore come Julius Evola, che su questo argomento, come su tanti altri, ha fornito orientamenti preziosi ed illuminanti; sottolineando come egli si sia sempre mantenuto coerente nell’interpretazione morfologica del mondo moderno e nell’analisi della successione ciclica degli accadimenti storici, visti nel loro progressivo allontanamento dalla Verità, dall’Ordine e dalla Giustizia originari. Diciamo subito che per Evola il Risorgimento rappresenta una delle “tappe dell’azione antitradizionale”: il processo sovversivo che attraversando le varie epoche storiche, in una continuità consequenziale, ha condotto il mondo al suo volto attuale.
In un capitolo del suo manifesto politico Gli uomini e le rovine[2], Evola affronta il tema della “scelta delle tradizioni” all’interno della storia d’Italia, partendo dal presupposto che del proprio passato occorre scegliere le idee più congeniali, atte a costituire un valido riferimento per coloro che vogliono reagire ai momenti di crisi, creando le premesse per un rinnovo ed una ricostruzione della propria patria. E questo a dispetto di una retorica nazionale che ha voluto rivestire di un carattere positivo tutto quel che ricade sotto il marchio di una tendenzialità sovvertitrice ed antitradizionale; essendo la “storia patria” d’impostazione e d’origine liberale, illuminista e massonica.
Dopo avere, a ragione, criticato l’interpretazione faziosa e di parte che è stata data ad episodi del passato quali la rivolta dei Comuni contro l’Impero, ed il significato autentico da attribuire al Rinascimento, Evola passa ad analizzare il tema del Risorgimento, cioè dei moti ottocenteschi che portarono all’unità d’Italia. Unificazione ed indipendenza politica ottenute facendo ricorso ad idee di chiara derivazione sovversiva, e che dal punto di vista tradizionale, l’unico che per noi conta veramente, rientra a pieno titolo nel processo dissolutivo generale che ha condotto agli odierni squilibri macrocosmici e microcosmici. Il «Risorgimento non fu un movimento nazionale che per accidente; esso rientrò nei moti rivoluzionari determinatisi in tutto un gruppo di Stati in conseguenza dell’importazione delle idee della rivoluzione giacobina».[3] La cospirazione antilegittimista che flagellò l’Europa dell’800, chiaramente ispirata da un unico fronte internazionale, comandato dall’ideologia liberaldemocratica e massonica, condizionò fortemente l’indirizzo ideologico preso dai moti italiani, lasciando nella futura fisionomia nazionale un’impronta indelebile, solo parzialmente rimossa durante il Fascismo.
Per le forze internazionali che si tenevano dietro le quinte, «l’unità e l’indipendenza dell’Italia erano cose secondarie, e in ogni caso, costituivano non il fine, ma piuttosto il mezzo»[4]; essendo il vero fine quello di dare un colpo mortale all’Austria e all’idea imperiale, nonché alla Chiesa di Roma. Il Principe di Metternich, scrivendo da Verona all’Imperatore Alessandro, a proposito della Carboneria diceva: «È una malattia che corrode il corpo sociale nelle sue parti più nobili ed il male ha già gettato radici profonde ed estese». I carbonari costituirono l’ossatura organizzativa e gettarono le basi dei moti che condussero al risultato finale, essendosi formati al suo interno i quadri che guidarono il Risorgimento. La società segreta che animò la cospirazione, seminata nel sud della penisola dagli “untori” napoleonici, se analizzata con attenzione ed intelligenza, mostrava di contenere già in sé tutti gli elementi costitutivi, metodologici, rituali ed operativi tipici dell’organizzazione controiniziatica.[5]
Guénon ci ricorda come la ripugnante M.me Blavatsky, fondatrice della Società Teosofica, fra una seduta spiritica e l’altra, frequentò a Londra Giuseppe Mazzini, si affiliò all’associazione carbonara “Giovane Europa”, fu in Italia nel 1866 al seguito di Garibaldi, e combatté a Viterbo e a Mentana.[6]
