Il Dante segreto del “De vulgari eloquentia”

Vi presentiamo oggi un altro capitolo dell’approfondimento dedicato da René Guénon al significato interno del linguaggio di Dante e dei Fedeli d’Amore, stavolta con riferimento al De Vulgari Eloquentia di Dante, opera scritta tra il 1303 ed il 1305 che, come accennato dal metafisico di Blois in chiusura del suo commento all’opera di Luigi Valli, mentre sembra occuparsi semplicemente dell’idioma italiano, nello specifico del volgare, anche in apparente contrasto con il latino, tratterebbe, nel suo significato “interno”, della lingua primordiale della Rivelazione e della Conoscenza. Il commento di Guénon, intitolato “Nuove considerazioni sul linguaggio segreto di Dante” e centrato, in particolare, sull’opera che Gaetano Scarlata dedicò al De Vulgari Eloquentia, uscì su Le Voile d’Isis nel luglio 1932, ed è anch’esso raccolto nell’antologia “L’esoterismo cristiano”.

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“Nuove considerazioni sul linguaggio segreto di Dante”

di René Guénon

tratto da Le Voile d’Isis, Parigi, luglio 1932 

Parlando precedentemente dei due volumi dell’ultima opera di Luigi Valli, abbiamo citato il lavoro che, sempre nello stesso ordine di idee, Gaetano Scarlata ha dedicato al trattato De Vulgari Eloquentia di Dante, o piuttosto, come egli preferisce chiamarlo (giacché il titolo non è mai stato fissato con esattezza), De Vulgari Eloquentia Doctrina, secondo l’espressione impiegata da Dante stesso per definirne l’oggetto fin dall’inizio, ed al fine di mettere in evidenza la sua intenzione circa il contenuto dottrinale della poesia in lingua volgare (1). In effetti, quelli che Dante chiama poeti volgari sono coloro i cui scritti avevano, come lui dice, verace intendimento, vale a dire contenevano un senso nascosto, in conformità col simbolismo dei «Fedeli d’Amore», infatti egli li contrappone ai litterali (e non litterati, come talvolta è stato detto in modo inesatto), cioè a coloro che scrivevano solamente in senso letterale. I primi sono, per lui, i veri poeti, ed egli li chiama anche trilingues doctores, cosa che, da un punto di vista esteriore, si può intendere col fatto che tale poesia esisteva nelle tre lingue, italiana, provenzale (e non «francese», come dice erroneamente Scarlata) e spagnola, ma che in realtà significa (nessun poeta ha mai scritto infatti in tutte e tre le lingue) che essa doveva essere interpretata secondo un triplice senso (2); e Dante, a proposito di questi trilingues doctores dice che «maxime conveniunt in hoc vocabulo quod est Amor», che è un’allusione abbastanza evidente alla dottrina dei «Fedeli d’Amore».

Parlando di quest’ultimi, Scarlata fa un’osservazione molto giusta: egli pensa che non abbiano mai costituito un’associazione in forma rigorosamente definita, più o meno simile a quella della Massoneria moderna, per esempio, con un potere centrale e con quelle «filiali» nelle diverse località; e noi, in appoggio a questa osservazione, possiamo aggiungere che in seno alla stessa Massoneria non è mai esistito niente del genere prima della costituzione della Gran Loggia d’Inghilterra, nel 1717. Del resto, non sembra che Scarlata abbia inteso la reale portata di un fatto come questo, che egli crede di dover semplicemente attribuire alle circostanze, poco favorevoli all’esistenza di un’istituzione che si presentasse con i connotati di una maggiore stabilità; in realtà, come spesso abbiamo detto, un’organizzazione veramente iniziatica non può essere una «società» nel senso moderno dei termine, con tutto il formalismo esteriore che ciò comporta; allorché incominciano a comparire degli statuti, dei regolamenti scritti o altre cose del genere, si può essere certi di trovarsi al cospetto di una degenerazione che conferisce all’organizzazione un carattere «semi-profano», se è possibile esprimersi così. Ma, per quanto riguarda la dimensione propriamente iniziatica, Scarlata non ha approfondito l’argomento e sembra anche che vi si accosti ancora meno di L. Valli; egli guarda soprattutto all’aspetto politico, e quindi del tutto accessorio, e parla continuamente di «sette», punto sul quale ci siamo ampiamente spiegati nei nostri precedenti capitoli; nelle sue considerazioni, dall’affermazione della dottrina (esoterica e non eretica) dell’amor sapientiae egli trae ben poche conseguenze, e tuttavia questa dottrina è l’essenziale, mentre il resto attiene solo alle contingenze storiche.

