Il Demiurgo – dall’Unità alla Dualità

Torniamo oggi al filone inaugurato con l’inizio dello studio dell’androgino primordiale, delle origini dell’uomo e della sua “caduta”, con tutte le possibili, relative connessioni tematiche, riagganciandoci all’articolo evoliano “Mefistofele e l’androgino”, da noi ripubblicato con l’intitolazione “Le due concezioni della divinità”, per un interessante excursus sul delicatissimo tema dell’origine e del significato del “male” nella vita umana, che tante difficoltà ha creato e crea tra filosofi e teologi, senza ovviamente alcuna pretesa di essere esaurienti sull’argomento.

Evola osservava nell’articolo citato come lungo la via deduttiva alla divinità, legata all’approccio di tipo fideistico al sacro, “nascono difficoltà di non poco rilievo quando si assume l’idea di un Dio personale con caratteri unicamente positivi, luminosi e, diciamo così, «morali». Infatti, nel mondo e nell’esistenza, è rilevabile anche il male, vi agiscono anche processi distruttivi e forze oscure, ed allora è da chiedersi come tutto ciò si concili con quella idea di Dio. Tale conciliazione è il problema che si è posto un ramo della teologia, che si chiama la «teodicea»: nel quadro del cristianesimo non si può dire che essa lo abbia mai risolto in modo soddisfacente”.

Il primo storico numero della rivista “La Gnose” fondata da Guénon nel 1909, con lo pseudonimo di Palingenius, con cui firmò anche il celebre articolo “Il Demiurgo”, come si può leggere nel frontespizio

Nella prospettiva induttiva al sacro, quella propria all’approccio metafisico in senso stretto, la questione del “male” trova invece una soluzione di sintesi nell’Unità superiore e trascendente, che tutto in sé racchiude, sovrarazionalmente: “una concezione, diciamo così, bifronte della divinità, tale da corrispondere ad una «coincidentia oppositorum»: un Dio che comprende in sé gli opposti, ciò che è luminoso e ciò che è tenebroso, il creativo e il distruttivo il bene e il male”, scriveva Evola.

Ebbene, su questo fondamentale e problematico argomento, passiamo oggi la parola ad un maestro della metafisica pura come René Guénon. Al giovane Guénon, precisamente, quello che, appena ventiduenne, nel 1909, con lo pseudonimo di “Palingenius” (il nome acquisito l’anno prima entrando nella “Chiesa Gnostica” di Fabre des Essarts, alias “Synesius”), scrisse sul n. 1 della rivista “La Gnose” un celebre articolo, “Il Demiurgo”, che, secondo l’interpretazione maggioritaria, è considerato il primo articolo del maestro di Blois. Nel periodo che va dal 1906 al 1909, René Guénon aveva frequentato la Scuola Ermetica, diretta da Papus, ed era stato ammesso nell’Ordine Martinista ed in altre organizzazioni collaterali. Nel 1909 aveva fondato proprio la rivista “La Gnose, dove molto avrebbe scritto e dove sarebbero apparse, in quegli anni, nonostante la giovanissima età, la prima stesura del Simbolismo della Croce, dell’Uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta e dei Principi del calcolo infinitesimale.

Ne “Il Demiurgo”, attraverso le sue già tipiche, serrate e ferree riflessioni, il ragazzo Guénon ci guida verso il tentativo di comprendere con le facoltà razionali ciò che è sovra-razionale, e, nello specifico, di comprendere il senso del “Male” rispetto al “Bene”, e più in generale di tutte le dualità e le opposizioni tipiche del mondo del manifestato, quale conseguenza puramente illusoria di una visione frammentaria, relativistica, disarticolata, individualistica del mondo, indotta dall’operare di una spinta interiore alla separazione, che crea l’inganno della falsa esistenza ed autonomia esteriore di potenze negative, ostili, opposte: è il dominio del Demiurgo, del “Principe di questo mondo”. In fondo, si tratta della trasposizione compiuta, sul piano metafisico, di quel che, in modo più grossolano poiché meramente razionalistico ed essoterico, al livello più basso di questo pur fondamentale piano, aveva proposto Marcione, citato da Evola nell’articolo di cui sopra.