In uno scritto proprio alle società segrete dedicato[7], Evola fa risalire alla Riforma protestante il processo di decadenza ed inversione dell’ideale ghibellino, che viene a perdere le valide motivazioni che nel Medioevo imperiale ancora possedeva. Per cui, «l’avversione per la Chiesa perdette ogni giustificazione superiore, supersecolare, assunse un carattere nettamente antitradizionale e si fece poco a poco l’organo per la rivolta di una civiltà laica contro coloro che, sia pure in una imagine indebolita, rappresentavano l’autorità sacra. Di ciò dovevano risentire, a più o meno lunga scadenza, alcune organizzazioni che erano connesse al polo “impero”, avendo avuto originariamente un carattere perfino iniziatico. È così che a poco a poco ci si avvicina – per questa degenerazione del ghibellinismo – a ciò a cui l’anticattolicesimo come deismo, poi come “libero pensiero”, illuminismo e razionalismo, poi come laicismo più o meno ateo, doveva ridursi nelle ideologie rivoluzionarie o riformistiche dell’ultimo Settecento e dell’Ottocento».[8]
Volere dunque attribuire alle società segrete che ispirarono i moti rivoluzionari da cui si originò il nostro Risorgimento, dei contenuti tradizionali e dei richiami positivi alla più alta romanità, è, nella migliore delle ipotesi, da ingenui, quando non ci si trova di fronte a vere e proprie falsificazioni. Nello scritto appena ricordato, Evola sottolinea infatti che, dopo il periodo dei Rosacroce, la storia segreta delle società segrete «può dunque legittimamente paragonarsi ai processi regressivi, per via dei quali nel singolo le forze della subcoscienza si liberano da ogni controllo ed assumono esse la direzione di ogni facoltà dell’essere cosciente, talvolta anche senza che quest’ultimo se ne renda conto. In certi casi, si può supporre che queste organizzazioni furono vittime delle forze da esse evocate, in un primo tempo, solo in vista di ulteriori fini di rinnovamento. Ciò che prima stava al centro, divenne poi soprastruttura, maschera, sopravvivenza. Forme ormai prive di vita autonoma, nello stato di un sussistere sonnambolico furono trasportate dalla corrente di forze oscure, che nel mondo contemporaneo sono passate ad un’azione in grande».[9]
Ed è solo un inequivocabile segno del beffardo senso dell’umorismo contraffattore, l’aver voluto attribuire un carattere “italiano” ad avvenimenti di ispirazione esclusivamente internazionale, ed in primo luogo francese. Sullo sfondo degli eventi e dietro le gesta degli “eroi” cui sono dedicate strade e piazze d’Italia, si intravede in controluce un sovrappiù ed un “inoltre” che non possono essere né casuali né esclusivamente italiani. «L’ideale mazziniano in verità è identico a quel prodotto essenzialmente democratico e luterano preannunciatosi con la cosiddetta “Società delle Nazioni”».[10] I vari Stati e Governi che costituivano il tessuto politico preunitario della penisola, al di là dei territori ricadenti sotto il dominio austriaco, non erano certo meno italiani del Regno di Sardegna e della dinastia dei Savoia, investita “in alto loco” della profetica missione unificatrice. «Basta dare uno sguardo agli scritti del tempo, specie a quelli ispirati più o meno direttamente dalle società segrete, per vedere che se si parla volentieri di Italia e di lotta contro lo straniero, più risalto avevano però, in quegli scritti, l’esaltazione dei principî giacobini di libertà e di eguaglianza, cioè della causa della Rivoluzione Francese».[11]
Evola tiene tuttavia a distinguere, nel Risorgimento, l’aspetto del movimento nazionale dal suo aspetto ideologico. «Al Risorgimento si deve l’unità d’Italia, e qui non può trattarsi di fare il processo agli uomini e ai movimenti a cui, grazie ad un insieme assai complesso di circostanze, l’Italia dovette la sua unificazione e la sua indipendenza politica».[12] Un risultato ottenuto grazie all’abile sfruttamento delle circostanze interne e delle congiunture internazionali, al di là dell’agiografica ed artificiosa posteriore costruzione dell’epopea di popolo, la cui relativa unanimità fu addirittura assente nell’Italia centrale e meridionale. Ma il suo aspetto ideologico si manifestò, fin dall’inizio, in tutto il suo significato corrosivo e sovversivo, se «dagli esponenti dell’Europa tradizionale liberalismo, mazzinianesimo e tutto il resto furono, a quel tempo, considerati come oggi liberali e democratici considerano a loro volta il comunismo: solo che ci si serviva del mito nazionale e patriottardo e si era alle prime fasi dell’azione sgretolatrice data come “progressismo”. Ideologicamente il Risorgimento italiano appare, nella sua essenza, come un episodio della rivoluzione del Terzo Stato».[13]
