Il Fascio

Riagganciandoci allo studio di Mariano Bizzarri, da noi pubblicato di recente in due parti,  la prima dedicata al simbolismo del Fascio, la seconda a quello dell’Aquila, presentiamo oggi, a corredo, un primo articolo di Evola, che, partendo da alcune premesse a carattere più generale, si sofferma proprio sui significati del Fascio quale simbolo tradizionale.

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di Julius Evola

Tratto da “la Vita Italiana” XX, 230, maggio 1932, pp. 588-594 (con l’intitolazione “Del fascio quale simbolo”), successivamente inserito nell’antologia “Simboli della Tradizione occidentale”, Arthos, 1977.

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La potenza del simbolo è più grande della potenza degli uomini” – fu detto da Olimpiodoro (1).

E Bachofen: “Il simbolo desta un presagio, mentre la lingua può solo spiegare. Il simbolo fa vibrare le corde dello spirito tutte insieme, mentre la mente è costretta a darsi ad un singolo pensiero per volta. Il simbolo spinge le sue radici fino alle più segrete profondità dell’anima, mentre la lingua giunge solo a sfiorare, come un lieve alito di vento, la superficie dell’intelletto: quello è orientato verso l’interno, questa verso l’esterno. Solo al simbolo riesce di raccogliere nella sintesi di una impressione unitaria gli elementi più diversi. Le parole fanno finito l’infinito, i simboli conducono invece lo spirito di là dalle frontiere del mondo finito e diveniente, verso il mondo infinito e reale” (2).

Le correnti più recenti e vive della filosofia della cultura sono caratterizzate appunto da un interesse crescente per il mondo del simbolo e del mito, concepiti non come poetiche e arbitrarie invenzioni, ma come drammatizzazioni che celano significati profondi dei tempi più lontani.

E a questo interesse si associa congenialmente uno sguardo rivolto verso il passato, verso le “origini”, dove, al luogo dell’umanità animalesca supposta dal darwinismo e dall’evoluzionismo, ai nuovi ricercatori sembrano invece palesarsi le tracce di una spiritualità primordiale insospettata.

Nelle presenti note noi vogliamo accennare il senso più profondo che risulta per il simbolismo del Fascio da quanto risulta da un tale ordine di ricerche, ancora non troppo note fra noi.

Come punto di partenza, si possono prendere i risultati di una indagine mastodontica sulla preistoria, dovuta all’olandese Hermann Wirth, (3) però accennando appena al suo lato antropologico. Il Wirth si crede sufficientemente fondato per ammettere l’esistenza di una civiltà cosmico-simbolica unitaria, risalente al megalitico, se non oltre; ed altresì l’esistenza di una razza originaria, portatrice di essa cultura, che in immense ondate si sarebbe spinta prima dal Nord al Sud, poi da Occidente ad Oriente, dando luogo a civiltà derivate similari, originariamente improntate tutte ad uno stesso spirito, controssegnate da stessi simboli e culti. Su questa tesi ardita, che non è di un “teosofo” o di un dilettante, ma di un tecnico, e che una apposita società si è data a controllare e precisare, noi qui non ci soffermeremo. Quel che ci serve, è accennare al tema unitario che – per il Wirth – sarebbe stato il cuore di questa civiltà primordiale, e che in realtà può servire da punto di riferimento anche indipendentemente dall’ipotesi suaccennata, intesa alla lettera.

Si tratta della vicenda del sole nell’anno, presa in un significato reale e simbolico ad un tempo. Il sole: principio manifestato che come calore e come luce risveglia la vita. Detto “seme di vita”, “vita”, “luce delle terre” (il landa ljóme runico), nelle più antiche ideografie il suo segno esprime altresì l’”uomo”. E come nel suo corso annuale il sole muore e rinasce, ha inverno e primavera, così anche l’uomo ha il suo anno, muore e risorge. L’anno solare o “dio-anno” come espressione di una legge universale di rinnovamento, di rinascita – tale sarebbe stato il centro di una esperienza spirituale primordiale, i cui echi, peraltro, si ritrovano un po’ dappertutto, e che del resto non da adesso sono stati messi in rilievo dalla scienza comparata delle religioni, anche presso ad attitudini e ipotesi molto diverse da quella del Wirth.

Nel mito solare un punto ha però avuta sempre una importanza speciale, fin dalla più alta preistoria, fin dalla stessa “civiltà dei dolmen”; il punto in cui la luce solare sembra tramontare ed estingersi, abbandonare la terra desolata su cui ecco che poi, di nuovo, risplende: è il solstizio d’inverno. Qui appare un simbolo fondamentale: l’ascia. Qui il “dio-anno” ha il segno dell’”ascia”, è il “dio-ascia” o “dio-spina” che spezza in due, arco ascendente e arco discendente, il segno dell’anno, assai spesso formato da un circolo (4). Qui, dunque, la divisione simbolico-calendaria si compie, si inizia il nuovo ciclo – il nuovo anno, la nuova vita – la “luce” “nasce” o “rinasce”. Si inizia una nuova “serie sacra”.