Per facilitare la lettura e lo sforzo di comprensione dell’esposizione guénoniana, proponiamo l’articolo in due parti, ognuna divisa in brevi paragrafi esplicativi. Buona lettura.

Nell’immagine in evidenza, “Il demiurgo Urizen raccolto in preghiera mentre contempla il mondo che ha creato” (William Blake)

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di René Guénon (alias Palingenius) (*)

1. Premessa

Di tutti i problemi che costantemente hanno preoccupato gli uomini, ve ne è uno, quello dell’origine del male, che pare esser sempre stato il più difficile da risolvere, tanto da rivelarsi un ostacolo insormontabile per la maggior parte dei filosofi e soprattutto dei teologi: Si Deus est, unde Malum? Si non est, unde Bonum?

Il dilemma è effettivamente insolubile per coloro che considerano la Creazione come l’opera diretta di Dio e che, di conseguenza, sono obbligati a ritenerlo responsabile sia del Bene che del Male. Si dirà senza dubbio che questa responsabilità è in una certa misura attenuata dalla libertà delle creature; ma se le creature possono scegliere tra il Bene ed il Male, è segno che entrambi esistono già, almeno in principio, e se esse talvolta sono piuttosto propense a decidersi per il Male invece di essere sempre portate al Bene, ciò è dovuto al fatto che sono imperfette; ma come ha potuto Dio, se è perfetto, creare esseri imperfetti?

2. Perfezione come principio unico e causa prima

René Guénon nel 1908

È evidente che il perfetto non può generare l’imperfetto, perché, se così fosse, il perfetto dovrebbe contenere in se stesso l’imperfetto allo stato principiale ed allora non sarebbe più il perfetto. L’imperfetto non può dunque procedere dal perfetto per via di emanazione; potrebbe solo risultare dalla creazione ex nihilo; ma com’è possibile ammettere che qualcosa possa venire dal nulla, o, in altri termini, che possa esistere qualcosa che non abbia un principio? D’altronde, l’ammettere la creazione ex nihilo equivarrebbe ad ammettere l’annientamento finale degli esseri creati, poiché ciò che ha avuto un inizio deve anche avere una fine, e non vi sarebbe nulla di più illogico del parlare in tal caso di immortalità; del resto la creazione così intesa non è che un’assurdità, perché essa contraddice quel principio di causalità che nessun uomo ragionevole può in buona fede negare, per cui possiamo dire con Lucrezio «Ex nihilo nihil, ad nihilum nil posse reverti».

Niente può esistere che non abbia un principio; ma qual è questo principio? E non vi è in realtà un principio unico di tutte le cose? Se si considera l’Universo totale, è evidente che esso comprende tutte le cose, perché tutte le parti sono contenute nel Tutto; d’altra parte, il Tutto è propriamente illimitato, perché, se avesse un limite, ciò che è al di là di questo limite non sarebbe compreso nel Tutto, supposizione, questa, assurda. Ciò che non ha limiti può essere chiamato l’Infinito, e, comprendendo esso tutto, questo Infinito è il principio di tutte le cose.

D’altronde, l’Infinito è necessariamente unico, perché due infiniti che non fossero identici si escluderebbero a vicenda; ne consegue dunque che non vi è che un Principio unico di tutte le cose, e questo Principio è la Perfezione, poiché l’Infinito può esser tale solamente se esso è perfetto.

Così la Perfezione è il Principio supremo, la Causa prima; essa contiene tutte le cose in potenza, ed essa ha prodotto ogni cosa; ma allora, poiché non v’è che un Principio unico, che ne è di tutte le opposizioni che si colgono abitualmente nell’Universo: l’Essere ed il Non-Essere, lo Spirito e la Materia, il Bene ed il Male? Ci ritroviamo così di fronte alla domanda formulata all’inizio e che ora possiamo porre in un modo più generale: come ha potuto l’Unità produrre la Dualità?