Dal punto di vista tradizionale, avevano già un carattere sovversivo i concetti di nazione e di patria come allora venivano usati. «Nel mondo tradizionale, che per noi è quello retto dai principî dell’autorità e della sovranità, della gerarchia dell’ordinamento dall’alto e verso l’alto – tutto ciò che è “patria” o “nazione” – ethnos – non ebbe un significato politico ma soltanto naturalistico: si è di una patria o nazione come si è di una data famiglia. L’ordine politico in senso proprio corrispondeva invece al principio dello Stato (in genere, concretizzatesi in monarchie e in dinastie) o dell’impero come unità sovrordinata rispetto a nazione o “popolo”. È così che si ebbero formazioni politiche in cui patrie e nazioni ebbero bensì il loro posto, ma non come fattori determinanti, invece come semplice “materia” della gerarchia complessiva. E non sembrava strano, a tale stregua, che, per esempio, per combinazioni dinastiche, per matrimoni o successioni, un popolo passasse a far parte di uno Stato diverso: da ciò esso non si sentiva per nulla snaturato, appunto per via del carattere sopraelevato del principio politico. Tale situazione aveva anche una controparte etica: l’appartenenza allo Stato era legata ad una fedeltà, cioè presupponeva un atto libero, volontario (i vincoli feudali ne erano già stati forma eminente). L’essere di un popolo o di una nazione è invece qualcosa di semplicemente dato, di naturalistico».[14]
Dopo la Rivoluzione Francese, risulta chiaro l’uso antitradizionale che in Europa fu fatto dell’idea di patria e di nazione: «essa fu assunta in funzione tendenzialmente democratica e collettivistica, per scalzare ogni superiore principio di autorità, per iniziare la scalata allo Stato e al potere ad opera delle masse»[15]; un’arma sapientemente impugnata per portare a termine un processo che si inserisce perfettamente all’interno di quel fenomeno ciclico indicato da Evola come “regressione delle caste”. Ricordando la tradizionale analogia tra organismo politico e organismo umano, con la corrispondente connessione gerarchica di quattro funzioni distinte, di cui le caste sono l’effettiva rappresentazione all’interno di una civiltà, Evola ricorda che «nel concentrarsi su scopi pratici e utilitari, su realizzazioni economiche e su ogni altro degli oggetti precipui alle due caste inferiori, l’uomo si disintegra, si discentra, si riapre a forze più forti che lo strappano a se stesso e lo restituiscono alle energie irrazionali e prepersonali della vita collettiva, elevarsi al di sopra delle quali costituì lo sforzo di ogni cultura veramente superiore».[16]
Questo tipo di nazionalismo è il grado immediatamente antecedente alle forme internazionali del collettivismo economico-proletario, che ha poi condotto all’attuale poltiglia globalizzata, in cui si percepisce sempre più il reale punto di arrivo costituito dal totemismo delle comunità primitive. I “selvaggi col telefonino” vengono da lontano, e la loro origine va ricercata anche in insospettabili avvenimenti, più o meno remoti, che hanno svolto la funzione di un primo impercettibile smottamento da cui si origina nel tempo una devastante valanga. «Nato presso alle rivoluzioni che hanno travolto i resti del regime aristocratico-feudale, questo nazionalismo esprime dunque un “puro spirito di folla” – è una varietà dell’intolleranza democratica per ogni capo che non sia un mero organo della “volontà popolare”, in tutto e per tutto dipendente dalla sanzione di questa. Così noi vediamo facilmente che fra nazionalismo e anonimato alla sovietica o all’americana, in fondo vi è solo una differenza di grado: nel primo il singolo è ridissolto nei ceppi etnico-nazionali d’origine, nel secondo vien sorpassata la stessa differenziazione propria a questi ceppi etnici, e si produce una più vasta collettivizzazione e disintegrazione nell’elemento massa».[17]
