L’idealismo magico e l’Individuo Assoluto di Evola

Nell’immagine in evidenza: “La danza di Albione” di William Blake (1794 c.), utilizzato per la copertina dei “Saggi sull’idealismo Magico” di Evola per le Edizioni Mediterranee, dove l’immagine viene così commentata:  “corpo sferico di luce dell’Adamo primordiale”, descritto anche da Platone, inteso come centro dell’irradiamento divino nel Cosmo. Una luce dorata e fiammeggiante circonfonde come un’aura il suo capo, mentre tutto intorno irradiano nelle sei direzioni dello spazio i colori dell’iride.

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Nel precedente articolo, abbiamo visto quale fosse il dettaglio della critica di Evola all’idealismo classico, come maturato dalla speculazione dei grandi filosofi tedeschi.

Occorreva dunque superare le soglie estreme cui la filosofia propriamente intesa era giunta con la speculazione idealistica, e per farlo era necessario “contaminare” le ultime propaggini conoscitive della speculazione post-kantiana con elementi tratti dalle dottrine tradizionali “meta-filosofiche”, onde attuare il “salto di livello” verso sfere metafisiche.

A questo punto Evola teorizza la figura dell’Individuo Assoluto, di Colui che porta a compimento l’idealismo post-filosofico, l’idealismo magico. La dottrina evoliana sarà esposta completamente nelle due opere Teoria dell’Individuo Assoluto (1927) e Fenomenologia dell’Individuo Assoluto (1930), che troveranno un agile ed efficace sunto-preludio nei Saggi sull’Idealismo magico (1925) e ne L’individuo e il divenire del mondo (1926), la raccolta di due conferenze in materia tenute da Evola nel 1925 per la Lega Teosofica Indipendente.

Questi erano, d’altronde, gli anni dell’esposizione evoliana della dottrina dei Tantra come via di liberazione attiva (cd. “umida”) dell’individuo che, in un’età di dissoluzione incentrata sulla materialità, non poteva che essere volta al risveglio delle potenze corporee, all’uso ed alla trasformazione di forze immanenti rese libere fino al risveglio della Shakti quale potenza-radice di ogni energia vitale. Tale principio di Potenza fondato sui Tantra orientali, ed in particolare sulla tipologia dei çakti-tantra (i tantra della Potenza), in forza del quale l’individuo non fugge il mondo, ma cerca di dominarlo, consapevole che “senza la potenza la liberazione è una mera burla”, veniva esposta proprio ne “L’Uomo come Potenza, pubblicato nel 1927, che poi Evola avrebbe ripreso e revisionato totalmente nel dopoguerra con un nuovo titolo, Lo Yoga della Potenza (1949).

Nella teorizzazione dell’idealismo magico, che si configurava come una proposizione dello sviluppo assoluto della libertà e della potenza dell’Io, conversero dunque forme e dottrine metafisico-iniziatiche tratte tanto dalla tradizione occidentale che da quella orientale, che Evola canalizzò in un unico filo conduttore, pur mantenendo sempre, in questa fase, un approccio immanentistico di fondo derivante dalla sua formazione filosofica idealistica, che avrebbe superato solo in un secondo tempo. Prova ne fu, come vedremo, la critica pungente che l’Evola di questa prima fase non risparmiò al maestro René Guénon ed a quel suo “intellettualismo metafisico”, come lo definì, immobile, impersonale, cui il giovane Evola opponeva una “metafisica del divenire” “dinamica”, fondata sulla realizzazione massima dell’Io, sul potenziamento, sull’individuazione e sulla dominazione, in cui l’Io si riafferma come Ente di Potenza.

Non mancavano poi nella costruzione evoliana elementi tratti dall’elaborazione di grandi pensatori quali Novalis, Schopenauer, Nietzsche e Michelstaedter.

Evidente è apparso ad esempio il richiamo a Novalis, celebratore della potenza e della volontà creatrice e dominatrice dell’uomo, dell’Io, nei confronti della realtà che gli è di fronte (“Quel che io voglio, lo posso. Agli uomini nulla é impossibile”, scrisse il filosofo e scrittore tedesco), anche se nell’ottica di un monismo immanentistico e naturalistico tipico della sensibilità romantica, che Evola, com’è noto, rigettava senza tentennamenti.