3. Come  si è prodotta la dualità dall’Unità? Illusorietà di una distinzione.

a) Essere e Non Essere

Certuni hanno creduto di dover ammettere l’esistenza di due principi distinti, opposti l’uno all’altro; ma questa ipotesi è da scartarsi per quanto abbiamo precedentemente detto. Infatti questi due principi non possono essere entrambi infiniti, perché allora si escluderebbero a vicenda o si confonderebbero; se solo uno fosse infinito, esso sarebbe il principio dell’altro; e, se entrambi fossero finiti, non sarebbero veri principi, poiché dire che il finito può esistere di per se stesso equivarrebbe a sostenere che qualcosa possa venire dal nulla: infatti tutto ciò che è finito ha un inizio, logico anche se non cronologico. In tal caso, essendo entrambi finiti, essi devono procedere da un principio comune, quest’ultimo infinito, e così siamo ricondotti a considerare un Principio unico. Del resto, molte dottrine, abitualmente ritenute «dualistiche», non lo sono che apparentemente; nel Manicheismo, così come nella religione di Zoroastro, il dualismo era una dottrina puramente exoterica che celava la vera dottrina esoterica dell’Unità: Ormuzd e Ahriman sono entrambi generati da Zervané-Akerene e dovranno fondersi in lui alla fine dei tempi (1).

Mazdeismo-zoroastrismo: la celebre rappresentazione iconografica del Fravašay (Faravahar, fravashi), il doppio animico nella tradizione mazdea-persiana

La Dualità, nell’impossibilità di esistere di per stessa, è dunque necessariamente prodotta dall’Unità; ma in che modo può prodursi? Per comprenderlo dobbiamo anzitutto considerare la Dualità nel suo aspetto meno particolaristico, quello dell’opposizione tra l’Essere ed il Non-Essere; ma poiché l’uno e l’altro sono necessariamente contenuti nella Perfezione totale, appare subito evidente che tale opposizione non può essere che apparente. Sarebbe dunque più giusto parlare solo di distinzione; ma in cosa consiste tale distinzione? esiste in realtà indipendentemente da noi, od è semplicemente una conseguenza del nostro modo di vedere le cose?

Se per Non-Essere si intende il nulla, è inutile parlarne: infatti cosa si può dire del nulla? Non così se si considera il Non-Essere come possibilità d’Essere; l’Essere è allora la manifestazione del Non-Essere inteso in questo modo, ed è contenuto allo stato potenziale in tale Non-Essere. Il rapporto tra il Non-Essere e l’Essere è dunque il rapporto tra il non-manifestato ed il manifestato, e si può affermare che il non-manifestato è superiore al manifestato, di cui è il principio, poiché contiene in potenza tutto il manifestato ed anche ciò che non è, che non fu, né sarà mai manifestato.

Nello stesso tempo, è evidente che non si può parlare qui di una distinzione reale, poiché il manifestato è contenuto in principio nel non-manifestato; tuttavia, noi non possiamo concepire direttamente il non-manifestato se non attraverso il manifestato; questa distinzione dunque esiste, ma unicamente per noi.

b) Spirito e Materia (primo cenno) e Ternarietà

Se ciò vale per la Dualità colta nel suo aspetto di distinzione tra l’Essere ed il Non-Essere, a maggior ragione varrà per tutti gli altri aspetti della Dualità. A questo punto ci si accorge quanto illusoria sia la distinzione tra Spirito e Materia, sulla quale nondimeno, soprattutto nei tempi moderni, è stato costruito un così gran numero di sistemi filosofici aventi appunto tale distinzione a fondamento delle loro teorie, va da sé che se tale distinzione venisse meno, nulla più rimarrebbe di tutti questi sistemi. Inoltre possiamo notare che la Dualità non può esistere senza il Ternario: se il Principio supremo, differenziandosi, dà luogo a due elementi, i quali del resto sono distinti solo in quanto li reputiamo tali, questi due elementi ed il loro Principio comune formano un Ternario, sicché in realtà è il Ternario e non il Binario ad essere immediatamente prodotto dalla prima differenziazione dell’Unità primordiale.