Il Wirth chiama “serie sacra” una serie di dodici segni fondamentali, i quali avrebbero corrispondenza con altrettante fasi del sole dell’anno – “momenti” o aspetti del dio – determinate dalla relazione con i dodici segni dell zodiaco. Il Wirth crede di poter ravvisare uniformemente nelle varie tracce di civiltà di ceppo nordico-atlantico, in Occidente e in Oriente, simili “serie sacre” che, peraltro, avrebbero raccolti significati e valori molteplici: i segni della “serie sacra” sarebbero valsi simultaneamente sia come notazioni originarie del tempo e degli astri, sia come segni base per un alfabeto preistorico (tracce del linearismo pregeroglifico egizio, amoritico, cinese, ecc.), sia come corrispondenza grafica di certe voci, radici di un linguaggio antichissimo non del tutto cancellatasi negli idiomi più recenti. Là dove al solstizio d’inverno il sole risorge, e si pone il segno iniziale del nuovo ciclo, “la bocca si apre” e “nasce la lingua”. In realtà, nella antica scrittura egizia e sumerica il geroglifico del sole che sorge ha anche il valore di “bocca che si apre”, “lingua”, “parola”. Ma “parlare”, in quelle tradizioni, a sua volta ha anche il valore di “creare” – la “parola” del “dio” – di Râ – è creatrice.

Riassumendo, e portando in universale ciò che è contenuto potenzialmente nelle ricorrenze di una tale simbologia, noi abbiamo dunque un significato di “creazione” che simultaneamente è “nascita solare”, “luce”, significato connesso al numero dodici delle “serie sacre”, che esprime il completo sviluppo del nuovo principio. Abbiamo inoltre l’aspetto “ascia” del dio simbolico nel sosltizio d’inverno, che, con riferimento alle due parti o archi da esso tagliati – l’uno, di tenebroso “inverno”, l’altro di rinascita solare – appare spesso nelle più antiche tracce sotto forma di doppia ascia o ascia bicuspide, bipenne o labrys. A questo segno solare si connette altresì un significato eorico e guerriero: con folgore e ascia bicuspide il dio Merodak combatte il mostro del caos Tiamat; doppia ascia o doppio martello hanno i paleogermanici Tor e Tarann, che sono simultaneamente divinità folgoranti delle battaglie; l’ascia bicuspide è la preda strappata dall’eroe Eracle nella sua lotta simbolica contro le Amazzoni, e da essa lo Zeus cario trae il nome, Zeus Labrandeus; e così via. In generale, sta legato ad un tale segno il significato che si ritrova in tutti quei miti o leggende, ove eroi solari lottano contro mostri o draghi, i quali personificano le forze oscure e selvaggie del caos, cioè contro quello stesso elemento di tenebra da cui – nel più vasto mito incarnato dalla stessa natura – il sole, rialzatosi, risorge vittorioso: natalis solis invicti.

Quanto al numero dodici, per via della sua corrispondenza urano-solare, noi vediamo che esso ricorre dovunque si sia costituito un centro il quale, in un modo o nell’altro, abbia incarnato o cercato di incarnare quella tradizione che, in un senso analogico e eminente, possiamo appunto chiamare “solare”, o dovunque il mito o la leggenda abbiano dato in figurazioni o personificazioni simboliche il tipo di una tale reggenza. Per esempi, qui vi sarebbe solo l’imbarazzo della scelta, ai dodici Aditya solari fanno riscontro, nella tradizione indù, le dodici partizioni delle Leggi di Manu. Dodici sono i grandi Namshan del “consiglio circolare” secondo la tradizione tibetana, e dodici sarebbero stati, secondo quella cinese, i discepoli di Laotze. Non diverso è il numero delle porte della “Gerusalemme celeste” nella tradizione ebraica e quello stesso dei discepoli del Cristo. Dodici tappe compie l’eroe caldeo Gilgamesh lungo la “via solare” per raggiungere la terra “di là dalle acque della morte”, e dodici “fatiche” compie Eracle. Dodici erano le grandi divinità olimpiche e dodici i principali cavalieri della “Tavola Rotonda” di Re Artù e della leggenda del Graal, così come i Conti palatini di Carlomagno. E molte altre corrispondenze potrebbero esser facilmente trovate. Veder in tutto ciò del semplice “caso” ci sembra troppo facile. A nostro avviso, è molto più saggio presentire qui tracce più o meno coscienti di un unico tema, di un unico significato, di una unica tradizione, storica o superstorica che sia, affiorata qua e là attraverso vie sotterranee, tanto sul piano del mito quanto su quello della realtà (5).