Ma ancor più forte fu l’influenza di Carlo Michelstaedter. Ricordiamo del pensatore goriziano la concezione fondamentale del dover vincere la vita inautentica (la “rettorica”), così come noi la viviamo e ci appare, e cioè come volontà inesausta di “soddisfazione della sua eterna mancanza”, esattamente come il desiderio che il peso ha del più basso: esso non si esaurisce mai ed è infinita tensione verso l’illusione del possesso del punto più basso. Il peso, come la vita, assume uno stato di continua insufficienza e sofferenza, e corrisponde ad un non essere, non riuscendo mai a possedersi:  “La vita è questa mancanza della sua vita”.

La svolta (la “persuasione”) si può avere solo allorquando ciò che vive cessa di vivere nel dolore, e, decidendo di dipendere solo da sé stesso, diventa uno, non più duplice nell’animo. Tutti i limiti, come il tempo e l’altro da sé, la necessità di soddisfare bisogni, desideri e piaceri, amore, felicità (in poche parole la necessità di un rapporto soddisfacente con il mondo esterno e con gli altri), vengono sconfitti, con un supremo atto della volontà, che affermi il valore individuale, consentendo all’uomo di prendere su di sé la responsabilità della propria vita: con la persuasione si assiste al superamento delle illusioni, nella convinzione che “non c’è niente da aspettare, niente da temere – né dagli altri uomini né dalle cose”. La realizzazione dell’uomo non dipende più dal mondo esterno, ma dal “possesso di sé stesso”, attraverso il quale l’uomo stesso giunge a possedere “tutto in sé”, superando con ciò la solitudine e l’alterità del mondo: egli non chiede più nulla ad un tempo futuro, non gli manca niente e niente può ancora desiderare, poiché la sua anima “vive libera nell’assoluto”.

Carlo Michelstaedter (1887-1910)

Proprio da questo breve sunto dell’elaborazione di Michelstaedter, possiamo comprendere meglio la base della “rivolta” dell’Individuo Assoluto.

Evola propone infatti, in via preliminare, una ricostruzione in tre fasi dell’esperienza umana. In una prima fase, quella della spontaneità, che si può rapportare all’età infantile, l’individuo non percepisce un approccio problematico con il mondo esteriore: vive una vita dominata soprattutto dai sensi, in cui non ha percezione differenziata di sé e della propria interiorità, ma volge la propria attenzione soprattutto al mondo esterno.

Nella fase successiva, quella della problematicità, l’individuo comincia a “percepirsi” più coscientemente, ad avvertire una separazione netta fra sé stesso ed il mondo esteriore, il cui divenire caotico viene sentito come una minaccia per il proprio Io: è una fase critica, dominata da un esistenzialismo di fatto, più o meno consapevole.

A questo punto, l’individuo, dinnanzi a questo stato di crisi, deve giungere ad una soluzione: può diventare di fatto un tutt’uno con il flusso caotico del divenire esteriore, dissolvendosi in esso: è la soluzione passiva, nichilistica, pessimistica, accidiosa, rinunciataria. L’uomo scompare, accetta di perdersi nel suo baratro esistenziale: si lascia vivere, senza riuscire a capire il senso della propria esistenza, neppure razionalmente.

Oppure, si può avere una reazione di tipo razionalistico-scientifico: si cerca di comprendere il “funzionamento” del mondo esteriore secondo le regole che la ragione e l’intelligenza umana può arrivare a studiare: è la via della scienza profana, della partecipazione attiva al mondo, caratterizzata  da un sostanziale ateismo o, al più, da un agnosticismo di fatto, e che quindi non può consentire di superare le barriere del mondo materiale e di spiegare il significato ultimo, trascendente, dell’esistenza umana.