c) Bene e Male (prima riflessione)

Statua di Lucifero nella cattedrale di Saint-Paul di Liegi (Belgio)

Ritorniamo ora alla distinzione tra il Bene ed il Male, la quale è appunto un aspetto particolare della Dualità. Quando si oppone il Bene al Male, generalmente si fa consistere il Bene nella Perfezione, o quantomeno in una tendenza alla Perfezione, ed allora il Male non è nient’altro che l’imperfezione: ma come può l’imperfetto opporsi alla Perfezione? Abbiamo visto che la Perfezione è il principio di tutte le cose e che, d’altra parte, non può produrre l’imperfetto, donde risulta che in realtà l’imperfetto non esiste, o almeno non può esistere che come elemento costitutivo della Perfezione totale; ma allora esso non può essere realmente imperfetto, e quel che noi chiamiamo imperfezione non è che relatività. Per cui un «errore» non è che una verità relativa: tutti gli errori, infatti, devono essere contenuti nella Verità totale, poiché, diversamente, questa trovandosi limitata da qualcosa di esteriore a se stessa non sarebbe perfetta, cioè non sarebbe la Verità. Gli errori, o piuttosto le verità relative, non sono che frammenti della Verità totale; è dunque la frammentazione a produrre la relatività, per cui la si potrebbe ritenere la causa del Male, sempre che «relatività» fosse realmente sinonimo di «imperfezione»; sennonché il Male non è tale se non quando lo si distingue dal Bene.

D’altra parte, se si chiama Bene il Perfetto, il relativo non ne è realmente distinto, poiché v’è contenuto in principio; dunque, dal punto di vista universale, il Male non esiste. Esso esiste solo, se si considerano le cose sotto un aspetto frammentario ed analitico, separandole dal loro Principio comune invece di vederle sinteticamente contenute in questo Principio, che è la Perfezione. Così si crea l’imperfetto; e distinguendo il Male dal Bene, li si crea entrambi proprio con questa distinzione, poiché il Bene ed il Male sono tali solamente se messi in opposizione l’uno all’altro; inoltre, se il Male non esiste, non si può neppure parlare di Bene nel senso ordinariamente attributo a questa parola, ma solamente di Perfezione. È dunque la fatale illusione del Dualismo ad attuare il Bene ed il Male, ossia, considerando le cose da un punto di vista particolare, a sostituire la Molteplicità all’Unità, imprigionando così gli esseri su cui esercita il suo potere nel dominio della confusone e della divisione: tale dominio è l’Impero del Demiurgo.

d) Il simbolismo della “Caduta” biblica

Quanto abbiamo detto sulla distinzione tra il Bene ed il Male permette di comprendere il simbolismo della Caduta originale, almeno nella misura in cui queste cose possono venir espresse. La frammentazione della Verità totale, o del Verbo, che è in fondo la stessa cosa, frammentazione che produce la relatività, è identica alla segmentazione dell’Adam Kadmon, le cui separate particelle costituiscono l’Adam Protoplastes, cioè il primo formatore; la causa di tale segmentazione è Nahash, l’Egoismo o il desiderio dell’esistenza individuale. Nahash non è affatto una causa esteriore all’uomo, ma è in lui, inizialmente allo stato potenziale, diventandogli esteriore nella misura in cui l’uomo stesso l’esteriorizza; questo istinto di separatività, per la sua natura di provocatore di divisione, spinge l’uomo a gustare del frutto dell’Albero della Scienza del Bene e del Male. Allora gli occhi dell’uomo si aprono, perché ciò che era interiore è diventato esteriore in conseguenza della separazione che si è prodotta tra gli esseri; questi appaiono allora rivestiti di forme, le quali limitano e definiscono le loro esistenze individuali; e l’uomo pure è rivestito di una forma, o, secondo l’espressione biblica, di una «tunica di pelle»; egli si trova così racchiuso nel dominio del Bene e del Male, nell’Impero del Demiurgo.