Giano bifronte: il terzo volto è quello occulto.

Ora, tracce del genere furono presenti anche nella più antica romanità e, a dir vero, in modo caratteristico, sin dalle origini. Non si cela forse un occulto significato nel fatto che, secondo la tradizione, Romolo, per aver visto dodici avvoltoi, ebbe diritto di dare il suo nome alla città eterna? E che dodici sarebbe stato il numero degli ancilia statuito da Numa per il segno, ricevuto dal “cielo”, della protezione divina? (6) Dodici, in ogni modo, furono a Roma gli altari del dio Giano, il quale non è che una figurazione del “dio-anno”, il dio dei cominciamenti non privo di relazione con lo stesso “demone” della guerra – cioè con la potenza travolgente dell’elemento eroico: ché era lo scatenamento di un tale demone che voleva significare, secondo quanto riferisce Virgilio (7), il fatto che solo in tempo di guerra il tempio di tale dio era lasciato aperto. Dodici – come quelle greche – sono peraltro le massime divinità romane secondo Varrone (8); dodici è il numero dei sacerdoti di vari collegi romani fra i più antichi – p. es. gli Arvali e i Salii – dodici è il numero dei littori istituiti da Romolo – come dodici, infine, sono le verghe dello stesso Fascio romano, secondo quanto apparte dai fasci capitolini che ancora esistono.

Così noi giungiamo al punto centrale – abbiamo tutti gli elementi occorrenti per comprendere sin nell’intimo ciò che di più profondo può essere racchiuso in questo simbolo massimamente significativo per la romanità. Il fascio romano si componeva di due elementi: appunto delle dodici verghe – e di un’ascia, che talvolta è un’ascia bicuspide, proprio come l’ascia preistorica che si trova già nelle tracce neolitiche e fors’anche paleolitiche; come quella dei conquistatori “iperborei”, nei quali si acompagnava col segno della rinascita, l’”uomo con braccia levate”.

Vogliamo anche qui pensare al “caso”? Certo è che a pensar questo possono essere condotti coloro che – pur ammirandola – non vedono nella romanità che una grandezza puramente temporale, tenendo per superstizione “superata” tutto ciò che come rito e come simbolo fu inseparabile, in Roma, da ogni istituzione e da ogni manifestazione della vita, sia individuale che collettiva; sorridendo di ciò che al romano valse sino all’ultimo come la più ferma certezza, ossia che dagli “dei” – si intenda: l’elemento “divino” – fu fatta la potenza e l’aeternitas romana sino al limite della pax augusta et profunda stabilitasi imperialmente sino al limiti del mondo conosciuto. Da parte nostra, non sapremmo però condividere una tale attitudine.

littore con fascio sormontato da ascia bicuspide

Per noi Roma, oltre che una grandezza materiale, politico-giurifica e militare, fu una grandezza spirituale, anche se essa non sentì il bisogno di indugiare in astrazioni filosofiche e di darsi ad una malsana, evasionistica e anelante religiosità di tipo asiatico-semita. Noi non sapremmo “credere” che la romanità – così scrupolosa nella esatta determinazione sacrale anche di dettagli quasi insignificanti – abbia poi lasciato decidere al “caso” la scelta e la determinazione di un simbolo così centrale della sua civiltà, come il Fascio littorio. E se si considera d’altra parte in  che misura sempre permanesse nella magistratura romana un carattere sacrale, resta attendibile che negli stessi fasci dei littori potesse esser rinchiuso un significato superiore; che in realtà qui si tratti delle tracce di una sapienza antica e solare, del segno rituale di un destino e di una grandezza.

Intorno all’ascia, simbolo eroico e sacro che “separa”, che chiude una epoca e apre “trionfalmente” un nuovo ciclo, (9) una nuova creazione, come luce di un nuovo “anno” o saeculum, stanno raccolti i segni di una compiutezza, di uno sviluppo perfetto in senso “solare”: i dodici (10). Ora, nella storia del mondo, ben poche realtà appaiono più aderenti di quella romana ad un tale simbolo, più fedeli – in una aeternitas cesarea e in una universalità solare – a questa promessa rituale. E come Roma dalla storia è per questo passata alla superstoria, tanto da far predire anche agli scrittori della nuova religione semitica che “fin quando Roma resterà integra, le convulsioni paurose dell’età ultima non saranno da temersi – ma il giorno in cui cadrà l’umanità sarà prossima alla sua agonia” (11) – così di una analoga trasfigurazione resta anche suscettibile il suo simbolo, il Fascio.