Ben altra funzione avrebbe potuto svolgere un nazionalismo di tipo diverso, come fu quello proprio dei fascismi europei, che avrebbe potuto condurre, avendone avuto il tempo e le condizioni, dalla collettivizzazione alla ricostruzione di una nuova gerarchia aristocratica. Rispetto ad una “umanità” amorfa e massificata, il risorgere delle coscienze nazionali differenziate avrebbe potuto costituire un primo passo verso la restaurazione di un ordine di valori superiori, senza i quali non esiste gerarchia, «e senza gerarchia il ritorno ad un tipo superiore, spiritualizzato di stato non è possibile».[18] Questo orientamento superiore, bisogna purtroppo riconoscerlo, fu del tutto assente nel Risorgimento italiano, come in analoghi movimenti di altre nazioni; assumendo in essi un ruolo determinante il mito del “patriottismo” nutrito da ideali libertari, dal costituzionalismo e dal rivoluzionarismo antilegittimista. «Ad indicare l’opposta possibilità, dal punto di vista morfologico è però legittimo stabilire un parallelo col processo di unificazione che ebbe luogo in Germania ad opera di Bismarck: con la costituzione del Reich – del secondo Reich dopo quello svevo – varie unità di tipo tradizionale furono riprese e conservate in una superiore unità, la Prussia facendo da centro di cristallizzazione e da Stato-guida. Qualcosa del genere fu considerato anche in Italia, negli ambienti giobertiani, però in modo inadeguato, entro un utopico quadro guelfo: il suolo adatto e il clima ideologico per venire a qualcosa di costruttivo mancavano del tutto».[19]
Il Piemonte non era la Prussia, e la monarchia sabauda, ad unità raggiunta, non seppe o non volle liquidare i miti e le ideologie che l’avevano propiziata, conservando nel seno del nuovo stato quelle tendenzialità sovvertitrici e quei germi che ne costituirono il sottofondo futuro. «Al nuovo Stato italiano non corrisponde un’idea propria, politica, un simbolo sopraelevato, una forza formatrice; la monarchia parlamentare si presentò come poco più che una sovrastruttura, quasi con caratteri “privati” puramente rappresentativi. Le ideologie prese in prestito per unificare l’Italia non furono affatto messe da parte dopo aver assolto la loro funzione; esse andarono invece a determinare il clima politico e sociale predominante in Italia, lasciando margine a forme ulteriori di sovversione, come quelle che già si verificarono nei gravi disordini sociali al tempo della prima guerra d’Africa e che come tragico episodio ebbero l’assassinio di re Umberto».[20]
Un chiaro esempio di queste “infezioni” lo si può già cogliere nell’artificiosa costruzione del “mito antitedesco”, dove l’elemento teutonico veniva presentato come straniero oppressore. Mito che sarebbe da allora entrato a far parte dell’immaginario collettivo nazionale, facendo automaticamente ricadere tale condanna anche sulla Casa d’Austria, garante semmai di «un vincolo dinastico inteso ad ordinare in uno spazio comune ceppi diversi – Boemi, Ungheresi, Croati, ad esempio, non meno di Italiani – ai quali veniva riconosciuto un regime di parziale autonomia».[21] Un tema che si sarebbe riproposto puntualmente in tutte le svolte epocali che hanno interessato il nostro paese, successivamente all’unificazione.[22] A partire dalle due Guerre Mondiali, atti conclusivi della guerra civile europea (che avrebbero fatto perdere per sempre all’Europa il ruolo centrale prima occupato sul palcoscenico mondiale), in cui elementi rettamente ispirati tentarono, per brevi periodi, di rimediare al tarlo nazionale antitedesco mediante la Triplice Alleanza prima, che resse fino alle soglie della Prima Guerra Mondiale, e l’Asse poi, nella Seconda Guerra Mondiale. Quasi reminiscenze della precedente Santa Alleanza ispirata dal Metternich.