e) il “Demiurgo”, Principe di questo mondo, e l’Avversario (“Shaitan”, Satana)

“La Cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso Terrestre” di Gustave Doré

Da questa breve esposizione per sommi capi e molto incompleta, risulta che il Demiurgo non è affatto una potenza esteriore all’uomo: non è che la stessa volontà dell’uomo allorquando realizza la distinzione tra il Bene ed il Male. Ma in seguito, limitato in quanto essere individuale da quella volontà che in realtà è la sua, l’uomo la ritiene come qualcosa di esteriore, e così essa diventa distinta da lui, non solo, ma opponendosi essa agli sforzi che l’uomo compie per uscire dal dominio in cui s’è egli stesso racchiuso, egli la considera come una potenza ostile, e la chiama Shaitan, l’Avversario.

Facciamo notare, del resto, che questo Avversario, che noi stessi abbiamo creato e che creiamo ad ogni istante (infatti non si deve pensare che la cosa si svolga in un tempo o in un luogo determinato) non è affatto cattivo in se stesso, ma è solamente l’insieme di tutto ciò che ci è contrario.

Da un punto di vista più generale, il Demiurgo, quale potenza distinta ed in quanto tale, è appunto il «Principe di questo Mondo» di cui si parla nel Vangelo di S. Giovanni; anche qui, egli non è propriamente parlando né buono né cattivo, o piuttosto egli è l’uno e l’altro, poiché contiene in se stesso il Bene ed il Male. Il suo dominio è il Mondo inferiore, che si oppone al Mondo superiore o all’Universo principiale da cui è stato separato, ma occorre rilevare che questa separazione non è mai stata reale in senso assoluto; essa è reale solo nella misura in cui la realizziamo, perché questo Mondo inferiore è contenuto allo stato potenziale nell’Universo principiale, essendo evidente che una parte non può realmente uscire dal Tutto. È questo, d’altronde, che impedisce alla Caduta di continuare indefinitamente: questa è un’espressione del tutto simbolica, e la profondità della Caduta è semplicemente la misura del grado di separazione. Con questa restrizione, il Demiurgo si oppone all’Adam Kadmon o all’Umanità principiale, manifestazione del Verbo, solamente come una sorta di riflesso, poiché non ne è affatto un’emanazione e non esiste di per se stesso; ciò è rappresentato dalla figura dei due Vegliardi dello Zohar e anche dai due triangoli del Sigillo di Salomone.

Ciò ci induce a considerare il Demiurgo come un riflesso tenebroso ed invertito dell’Essere, poiché altro non può essere in realtà. Esso non è dunque un essere, ma, secondo quanto abbiamo precedentemente detto, può venire inteso come la collettività degli esseri nella misura in cui essi sono distinti o, se si preferisce, in quanto essi hanno un’esistenza individuale. Noi siamo esseri distinti perché creiamo noi stessi la distinzione, la quale non esiste se non nella misura in cui la creiamo; creando questa distinzione, siamo gli elementi del Demiurgo, e, fintantoché siamo esseri distinti, apparteniamo al dominio di questo stesso Demiurgo, il quale è appunto la «Creazione».

f) il Demiurgo e la Creazione

Tutti gli elementi della Creazione, cioè le creature, sono dunque contenuti nel Demiurgo, stesso, il quale non può trarli che da se stesso, perché la creazione ex nihilo è impossibile. Considerato come Creatore, il Demiurgo produce per prima cosa la divisione, dalla quale non è realmente distinto, poiché egli non esiste che nella misura in cui la divisione stessa esiste; inoltre, siccome la divisione è la fonte dell’esistenza individuale, ed essendo questa definita dalla forma, il Demiurgo deve essere considerato come formatore, ed allora egli è identico all’Adam Protoplastes, così come già abbiamo visto. Si può ancora dire che il Demiurgo crea la Materia – intendendo con questa parola il caos primordiale, crogiuolo di tutte le forme – per poi organizzare questa Materia caotica e tenebrosa, ove regna la confusione, e farne scaturire le molteplici forme il cui insieme costituisce la Creazione.