D’altronde, è possibile che l’oggetto di questo studio si sia prestato molto facilmente a ciò che ci appare come un errore di prospettive: il De Vulgari Eloquentia Doctrina ha uno stretto rapporto con il De Monarchia e quindi si riallaccia a quella parte del lavoro di Dante ove le applicazioni sociali occupano lo spazio maggiore; ma queste stesse applicazioni possono essere ben comprese se non le si riconduce continuamente al loro principio? Ciò che più dispiace è che Scarlata, quando passa a delle considerazioni storiche d’insieme, si lasci trasportare da interpretazioni più che contestabili: non arriva infatti fino a fare di Dante e dei «Fedeli d’Amore» degli avversari dello spirito del Medioevo e dei precursori delle idee moderne, animati da uno spirito «laico» e «democratico» che in realtà è quanto di più «anti-iniziatico» ci possa essere? Questa seconda parte del suo libro sarebbe da rivedere sulla scorta di una maggiore conformità con il senso tradizionale, anche se contiene comunque delle indicazioni interessanti, in particolare per ciò che riguarda le influenze orientali alla corte di Federico II e nel movimento francescano; in verità essa è presentata solamente come un «primo tentativo di ricostruzione storica», chissà se l’autore, nel corso delle sue ulteriori ricerche, finirà col rettificarla da sé?

Una delle cause dell’errore di Scarlata risiede, forse, nel modo in cui Dante contrappone l’uso del vulgare a quello del latino, lingua ecclesiastica, nonché l’espressione simbolica dei poeti, secondo il verace intendimento, a quella dei teologi (dal momento che quest’ultima è piuttosto una semplice allegoria); ma è solo agli occhi degli avversari di Dante o di coloro che non lo comprendono (che in questo caso equivale alla stessa cosa) che il vulgare può apparire come il sermo laicus, mentre invece per lui era tutt’altra cosa; d’altra parte, dal punto di vista strettamente tradizionale, la funzione degli iniziati non è più esattamente «sacerdotale» di quella di un «clero» exoterista che possiede solo la lettera e si limita solo alla «scorza» della dottrina (3)? In tutto questo la cosa essenziale è comprendere ciò che Dante intende con l’espressione vulgare illustre, che può sembrare strana ed anche contraddittoria se ci si attiene al significato ordinario dei termini, ma che si spiega se si tiene conto che egli considera il termine vulgare come sinonimo di naturale: essa è la lingua che l’uomo apprende direttamente per trasmissione orale (come il bambino, che dal punto di vista iniziatico rappresenta il neofita, apprende la lingua materna), vale a dire, simbolicamente, la lingua che serve da veicolo alla tradizione e che, sotto questo profilo, può identificarsi con la lingua primordiale ed universale. Tutto ciò, come è possibile notare, tocca da vicino la questione della misteriosa «lingua siriaca» (loghah suryaniyah) di cui abbiamo parlato in altri articoli (4); è vero che per Dante questa «Lingua della rivelazione», sembra sia stata l’ebraico, ma, come abbiamo detto allora, una tale affermazione non dev’essere presa alla lettera, in quanto che si può affermare la stessa cosa per tutte le lingue che hanno un carattere «sacro», vale a dire per tutte le lingue nelle quali si esprimono le diverse forme tradizionali regolari (5).