Qui Evola fornisce la “sua” soluzione: “Ora il punto fondamentale, la messa in rilievo del quale è merito di una delle più forti personalità dell’età contemporanea – Carlo Michelstaedter – è il seguente: l’individuo non deve fuggire alla propria deficienza, non deve, cedendo, per scamparne il peso e la responsabilità, concederle una realtà, una ragione e una persona che essa, come mera privazione, non può in nessun modo avere – e quindi estraporre, rimettere la realtà che manca all’Io ad un che di altro, materia, natura, Dio, Ragione Universale, Io trascendentale ecc.. L’Io deve invece esser sufficiente alla sua insufficienza, deve prenderla su sé, e sopportando l’intero peso, consistere. Deve cioè intendere che tutto ciò che sembra avere una realtà da lui indipendente non è che un’illusione, causata dalla sua propria deficienza; e questa egli deve farsi a colmare, mediante un processo incondizionato che instauri l’assoluta presenza di sé alla totalità della sua attività – poiché egli allora avrà compiuto in sé l’assoluta certezza, avrà ‘persuaso il mondo’, e in ciò avrà fatto vita la realtà di cui l’idealismo non è per giunto che ad anticipare la vuota forma intellettuale e l’astratto ‘dover essere’. In questo processo, a cui si propone il termine idealismo concreto o magico, è da riconoscersi compito di una futura civiltà e quindi la soluzione positiva della crisi dello spirito moderno (…) [4].

Evola sviluppò quindi in senso autarchico l’essenza della sua filosofia: l’Io reale può colmare la privazione figlia del rapporto sproporzionato fra esso e l’esteriorità grazie ad una perfetta autonomia che lo rende Individuo Assoluto, prodotta da un’esperienza fattiva e trasformatrice in cui il soggetto conosce ciò che riesce a realizzare in sé stesso: dopo la presa di coscienza del limite, deve seguire la fase “de-condizionalizzante” di liberazione, in grado di condurre alla fase finale, autarchica, della vera e propria Potenza, dell’assolutizzazione, del perfetto incondizionato.

Ma tale trasformazione può realizzarsi solo laddove l’azione, la prassi, si trasformino assumendo un carattere superiore rispetto a quanto avviene normalmente.

Da ciò procede la fondamentale distinzione fra azione secondo desiderio e azione incondizionata, in cui è evidente il riferimento al concetto sapienziale taoista del wei-wu-wei, ossia della azione-senza-azione: la capacità di agire senza guardare ai risultati, ovverosia di non fare della volontà di raggiungimento di un dato scopo il motivo dell’azione stessa.

L’azione secondo desiderio, del tutto materializzata, che schiavizza l’uomo legandolo ad un fine, ad un utile, e lasciandolo in balia dei propri limiti e della proprie insufficienze, è così ben descritta da Evola: “Se si dà uno sguardo alla vita in cui abitualmente vive l’individuo, non pure nell’amorfa mediocrità delle masse, ma spesso anche nelle grandi luci dell’umanità tragica e spirituale, appare che in massima il suo fare non è da dirsi propriamente determinato da lui come centro sufficiente, bensì da correlazioni di appetiti e di motivi rispetto ai quali egli è passivo o quasi. L’Io, cioè, non possiede la sua azione: egli desidera – e nel desiderio non l’Io prende la cosa, ma la cosa prende l’Io, ne distrugge la centralità in una compulsione che lo scaglia all’esterno, alla periferia di sé stesso. Quel che è assai importante, è notare che tale situazione può riprendere entro di sé non questa o quella azione, bensì la totalità di tutte le azioni possibili. Nella totalità di tale universo, vi è dipendenza: l’azione si presenta sempre secondo necessità; l’Io non è l’autore, non ne possiede il principio in sé, non la possiede ma la subisce. E dovunque l’individuo agisce per una interna spinta della propria natura, ovvero in relazione ad un disagio o privazione interna, od ancora per l’attrazione di una idea, di un piacere o beatitudine, qualunque esso sia, ‘materiale’  o ‘spirituale’, egli resta inesorabilmente rinchiuso in questo cerchio dello schiavo” [5].

La vera liberazione che possa aprire all’Io le porte dell’ascesi verso la realizzazione assoluta e completa di sé, può aversi soltanto quando la prassi concreta dell’Io sia guidata dalla più totale impersonalità, dal più totale distacco dai frutti puramente materiali e dal tornaconto personale dell’azione stessa, che diventa così decondizionata, pura, assoluta: “(…) Il valore e il piacere non debbono, invece, precedere e determinare l’attività e la volontà ma debbono invece procedere quasi come un effetto dell’incondizionato volersi in quanto perfetto volersi. Nell’azione del Signore non vi deve cioè essere nulla di desiderio o di interna compulsione: essa deve manifestare un volere che nel suo determinarsi non ha nulla dinanzi a sé, né una sua natura, né la luce di un piacere, né l’attrattiva di un motivo o di un ideale, che dunque in sé si genera assolutamente o positivamente, in ciò non avendo presente che il freddo e solitario amore della sua affermazione sufficiente [6].