Il Demiurgo

Si deve ora dire che questa Creazione sia imperfetta? Certamente non la si può considerare perfetta; ma se ci si pone dal punto di vista universale, essa è uno degli elementi costitutivi della Perfezione totale. La Creazione è imperfetta solo se la si considera analiticamente e separata dal suo Principio, e lo è d’altronde nella misura stessa in cui essa è il dominio del Demiurgo; ma, se l’imperfetto non è che un elemento del Perfetto, esso non sarà veramente imperfetto, per cui in realtà il Demiurgo ed il suo dominio non esistono, dal punto di vista universale, così come non esiste la distinzione tra il Bene e il Male. Ne consegue pure, sempre dallo stesso punto di vista, che la Materia non esiste: l’apparenza materiale non è che un’illusione, anche se non bisogna concludere che gli esseri che hanno questa apparenza non esistano, perché altrimenti si cadrebbe in un’altra illusione, quella di un idealismo esagerato e mal compreso.

g) Spirito e Materia

Se la Materia non esiste, per ciò stesso sparisce la distinzione tra Spirito e Materia. Tutto è Spirito in realtà, ma questo termine deve essere inteso in un senso del tutto diverso da quello attribuitogli dalla maggioranza dei filosofi moderni. Costoro, infatti, pur opponendo lo Spirito alla Materia, non lo considerano affatto indipendente dalla forma, per cui si può domandare in che cosa esso si differenzi dalla Materia; e se si afferma che esso è inesteso, a differenza della Materia che è estesa, come si può sostenere che l’inesteso possa esser rivestito di una forma? Del resto, perché questo volere definire lo Spirito? Che ciò avvenga con il pensiero o altrimenti, è sempre con una forma che si cerca di definirlo, ed allora non si tratterà più dello Spirito. In realtà, lo Spirito universale è l’Essere, e non questo o quell’altro essere particolare; è il Principio di tutti gli esseri, e tutti li contiene: perciò tutto è Spirito.

Quando l’uomo perviene alla conoscenza reale di questa verità, identifica se stesso ed ogni cosa allo Spirito Universale, ed allora ogni distinzione per lui scompare, ed egli contempla tutte le cose come in se stesso e non più come esteriori, perché l’illusione svanisce di fronte alla Verità, come l’ombra davanti al sole. Così, da questa stessa conoscenza l’uomo si trova liberato dai legami della Materia e dell’esistenza individuale, non è più soggetto alla dominazione del «Principe di questo Mondo», egli non appartiene più all’Impero del Demiurgo.

(*) È questo, crediamo, il primo scritto di René Guénon; esso fu pubblicato nel 1909 nel n. 1 di La Gnose. L’Autore, allora ventiduenne, firmava con lo pseudonimo di Palingenius (Rivista di Studi Tradizionali, n. 33).

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Nota redazionale

(1) da notare come invece Evola, nell’articolo “Mefistofele e l’androgino”, da noi ripubblicato con l’intitolazione “Le due concezioni della divinità”, insistesse sul carattere strettamente dualistico del mazdeismo persiano.

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"In una civiltà tradizionale è quasi inconcepibile che un uomo pretenda di rivendicare la proprietà di una idea e, in ogni caso, in essa chi così facesse, con ciò stesso si priverebbe di ogni credito e di ogni autorità, poiché condannerebbe l’idea a non esser più che una specie di fantasia senza alcuna reale portata. Se una idea è vera, essa appartiene in egual modo a tutti coloro che sono capaci di comprenderla; se è falsa, non c’è da gloriarsi di averla inventata. Una idea vera non può essere «nuova», poiché la verità non è un prodotto dello spirito umano, essa esiste indipendentemente da noi, e noi abbiamo solo da conoscerla. Fuor da tale conoscenza, non può esservi che l’errore" (R. Guénon)

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