E l’“ultimo grande Europeo”, come il cancelliere austriaco venne definito dal Malinsky, fu la vera bestia nera del Risorgimento. Colui che, «elevandosi di là da ogni punto di vista particolaristico, seppe riconoscere il male che minacciava tutta la civiltà europea intendendosi a prevenirlo nel segno di una solidarietà delle forze tradizionali e dinastiche così supernazionale, quanto a lui appariva già essere supernazionale la solidarietà delle forze della sovversione».[23] La tradizione che, nel segno della più alta romanità, s’intese a comporre in una unità supernazionale genti diverse, rispettandole; contrapponendo la legge d’ordine e l’idea gerarchica alle ideologie democratiche e giacobine. L’unico richiamo che avrebbe potuto garantire un autentico valore e significato all’idea d’Europa, la cui dissoluzione e inconsistenza politica attuale ci mostrano quello che si è irrimediabilmente perso, in questo senso.
Quel Metternich che seppe dichiarare che «ogni dispotismo è segno di debolezza», mostrando così una sensibilità di gran lunga superiore a quella che gli ha voluto attribuire una ottusa storiografia di parte, e che fece con la sua creatura, la Santa Alleanza, «un estremo tentativo il quale, anche se seppe assicurare all’Europa per tutta una generazione una pace feconda, pure non fu all’altezza del suo principio informatore».[24]
L’intervento italiano del 1915 nella Grande Guerra è stato presentato come il compimento del Risorgimento e dell’unità nazionale, ma in realtà l’Italia, «con opportune transazioni diplomatiche, anche col semplice restare neutrale avrebbe potuto ottenere buona parte di ciò che poi i suoi nuovi alleati democratici dovevano accordare a denti stretti»[25], essendo i suoi interessi più in contrasto con quelli di Francia ed Inghilterra che non con quelli degli Imperi centrali, a cui la univa l’iniziale Triplice Alleanza. «Veramente determinante fu piuttosto l’eredità ideologica del Risorgimento, fu il mito “nazionale” (nel senso rivoluzionario già spiegato) unito a quello antitedesco che faceva vedere negli imperi centrali quasi degli stati “fascisti” avant la lettre (da qui, l’estensione alla Germania di sentimenti “patriottici” che al massimo erano giustificati contro l’Austria)».[26]
Senza nulla togliere al significato di risveglio dal clima dell’Italietta borghese ottocentesca, che l’intervento nella Prima guerra mondiale rappresentò, con i fatti eroici che lo caratterizzarono e con gli sbocchi politici indubbiamente positivi del primo dopoguerra che condussero alla nascita del Fascismo, non si può non considerare negativamente – a causa della scelta del campo sbagliato – il contributo dato dalla guerra italiana «al processo che doveva far compiere un gigantesco passo avanti al fronte del Terzo Stato, cioè delle democrazie, con un gravissimo colpo per quel che il nostro continente ancora conservava in fatto di regimi di tipo tradizionale, nell’Europa centrale».[27]
Il fatto che, a posteriori, la resistenza antifascista sia stata vista come un “Secondo Risorgimento”, con le sue Brigate Garibaldi ispiratrici del futuro Fronte Popolare manovrato da Mosca, non può che rafforzare il giudizio critico nei confronti del “primo” Risorgimento, portatore di quel vizio d’origine che ha fatto della nostra Patria una realtà politica e civile in cui non ci si può a cuor leggero identificare, abbracciandone pregi e difetti in maniera acritica. Accettare il “pacco” dell’unità nazionale, senza considerarne la confezione ed il contenuto, come un qualcosa di comunque positivo e desiderabile è un atteggiamento incomprensibile, e comunque inconciliabile con una visione autenticamente tradizionale.