Secondo Dante, la lingua parlata dal primo uomo, e creata direttamente da Dio, fu mantenuta di suoi discendenti fino all’edificazione della torre di Babele; in seguito, «hanc forman locutionis hereditati sunt filii Heber…; hiis solis post confusionem remansi»; ma questi «figli di Heber», piuttosto che un popolo determinato, non sono tutti coloro che hanno conservato la tradizione? Il nome di «Israele» non è stato spesso impiegato per indicare, anche, l’insieme degli iniziati, qualunque fosse la loro origine etnica? E costoro, che di fatto costituiscono realmente «il popolo eletto», non possiedono la lingua universale che permette a tutti loro di comprendersi, vale a dire, non possiedono la conoscenza della tradizione unica che è celata sotto tutte le forme particolari (6)?

Torre di Babele, dipinto di Pieter Bruegel del 1563 (cliccare per ingrendire)

D’altronde, se Dante avesse pensato che si trattava realmente della lingua ebraica, non avrebbe potuto dire che la Chiesa (indicata col nome enigmatico di Petramala) crede di parlare la lingua di Adamo, perché essa non parla l’ebraico, ma il latino, per il quale non sembra che qualcuno abbia mai rivendicato la qualità di lingua originaria; ma, se con ciò che dice Dante si intende che la Chiesa crede di insegnare la vera dottrina della rivelazione, ecco che tutto diventa perfettamente comprensibile. Inoltre, anche ammettendo che i primi Cristiani, che possedevano questa vera dottrina, abbiano effettivamente parlato l’ebraico (cosa che sarebbe storicamente inesatta, perché l’aramaico non è l’ebraico, più di quanto l’italiano non sia il latino), i «Fedeli d’Amore», che si consideravano i loro continuatori, non hanno mai preteso di riprendere questa lingua per opporla al latino, come sarebbe stato logico che facessero se ci si volesse attenere alla interpretazione letterale (7).

Tutto questo è molto lontano dal significato puramente «filologico» che abitualmente viene attribuito a questo trattato di Dante e, in sostanza, si tratta di ben altro che dell’idioma italiano; ed anche ciò che realmente si riferisce ad esso può avere, contemporaneamente, un valore simbolico. Del pari, allorché Dante contrappone una città o una regione ad un’altra, non si tratta semplicemente di una opposizione linguistica; o quando cita certi nomi come: Petramala, Papienses, Aquilegienses, in queste sue scelte (anche a voler trascurare la considerazione di un simbolismo geografico propriamente detto) vi sono delle intenzioni fin troppo trasparenti, come già aveva fatto notare Rossetti; e naturalmente, per comprendere il vero senso di questo o di quel termine, apparentemente insignificante, occorre spesso rifarsi alla terminologia convenzionale dei «Fedeli d’Amore». Scarlata fa osservare, molto giustamente, che quasi sempre sono gli esempi che danno la chiave del contesto (compresi quegli esempi che sembrano avere solo un valore puramente retorico o grammaticale); in effetti, si trattava di un eccellente mezzo per distogliere l’attenzione dei «profani», i quali potevano solo scorgervi delle frasi qualsiasi e senza importanza; si potrebbe dire che questi esempi giuocano qui un ruolo paragonabile a quello dei «miti» nei dialoghi di Platone, e basta considerare a cosa, i «critici» universitari, hanno ridotto quest’ultimi, per comprendere l’efficacia del procedimento, che consiste nel mettere «fuori causa», se così si può dire, proprio ciò che è invece più importante.