E ancora: “La certezza e il sapere assoluto sono un vano nome là dove non rispecchino la concreta potenza di un Io che, dall’alto di una incondizionata, arbitraria libertà, domini l’insieme di tutte quelle condizioni e di quelle energie in cui si plasma la totalità della sua esperienza (…). In una parola: posso dirmi assolutamente certo solo di quelle cose di cui ho il principio e le cause entro di me, quale incondizionata libertà v. d. secondo funzione di possesso; nelle altre, solo di ciò che in essa soddisfa questa condizione. Il processo del conoscere e quello dell’assoluta autorealizzazione, dell’elevazione dell’individuo a Signore universale, cadono allora in uno stesso punto, dal che appare altresì essere il principio dell’errore e dell’oscurità nulla più che quello dell’impotenza. Il criterio dell’errore e della verità è semplicemente il grado dell’intensità dell’affermazione e del possesso (…).

Una tale teoria, se suona molesta alla mentalità europea, si riconnette in massima i principi fondamentali della sapienza di Oriente, secondo la quale si ritiene che pochi pregiudizi sono così assurdi, quanto quello, irradiato nella cultura moderna occidentale, onde si pensa che chiunque, purché abbia un certo grado di chiarezza intellettuale, qualunque sia la vita in cui si lascia vivere, possa partecipare, mediante l’insegnamento comunicatogli dalla scienza o dalla filosofia, ad una reale certezza. (…) La veduta degli Orientali, che poi riecheggia nella mistica di ogni luogo, è invece che il processo conoscitivo è condizionato dal processo di effettiva trasformazione e di potenziamento dell’Io concreto, che l’assoluto conoscere è un flatus vocis quando non rappresenti come il fiore o la luce sgorgante da colui che, con la sua potenza, si è compiuto nell’assoluta autorealizzazione del Rishi vedico, dell’Arhat buddistico, del Phap taoistico.

In definitiva: finché qualcosa esista, non si dà assoluta certezza, finché esista un mondo in quanto mondo, cioè come un che di ‘Altro’, come un insieme di potenze impenetrabili e resistenti, il principio dell’Assoluto, a rigore, non esiste. Ma questa negazione del mondo come condizione della certezza non va intesa in modo astratto, ossia come un assoluto annullamento di ogni forma, come un vuoto e indeterminato nirvana. Al contrario: essa si riconnette a colui che non cede al mondo e nemmeno fugge da esso, bensì che si mette faccia a faccia con esso, che lo domina interamente e che in ogni determinazione si riconosce allora come ente di potenza (…)” [7].

L’azione incondizionata non deve quindi procedere dal desiderio, ma da un perfetto, assoluto volere: l’eventuale risultato è una conseguenza, ma non deve essere mai il motore dell’atto. La ragione specifica sottesa ad un’azione non dovrà mai manifestarsi come un appetito, una voglia, una necessità, ma dovrà ritrarsi per far emergere invece la pura volontà dell’azione in sé, perché necessaria, perché assoluta, svincolata dal fine materiale.

Autarchia: niente fuori di me, niente oltre di me. In ciò si concretizzava la spinta evoliana verso l’Individuo Assoluto, in grado di superare ogni limite gnoseologico, approdando ad una definitiva dimensione superiore dell’Essere.

Si aprivano le porte verso una spinta trascendente, che troverà piena attuazione quando Evola, superati quelli che lui stesso definirà “prolungamenti del precedente orientamento idealistico-nietzschiano in connubio col tantrismo”, tramite anche e soprattutto la piena comprensione dell’insegnamento di René Guénon (che nei primi anni Venti non era ancora stata realizzata) e della Tradizione, approderà ad una consapevole svolta totalmente metafisica, già in nuce, di cui l’Idealismo magico costituiva un antecedente a metà tra filosofia e meta-filosofia [8]. E ricordiamo che il concetto di Individuo che si assolutizza su un piano “magico” non ha nulla a che vedere con l’individualismo proprio all’atomismo liberale, anarchico, o simile, che opera su un piano puramente materialistico. Quella che abbiamo cercato di descrivere è invece l’espressione massima della spinta dell’Individuo a superare i propri limiti, per approdare a dimensioni sovraordinate che, nella fase dell’Idealismo magico e della Volontà di Potenza, non avevano ancora assunto quel connotato “disindividualizzato”, proprio al piano metafisico, cui Evola sarebbe definitivamente giunto a poco a poco, completando il proprio percorso [9].