Ci sembra particolarmente significativo, perché rappresenta una conferma indiretta del carattere sovversivo del Risorgimento italiano, il fatto che le componenti di destra dei suoi “ammiratori” di ieri e di oggi ricadano tutti sotto il raggio d’influenza del pensiero massonico e dei suoi derivati, o di organizzazioni neo-spiritualistiche d’ispirazione teosofica. E non possiamo che guardare con sospetto l’uso marcatamente strumentale ultimamente fatto delle tematiche nazionali e delle parole d’ordine patriottiche – anche da parte della sedicente sinistra e di “patrioti” come Carlo Azeglio Ciampi [28] –, al solo evidente scopo di fornire un alibi alle servili missioni militari internazionali cui l’Italia è costretta a partecipare, versando il suo obolo di sangue. Sangue che con ciniche lacrime di coccodrillo i nostri politici, ministri e autorità religiose mostrano orgogliosi ai funerali di Stato, contrabbandando per eroi, caduti per la patria, dei semplici caduti sul lavoro.
Note
[1] Sembra quasi che la “barzelletta” sia andata a svolgere nel mondo moderno, in modo parodistico però, il medesimo ruolo svolto dai racconti esemplari rappresentati nelle società tradizionali dai miti e dalle fiabe, a cui le accomuna un’origine altrettanto anonima e indeterminata, oltre ad una certa universalità. E questo potrebbe essere un punto da approfondire, mediante un apposito studio, al fine di individuare l’autentico volto ridicolo e tragicomico del mondo in cui viviamo.
[2] J. Evola, Gli uomini e le rovine, (Cap. VIII, Scelta delle tradizioni), Volpe, Roma 1972.
[3] Ivi, p. 117.
[4] Ivi, p. 118.
[5] La Carboneria, particolarmente attiva dal 1815 al 1835, si accende, in contemporanea con lo spegnimento della stella di Napoleone, negli Stati dell’Italia meridionale. Il suo motto era «Sgombriamo la foresta dai lupi», cioè i tiranni: l’Austria e i suoi vassalli che «crocifiggevano l’Italia». I suoi membri si raggruppavano in «Vendite» e si chiamavano fra di loro «buoni cugini». Organizzata per cellule rigidamente chiuse in compartimenti stagni, dove i singoli membri ignoravano spesso l’identità degli altri aderenti, la Carboneria era fortemente gerarchizzata, con i delegati di venti vendite che formavano una vendita centrale; i rappresentanti delle vendite centrali costituivano l’Alta Vendita e la Vendita Suprema. L’ammissione alla società segreta ed i successivi passaggi ai gradi superiori erano accompagnati da un rituale solenne, in parte ispirato a quello della franco-massoneria. Le cerimonie d’iniziazione si svolgevano nel santuario della «Baracca» o «capanna dei carbonari». Gli alti dignitari prendevano posto intorno a blocchi squadrati. L’ascia sostituiva nelle mani del presidente la mazzuola massonica; al di sopra della sua testa, si intravedeva (come nelle Logge) un triangolo radiante. Un crocifisso si levava su un blocco coperto da un panno bianco: simbolo della purezza della causa e di «Gesù Cristo, nostro Salvatore, il primo dei Buoni Cugini, il Gran Maestro dell’Universo». Un gomitolo di filo richiamava «il lino che fila la Madre di Dio e il legame misterioso che lega i Carbonari». Il neofita beveva «la coppa dell’oblio» ed effettuava una serie di viaggi simbolici attraverso «la foresta frusciante di fogliame» ed il fuoco purificatore; ammesso più tardi al secondo grado, al grado di maestro, indossava una corona di spine prendendo l’impegno solenne: «Se le sofferenze che patisco possono essere utili agli uomini, che non ne sia mai liberato». Condannato simbolicamente alla crocifissione, egli era graziato dopo essersi solennemente promesso alla causa e ritornava a nuova vita rivestito di nastri neri, blu e rossi, simboleggianti il lutto, la speranza e la fede. I rituali d’iniziazione ai gradi superiori rappresentavano un miscuglio ancora più bizzarro della mistica del Golgota e dell’ideologia rivoluzionaria. Gli scopi politici dell’ordine si svelavano gradualmente: il crocifisso significava allora la messa in croce dei tiranni; il gomitolo di filo, il capestro per l’avversario; l’ascia, un altro strumento di supplizio; i «lupi della foresta» designavano gli oppressori stranieri. Al grado supremo, si crocifiggevano i «due ladroni», presunti traditori del carbonismo; degli uomini in uniforme di soldati tedeschi facevano irruzione per dare il colpo di grazia ai condannati. Ma i Buoni Cugini cacciavano gli intrusi al grido di «Vittoria! Morte alla tirannia! Viva la libertà!». [Cfr. Eugéne Lennhoff, Histoire des Sociétés politiques secrètes au XIX et au XX siècle, 1934 ; Albert Falcionelli, Les societés secrétes italiennes (les Carbonari, la Camorra, la Maffia), 1936.]