Insomma, sembra che Dante mirasse essenzialmente alla costituzione di un linguaggio che, per mezzo della sovrapposizione di molteplici significati, fosse atto ad esprimere, nei limiti del possibile, la dottrina esoterica; e se la codificazione di un tale linguaggio può essere qualificata come «retorica», si tratta in ogni caso di una retorica di un genere alquanto speciale, tanto lontana da quello che oggi si intende con questo termine, per quanto lo è la poesia dei «Fedeli d’Amore» da quella dei moderni; quest’ultimi, infatti, hanno come loro predecessori quei litterali a cui Dante. rimprovera di rimare «stoltamente», senza includere nei loro versi alcun significato profondo (8). Secondo l’espressione di L. Valli, che abbiamo già citato, Dante si proponeva tutt’altro che di «fare della letteratura», e ciò equivale col dire che egli era esattamente tutto il contrario di un moderno; la sua opera, lungi dall’opporsi allo spirito del Medioevo, ne è una delle sintesi più perfette, allo stesso titolo di quella dei costruttori di cattedrali, ed i più elementari dati iniziatici permettono di comprendere facilmente che in questo accostamento vi sono delle ragioni molto profonde.

Note dell’autore

(1) Le Origini della Letteratura Italiana nel Pensiero di Dante, Palermo, 1930;
(2) Senza dubbio, occorre intendere che si tratta di tre significati superiori a quello letterale, di modo che, con quest’ultimo, si avrebbero i quattro significati di cui Dante parla nel Convito, così come abbiamo indicato all’inizio del nostro studio su L’Esoterismo di Dante;
(3) Secondo l’ordine gerarchico normale, l’iniziato è al di sopra del «chierico» ordinario (foss’anche un teologo), così come il «laico» è naturalmente al di sotto di questi;
(4) Les Science des Lettres, febbraio 1931, e La Langue des Oiseaux, novembre 1931, pubblicati ne Le Voile d’Isis, Parigi. (Oggi: La Scienza delle Lettere e La Lingua degli Uccelli, rispettivamente cap. VI e VII di Simboli della Scienza sacra);
(5) È ovvio che quando si oppone «lingue volgari» a «lingue sacre», il termine «volgare» è assunto nel suo significato abituale; se invece lo si volesse intendere nel senso che gli dà Dante, l’espressione «lingue volgari» non sarebbe più utilizzabile e, per evitare ogni equivoco, bisognerebbe allora parlare di «lingue profane»;
(6) Sull’argomento, si veda il cap. XXXVII di Considerazioni sulla Via Iniziatica, dal titolo: Il Dono delle Lingue;
(7) Aggiungiamo anche che, come ha notato Scarlata, l’idea della continuità della lingua primitiva è contraddetta dalle parole che lo stesso Dante, nella Divina Commedia, fa dire ad Adamo (Paradiso, XXVI, 124). Queste parole, d’altronde, possono spiegarsi tenendo conto dei periodi ciclici: la lingua originaria fu tutta spenta dalla fine del Krita-Yuga, quindi da molto prima della vicenda del «popolo di Nemrod», che corrisponde solo all’inizio del Kali-Yuga;
(8) Accade la stessa cosa per i predecessori dei chimici moderni che non sono i veri alchimisti, ma i «soffiatori»; si tratti delle scienze o delle arti, la concezione puramente «profana» dei moderni è sempre il risultato di una simile degenerazione.

Nell’immagine in evidenza, Dante raffigurato da Luca Signorelli, affresco, 1499-1502, particolare tratto dalle Storie degli ultimi giorni, cappella di San Brizio, Duomo di Orvieto.



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"In una civiltà tradizionale è quasi inconcepibile che un uomo pretenda di rivendicare la proprietà di una idea e, in ogni caso, in essa chi così facesse, con ciò stesso si priverebbe di ogni credito e di ogni autorità, poiché condannerebbe l’idea a non esser più che una specie di fantasia senza alcuna reale portata. Se una idea è vera, essa appartiene in egual modo a tutti coloro che sono capaci di comprenderla; se è falsa, non c’è da gloriarsi di averla inventata. Una idea vera non può essere «nuova», poiché la verità non è un prodotto dello spirito umano, essa esiste indipendentemente da noi, e noi abbiamo solo da conoscerla. Fuor da tale conoscenza, non può esservi che l’errore" (R. Guénon)

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