Note

[4] J. Evola, “Saggi sull’idealismo magico”, pp. 38-39.

[5] Op. cit., pp. 56-57.

[6] Op. cit., p. 57.

[7] Op. cit., pp. 53-54.

[8] L’Evola di quel periodo, come vedremo insieme in una storica polemica con René Guénon degli anni Venti ospitata sulle pagine de “L’idealismo realistico” e che riproporremo su RigenerAzione Evola, guardava infatti con sospetto la metafisica intesa come “conoscenza e contemplazione”, quell”intellettualismo metafisico” da lui giudicato “impersonale ed immobile”, passivo, in cui “l’individuo vi è come una ombra illusoria e contradittoria, che scompare nel tutto”. Evola opponeva in sostanza alla “metafisica della conoscenza”, come illustrata da Guènon, una presunta metafisica del potenziamento, dell’individuazione e della dominazione, in cui l’Io si riafferma come Ente di Potenza, propria ad esempio al Tantrismo, o a correnti magiche e alchemiche del Buddhismo Mahâyâna o del Taoismo, perlomeno per come Evola riteneva di interpretarle. In ciò Evola sembrava confondere, probabilmente, il concetto di molteplicità delle Tradizioni e quindi sia delle forme essoteriche che delle vie realizzative esoterico-iniziatiche, con l’Unità Ultima del punto di approdo: la Metafisica, che non conosce relativismi o diversificazioni. In quell’ambito, effettivamente, la dimensione individuale è una mera illusione. Sulla stessa Volontà di Potenza come via realizzativa il discorso sarebbe lungo e complesso: il tutto comunque va letto come parte del processo di “crescita” in senso Tradizionale dell’Evola di quegli anni, che nel suo percorso da autodidatta, era ancora intriso, come da lui stesso ammesso, da influssi legati a Nietzsche, all’idealismo, al tantrismo.

[9] Percorso completato senza però rinnegare affatto le elaborazioni dell’Individuo Assoluto e dell’Idealismo Magico. Infatti, durante la sua permanenza presso l’ospedale militare di Bologna (1948-1951) dopo la guerra, Evola lavorò sulla “Teoria dell’Individuo Assoluto”, sintetizzandola ed aggiornandola; la nuova versione venne comunque ripubblicata per la prima volta soltanto nel dicembre 1973. Il barone non fece altrettanto, invece, per la  “Fenomenologia”, che riapparve nel 1974 nella versione originaria del 1930, corretta ed aggiornata nella bibliografia, ma sostanzialmente intatta nei contenuti. Maggiore fu, invece, come già evidenziato nel testo, il lavoro di revisione su L’Uomo come Potenza” del 1927, ripubblicato nel dopoguerra come “Lo Yoga della Potenza” (1949).



A proposito di...


'L’idealismo magico e l’Individuo Assoluto di Evola' 1 Commento

  1. 25 Giugno 2018 @ 10:01 L’IDEALISMO MAGICO E L’INDIVIDUO ASSOLUTO DI EVOLA | Teseo

    […] da RigenerazionEvola […]

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"In una civiltà tradizionale è quasi inconcepibile che un uomo pretenda di rivendicare la proprietà di una idea e, in ogni caso, in essa chi così facesse, con ciò stesso si priverebbe di ogni credito e di ogni autorità, poiché condannerebbe l’idea a non esser più che una specie di fantasia senza alcuna reale portata. Se una idea è vera, essa appartiene in egual modo a tutti coloro che sono capaci di comprenderla; se è falsa, non c’è da gloriarsi di averla inventata. Una idea vera non può essere «nuova», poiché la verità non è un prodotto dello spirito umano, essa esiste indipendentemente da noi, e noi abbiamo solo da conoscerla. Fuor da tale conoscenza, non può esservi che l’errore" (R. Guénon)

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