[6] R. Guénon, Il Teosofismo storia di una pseudo-religione, 2 volumi, Edizioni Arktos, Carmagnola, 1986.
[7] J. Evola, La storia segreta delle società segrete, Ordine Nuovo n. 2, 1959.
[8] Ivi, p. 79.
[9] Ivi, pag. 84.
[10] J. Evola, Imperialismo Pagano, Atanor, Todi-Roma 1928, p. 51.
[11] Gli uomini e le rovine, p. 119.
[12] J. Evola, Dietro le quinte della storia. Il vero volto del Risorgimento, L’Italiano n. 3, marzo 1959.
[13] Ibid.
[14] Ibid.
[15] Ibid.
[16] J. Evola, Due facce del nazionalismo, ne “La Vita Italiana” n. 216, marzo 1931.
[17] Ibid.
[18] Ibid.
[19] Dietro le quinte della storia. Il vero volto del Risorgimento.
[20] Ibid.
[21] Gli uomini e le rovine, p. 120.
[22] Il poeta Dino Campana nei suoi Canti Orfici, stampati a Marradi nel 1914, e che portavano il sottotitolo «Die Tragödie des letzten Germanen in Italien» (“La tragedia dell’ultimo Germano in Italia”), mette in apertura della sua opera la seguente frase: «A Guglielmo II Imperatore dei Germani l’autore dedica». Considerando la singolare personalità di Campana, che avrebbe finito i suoi giorni nel 1932 in manicomio, quel sottotitolo e quella dedica comunicano un sentimento della vita dell’Autore in totale opposizione col mondo in cui si trovava a vivere. Forse andrebbe ricercata in questa posizione “anticonformista” di Dino Campana la reale motivazione di un episodio che è stato narrato in uno scritto del 1960 (G. Natta, Una baruffa tra Dino Campana e Arturo Reghini) ripreso da “Paragone” e inserito nel numero speciale de La Cittadella (n. 23-24-25, gennaio-marzo 2007) dedicato ad Arturo Reghini, dove viene raccontata un’aggressione, apparentemente immotivata, di Campana al Reghini. L’autore concludeva il suo scritto su Campana con la frase: «Pareva un manigoldo teutonico».
[23] J. Evola, Ricognizioni (Uomini e Problemi), (Cap. 27, Metternich), Mediterranee, Roma 1974, p. 165.
[24] Ivi, p. 166.
[25] Gli uomini e le rovine, p. 122.
[26] Dietro le quinte della storia. Il vero volto del Risorgimento.
[27] Ibid. Su questo punto si veda pure l’articolo di Evola, Bilancio della guerra mondiale, ne “La Vita italiana”, n. 291, giugno 1937. Dove si prendono in considerazione anche le ragioni dell’intervento italiano al fianco delle potenze democratiche, e dove Evola ribadisce la sua personale convinta partecipazione a quel conflitto.
[28] Dal governo D’Alema messo su col permesso USA per condurre la guerra contro la Serbia, all’esegesi sanremese del “Fratelli d’Italia” da parte di Benigni, tutti i conti tornano ed il mulino macina sempre per lo stesso padrone!
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