Del simbolo, una molteplicità di aspetti che non si contraddicono, ma si gerarchizzano, è la caratteristica fondamentale. Di un simbolo, si può evocare il corpo. Ma se ne può evocare anche l’anima, quella parte che, – secondo le parole di Bachofen citate al principio – conduce lo spirito oltre ciò che è condizionato e contingente. Ciò valga anche per il Fascio. Esso può valere come segno per un piano politico – più profondamente, esso può valere come segno per un piano di eticità; infine esso può valere in sede di spiritualità che è, insieme, potenza.

Che la razza, che oggi ha rievocato i segni e il nome della romanità appunto come base per la volontà di una “rinascita” nazionale – giunga a darne in atto anche l’anima, ad adeguarsi secondo potenza ai significati di resurrezione “trionfale” e di compimento “solare” tacitamente chiusi nel segno arcaico dell’ascia e dei dodici: non altra può essere la speranza di coloro che ancora “credono” e che resistono di contro alle grandi ombre di decadenza spirituale che incombono sull’Occidente moderno.

Note

(1) OLIMPIODORO, Ms.Bibl. Royal P., Praxis mz., f. 72.

(2) J.J. BACHOFEN, Urreligion und antike Symbole, Leipzig, 1928, v.1, pp.283-284.

(3) H. WIRTH, Der Aufgang der Menschheit – untersuchungen zur Geschichte der Religion, Symbolik und Schift der atlantich-nordischen Rasse, Jena, 1928.

(4) Op, cit., pp. 17-18, 99, 204, 209 segg..

(5) A tale riguardo, vale segnalare l’opera assai notevole di R. GUENON, le Roi du Monde, Paris, 1928.

(6) vale la pena dare cenno sulla tradizione romana circa l’ancile, lo scudo ricevuto dal cielo come pignus imperii (cfr. OVIDIO, Fast., III, pp.259-398). Esso sarebbe stato ottenuto da Numa per assicurare la perennità di Roma, e, peraltro, esso equivale ad un simbolico bacino contenente l’ambrosia, cioè un cibo perenne immortalante (cfr. F. DUMEZIL, Le Festin d’Immortalitè, Paris, 1924, pp. 127-151). Ora, il collegio dei Salii, istituito da Numa per la custodia del pignus imperii, composto da dodici membri, insieme a questo scudo, aveva un altro simbolo: la Hasta, o lancia. Così nella romanità vediamo già, esattissimamente, gli stessi simboli che appaiono nel mito più caratteristico dell’altro grande periodo imperiale europeo, quello feudale-cavalleresco: nel mito del Graal. Infatti dodici, come già dicemmo, sono i cavalieri del Graal, che custodiscono nel tempo la lancia (=hasta) e la coppa, che, coma l’ancile, dà un mistico cibo perenne e immortalante. Rileviamo d’altra parte che, per quanto adattato al cristianesimo, il mito del Graal ha origini nordiche preistoriche: la coppa e la lancia figurano già, insieme alla nera “pietra del destino” che acclamava i veri re (ed è strano il caso che anche la romanità abbia conosciuto un lapis niger, che fu posto all’inizio della via Sacra) per gli oggetti mistici recati con loro in Irlanda della “razza divina” dei Tuatha Dé Dannan (cfr. C. SQUIRE, The Mythology of ancient Britain and Ireland, London 1909, p.34).

(7) VIRGILIO, aen 1, 293; VII,607.

(8) VARRONE, I, V, 74.

(9) potremmo facilmente rilevaare come l’elemento “trionfale” trovi, d’altra parte, espressione anche nel simbolo romano collegato al Fascio, l’Aquila, animale considerato esso stesso come “solare” dall’antichità. Secondo la tradizione, sotto forma di “aquila” si sarebbe involata dalla pira l’anima imperiale di Augusto (cfr. L. PRELLER, Roemische Mythologie, Berlin, 1858, pp.787, segg.); e quest’aquila corrisponde effettivamente all’altra che, nel mito, abbandonò il re paleoiranco Yima e che significava lo Hvarenô. Ora, lo Hvarenô, è la gloria concepita dagli Irani come un “fuoco celeste” o “solare” che consacra e fa immortali i re, testimoniandoli con la vittoria. (cfr. F. SPIEGEL, Eranische Altertumskunde, Leipzig, 1871, v.II, pp.42-43). È la tradizione di un’antichissima spiritualità di tipo eroico, che peraltro si lascia ritrovare anche in quasi tutte le altre grandi civiltà premoderne sopratutto ariane (cfr. il nostro scritto su il carattere sacro della regalità in La Nobiltà della Stirpe, n.1 del 1932).

(10) Non è quindi privo di interesse il fatto che taluno abbia cercato di ritrovare il dodici nel ciclo imperiale romano: SVETONIO, p. es., scrisse una Vita dei dodici Cesari. Dodici saecula, inoltre, una profezia etrusca aveva assegnato alla vita di Roma.

(11) Cfr. LATTANZIO, Inst., VII 25,6.



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